La città mai nata
«Ariva i barbari a cavalo / i ga do corni par capelo / xe ’na valanga che se buta / i ga la fame aretrata / i ga brusà tuto l’impero / scampemo che i ne vol magnar» (Arrivano i barbari a cavallo / hanno due corna per cappello / sono una valanga che avanza / hanno la fame arretrata / hanno bruciato tutto l’impero / scappiamo che ci vogliono mangiare). Questo è il testo di una canzone, al tempo definita «di lotta», composta nel 1973 da Alberto D’Amico, cantautore impegnato, scomparso nel giugno 2020 a Cuba, dove non per caso si era trasferito. Il testo è interessante per molti aspetti: traccia una controstoria di Venezia («el capo pirata se ciama doge», dice a un certo punto), porta le vicende della Serenissima fuori dalla retorica nostalgica delle «glorie del nostro leon» e le avvicina alle classi popolari. Grazie a questa canzone, che era sì semplice, ma rigorosa nella narrazione degli eventi, la storia di Venezia è diventata patrimonio di tutti e non solo degli abitatori di piani di palazzo tutti affreschi e stucchi. La conseguenza è che oggi il leone di San Marco fa battere cuori bipartisan, anche se purtroppo qualche formazione politica se n’è con successo impossessata.
Detto ciò, il testo è significativo di quella che comunemente si riteneva, e in parte si ritiene ancora, l’origine di Venezia: le orde degli unni fanno terra bruciata, gli abitanti dell’entroterra fuggono terrorizzati, abbandonano averi, case e certezze e si rifugiano tra le inospitali, ma sicure, isolette lagunari. La città nasce all’improvviso, quasi scaturita dal nulla.
Ebbene, non è andata così. L’acqua della laguna non pare tanto un luogo di rifugio, quanto di connessione. Gli insediamenti sono avvenuti in maniera lenta e progressiva, le relazioni tra gli abitanti della Venezia acquatica e della Venezia di terraferma sono rimaste salde e intense, e i barbari che hanno provocato trasferimenti ci sono sì stati, ma non erano gli unni di Attila nel 452, bensì i longobardi di Alboino, arrivati in Italia nel 568. La loro invasione dei territori che ci interessano è culminata nel 639 con la conquista di Altino e del capoluogo bizantino dell’entroterra, Oderzo, un paio d’anni più tardi. I profughi si rifugiano sul litorale, gli opitergini con il vescovo Magno a Equilio, più o meno l’attuale Jesolo; gli altinati che non vanno a Torcello si insediano in un lembo di terra asciutta (si fa per dire: è una storia molto umida quella delle origini di Venezia) tra due rami delle foci del Piave.
La chiesa di ciò che fino a quel momento era il porto di Altino, ovvero Torcello, viene ingrandita e abbellita, come testimonia la lapide del 639 della quale si è detto. Studi recenti tendono a posticiparla alla metà del secolo successivo e la pietra potrebbe celebrare l’avvenuta costruzione della basilica e non costituirne l’atto fondativo.
Venezia non è nemmeno mai nata: si è invece formata lentamente, per gemmazione dai centri precedenti. Il processo è durato parecchi secoli. Solo nel IX si può dire più o meno compiuta la Venezia che conosciamo oggi – al tempo si chiamava Rialto – e che ha prevalso sulle candidate alternative a diventare Venezia: Torcello, certo, ma anche Grado e Comacchio. Quando Liutprando nel 715 stipula un contratto per importare merci dall’Oriente, compreso il pepe, lo fa con i comacchiesi e non con i veneziani, segno che i primi erano più importanti dei secondi. Venezia si disferà della concorrenza nel 932 saccheggiando Comacchio e radendola al suolo.
