La libertà viaggia in treno
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La libertà viaggia in treno

  1. 206 pagine
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La libertà viaggia in treno

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Ci sono treni che inseguono l'odore del mare e treni sottosopra. Treni che uniscono città separate da tutto ma che non sanno vivere l'una senza l'altra. Treni a cui basta poco per portarti in un altro mondo e treni che girano su se stessi per farti ritrovare qualcosa che pensavi di aver perduto per sempre.Il treno gode di una gloria romantica esclusiva. Tra i molti che sono rimasti affascinati dal suo sferragliare c'è Federico Pace che nei suoi racconti tesse l'elogio del viaggiare lento, cogliendo i contorni di quel microcosmo sospeso che nasce e muore di viaggio in viaggio. "la Lettura - Corriere della Sera"Londra-Parigi, Venezia-Atene, Cagliari-Olbia, Porto-Lisbona, Bergen-Oslo, Nizza-Marsiglia… Attraverso il Brennero e sull'orlo dell'Oceano. Federico Pace riunisce viaggi in treno che si assomigliano, come possono assomigliarsi i fratelli e le sorelle di una stessa famiglia. Qualcosa li tiene insieme anche se sono diversissimi. Per le geometrie con cui procedono, per le persone che ti fanno incontrare, per i pensieri che ti fanno venire in testa. Racconti per tirare il filo di tante storie e riscoprire il viaggio nella sua forma più sublime, antica e modernissima. Perché quando si parte in treno, si parte davvero.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788858132715

La giostra e il satellite.
(Berliner Ringbahn)

Il primo viaggio è quello che si fa sopra una giostra. Come un satellite, un astro. Quando ancora nulla si sa della geografia, delle mappe, dello spazio e di tutto quello che sta lontano da noi e altrove. Nulla si sa delle città, dei mari, dei monti e del mondo intero. Nulla di tutto quello che accadrà. Il primo viaggio è quello che si fa girando intorno. Come un satellite, un astro. E quel che si vede, in quella prima spedizione intorno a se stessi, è solo una scia di luce, una striscia di colori. Quel che si sente è solo il vento. Girando, si prova un improvviso e inatteso senso di libertà. È il primo viaggio, è quello che ci schiude al mondo.
A Berlino c’è un treno che gira intorno. Impiega un’ora a percorrere tutta la linea curva che si chiude su se stessa. Un’ora a seguire la linea irregolare che cinge l’intero corpo della città che è stata separata e divisa, e poi riunita. Per ventiquattro ore, nell’arco della luce e del sole, che si apre e si chiude, nel tempo in cui la Terra impiega a fare un giro su se stessa, girano intorno i treni, come una giostra o un astro. Seguire il giro intorno a questa città non è come farlo in altri luoghi. Qui, questo gesto, per oltre quarant’anni, è stato a lungo proibito, reso impossibile, sottratto alle persone. Viaggiarci sopra, così, è come riappropriarsi di un diritto. Assaporare un po’ di quella libertà.
Ogni punto, ognuna delle ventisette fermate di questo cerchio, può essere il trampolino da cui tuffarsi, da cui partire o in cui arrivare. È la vertigine del girotondo. Ma qui forse è bene cominciare da un punto preciso, da lì dove era Berlino Est. Così il viaggiatore parte dalla stazione di Prenzlauer Allee. Fuori, un nugolo di biciclette, leggere come farfalle, parcheggiate lì dai pendolari. Dentro, vicinissima ai mattoncini rossi della parete, in controluce, una fioraia tra i vasi e i petali colorati. In fondo alle scale, i binari. I vagoni della S42 sono di un rosso ingrigito e di un giallo ocra. Girano in senso antiorario e ogni tanto, alle stazioni, lungo l’orbita, si incrociano con i vagoni della S41 che vanno in senso contrario. Quasi si specchiano gli uni negli altri, come fanno i volti di chi sta a guardare dal finestrino. Le portiere ad aria compressa si aprono. Si sale e si scende. Dentro, non appena in moto, il corpo caracollante delle vetture sposta e smuove chi è salito a bordo. Un uomo anziano, per non cadere, si tiene al