Tutte le bufale che si raccontano riguardo alla fondazione sono state messe in circolazione dai veneziani stessi, e in tempi piuttosto remoti. Sono stati i cronisti medievali a diffondere la storiella della città sorta all’improvviso e sul nulla: i profughi si sarebbero piazzati in luoghi abitati da nessuno e sottoposti all’autorità di nessuno. Il racconto serviva a giustificare il mito della libertà originaria di Venezia: i suoi abitanti erano nati liberi e liberi erano sempre stati. Ovviamente i fatti hanno avuto un andamento diverso e i veneziani si sono con abilità barcamenati per secoli tra le potenze prevalenti del tempo: quella bizantina sul mare e quella, longobarda prima e franca poi, in terraferma.
Venezia, fin dalle sue origini, faceva da cerniera tra due mondi, tra Oriente e Occidente, una vocazione che si porterà avanti fino alla fine, un filo rosso millenario. La laguna è geograficamente bastarda, non è né terra, né mare, ma una zona mista dove l’elemento solido e quello liquido si mescolano, dove nemmeno l’acqua è definita: né dolce né salata – salmastra la si designa –, e i venetici prima e i veneziani poi hanno fatto del meticciato il loro punto di forza. Venezia «non è un territorio, ma piuttosto uno scherzo della natura, un’invenzione capricciosa delle acque scaricate da troppi fiumi», scrive Giorgio Cracco, medievista contemporaneo.
I miti delle origini
Gran cacciaballe, si diceva, i cronisti: hanno costruito una realtà che non esisteva, plasmandola a uso e consumo dei contemporanei, abbellendola perché soddisfacesse i loro scopi. Cassiodoro, calabrese di Squillace, prefetto del pretorio dell’ostrogoto Teodorico, transita per le lagune attorno al 538, quindi un secolo prima che i longobardi ribaltino la terraferma venetica. Ne descrive gli abitanti in termini idilliaci: abitano tra mare e terra come gli uccelli acquatici, in una società semplice e laboriosa, vagamente comunista, dove ricchi e poveri vivono allo stesso modo e nella quale ognuno riceve secondo i suoi bisogni, grazie all’abbondanza dei pesci della laguna. Spiega che per imbonire il terreno e trasformare le sponde da digradanti a verticali, rendendole così adatte all’ormeggio delle imbarcazioni, intrecciano le canne palustri, piantano il canniccio ottenuto al confine tra l’acqua e la terra e riempiono l’area retrostante di fango e materiale di riporto affinché la spiaggia diventi una riva.
Paolo Diacono, nel 789, dà qualche indicazione geografica: il nome Venezia si applica soltanto a poche isolette, ma un tempo la regione dei veneti andava dall’Ungheria all’Adda. In epoca romana imperiale tale estesissima Venezia, di cui non è restato ricordo, era stata rimpicciolita dalle divisioni amministrative di Augusto, che aveva creato la Regio X Venetia et Histria. Di questa invece la memoria è rimasta: Venezia e l’Istria resteranno – salvo intervalli – sempre legate e, sarà pure un caso, i confini settentrionali della Serenissima non usciranno mai dall’ambito della vecchia regione augustea.
Le cronache che costruiscono il mito e designano il 421 come anno fondativo sono più o meno trecentesche, cioè ottocento anni dopo la lettera di Cassiodoro. Ormai Venezia ha raggiunto, e pure oltrepassato, l’apice della potenza, conquistando nel 1204 l’antica madre, ovvero Costantinopoli. I primi due accenni fuggevoli al 421 si trovano uno in un documento del XII secolo, conservato a Metz, in Francia, e l’altro nella storia redatta attorno al 1267, in francese, da Martino da Canal: «Voglio che sappiate che la bella città che si chiama Venezia fu edificata nell’anno 421 dall’incarnazione di nostro signore Gesù Cristo». Nel 1334 si diffonde una «ingenua e falsa cronachetta», come scrive lo storico medievista Giorgio Ravegnani, secondo la quale la città sarebbe stata fondata il 25 marzo 421 da tre consoli arrivati da Padova. Padova? Il testo viene diffuso, ma guarda un po’, da un medico padovano, Jacopo Dondi, desideroso di stabilire il primato della propria città su quell’altra che sta diventando troppo minacciosa. Scrive Dondi: «dal senato dei padovani e dai primari rappresentanti dei popolari si è decretato di edificare una città nella zona di Rivo Alto e di riunire le genti delle isole circonvicine»; e poi: «mandati lì tre consoli che soprintendessero per un biennio allo svolgimento dell’opera, il 25 di marzo ne fu gettato il primo fondamento».
Ne consegue ovviamente che l’anniversario dei 1600 anni dalla nascita di Venezia, celebrato nel 2021, sia farlocco, così come altrettanto taroccato è il primato della presunta chiesa più antica di Venezia, San Giacomo di Rialto, detta San Giacometo per le piccole dimensioni, fondata secondo la leggenda lo stesso giorno della città. La verità è che i primi documenti che la attestano sono del 1177, e sarà una chiesa fortunata perché è l’unico edificio di Rialto a salvarsi dal devastante incendio del 1514.
Ai veneziani, dell’ipotesi padovana andava bene la data, addirittura precedente di una trentina d’anni alla scorreria di Attila, molto meno invece il fatto di dovere la fondazione ai rappresentanti della città di terraferma. Anche qui qualcosa in grado di titillare la fantasia mitologica però c’era: leggenda vuole che Padova sia stata fondata dal troiano Antenore e avere a che fare con Troia – città invitta, conquistata soltanto con l’inganno – andava bene a tutti. Infatti l’idea di Venezia eretta nel 421 dai messi padovani viene ripresa da Andrea Dandolo, verso metà Trecento. Dandolo era addirittura doge e la sua cronaca contribuisce in maniera decisiva a far diventare il mito una specie di religione di stato.
Se torniamo indietro all’inizio del XIV secolo troviamo un altro cronista, Giovanni Soranzo, che sottolinea la singolarità del luogo: «I veneziani non avevano né terra, né campi, né vigne, né possessioni donde ricavare rendite per nutrirsi, se queste non si portavano dal di fuori». In realtà pure lui non aveva fatto altro che riprendere un documento precedente, in questo caso una cronaca pavese redatta attorno al Mille, dove dei veneziani si diceva che «quella gente non ara, non semina, non vendemmia». Seppure antica di secoli, anche questa era una balla: serviva a dimostrare che nessun altro al mondo era come i veneziani, unici a tenersi lontani dai lavori agricoli, tutti dediti al commercio, tanto da assicurare il fabbisogno alimentare con il solo import di derrate via nave. «Invece che a cavallo vanno per nave», scrive un monaco nel XII secolo. Percezione distorta della realtà.
Come sopravvivere in laguna
Vero che nella laguna non si coltivavano cereali, ma lo si faceva negli immediati dintorni. I veneziani controllavano una vasta rete agricola, basata su terreni di proprietà aristocratica ed ecclesiastica, che serviva a garantire l’autosufficienza alimentare, se non di più, visto che i cereali venivano importati e riesportati. Una consistente presenza di mulini ci testimonia che in laguna giungevano quantità importanti di cereali.
I terreni strappati all’acqua salmastra erano invece adattissimi alla vite, e infatti il cronista scrive di «vigne frondosissime fitte di viti cariche di uva bianchissima». I contratti successivi al Mille riferiscono di vigne coltivate in pergole o filari e ci raccontano anche delle procedure per impiantare i vigneti. L’affittuario doveva livellare il terreno, cingerlo con argini o fossati, piantare le viti, curarne la crescita, fermarle con sostegni, potarle, ripulirle dalle erbacce, sorvegliare la maturazione dei grappoli fino alla vendemmia; spesso al momento del raccolto arrivava il messo del proprietario per evitare che i contadini nascondessero parte dell’uva vendemmiata. Il prodotto veniva dapprima diviso a metà, in seguito i vignaioli riusciranno a trattenere per sé due terzi del raccolto.
Nei secoli precedenti al IX non dobbiamo pensare a una città come la intendiamo noi, ma a una serie di insediamenti sparsi per le lagune, formati da abitazioni in legno, alcune di due piani, probabilmente col tetto di canne, del tutto simili ai casoni lagunari sopravvissuti fino ai nostri giorni, e ognuna col proprio orto, un pezzo di vigna e qualche animale: maiali, bovini, ma soprattutto polli. Nei donativi medievali si ritrovano spesso le focacce, segno della presenza di galline con relative uova.
E poi, di che vivevano i venetici? Be’, in un’epoca in cui il sale era un bene non prezioso, ma preziosissimo, molti abitanti delle lagune erano salinari. La produzione del sale costituisce una delle basi più importanti dell’ascesa di Venezia: tra X e XII secolo le saline lagunari dovevano essere un centinaio e in grado di assicurare una buona rendita, visto che nel 1089 per risollevare le sorti della chiesa dei Santi Secondo ed Erasmo, ridotta in estrema miseria, il doge Vitale Falier le dona alcune saline. Qualche anno prima, nel 1064, un gruppo di salinari aveva preso in concessione da Pietro Foscari – cognome che tornerà spesso nella storia dello stato veneziano – uno specchio d’acqua dove impiantare una salina. Devono pure fare in fretta, perché il canone in natura, il sale estratto in almeno tre delle migliori giornate di lavoro, dev’essere consegnato entro l’estate successiva alla data del contratto, e anche questo ci dice molto sulla redditività delle saline. Sempre nel Trecento un altro cronista scrive che «le saline, create in mezzo alla laguna, erano veramente spettacolari e magnifiche, ed erano una delle cose che i forestieri ammiravano di più» (il turismo nasce molto presto, a Venezia).
Alla pesca abbiamo già accennato, ma un episodio del XII secolo ci parla di uno sfruttamento intenso delle acque: un guardiano con gli aiutanti individua un gruppo di pescatori di frodo di anguille. Il documento li chiama luminatores perché rischiarano le acque notturne con fonti luminose per attirare i pesci. I pescatori, una volta scoperti, provano a fuggire, ma gli inseguitori li acciuffano, sequestrano le attrezzature e danneggiano le imbarcazioni. Il giorno dopo devono giurare ai boni homines di non farsi mai più vedere, almeno in quella zona. In realtà se la cavano a buon mercato, perché sappiamo di altri pescatori di frodo che vengono selvaggiamente picchiati. I diritti di pesca erano difesi con le unghie e con i denti: nei documenti della terraferma si trovano spesso procedimenti per pascolo abusivo, il corrispettivo acquatico è la pesca di frodo.
La laguna è ricca di pesci, ma anche di uccelli, e dovevano essere numerosi i roccoli – sorta di capanni per intrappolare i volatili – ben mimetizzati tra i canneti. Pure tra gli uccellatori la litigiosità è alta, e infatti tra il 1188 e il 1191 si registra una furiosa disputa, con distruzione di roccoli, tra i coloni del vescovo di Torcello e i loro vicini di San Felice di Ammiana.
La merce più importante trattata dai mercanti veneziani era con ogni probabilità il sale, ma la tratta degli schiavi risultava ugualmente redditizia, se non di più. Sul commercio di esseri umani c’è sempre stata molta reticenza, anche perché i papi vietavano la compravendita di schiavi di fede cristiana e non è detto che il divieto fosse sempre rispettato. Comunque il primo documento che ci parli di questo commercio verso il mondo musulmano risale al 748: una pestilenza aveva sterminato da un quarto a un terzo della popolazione urbana del Nordafrica e si era creato un buco di forza lavoro che i veneziani cercavano di riempire. Le conversioni al cristianesimo diminuivano le possibilità di rifornimento e probabilmente si può spiegare in tale ottica l’opposizione veneziana all’evangelizzazione delle popolazioni slave da parte dei bizantini Cirillo e Metodio. La contrarietà era dettata ufficialmente da motivazioni di ordine teologico, ma dietro di esse forse si nascondevano ragioni più pratiche: la conversione degli slavi avrebbe limitato le possibilità di approvvigionamento. D’altra parte lo stesso nome «slavo» (dal latino sclavus) era indicativo di come quelle popolazioni venissero considerate. Il commercio era lucrosissimo perché ...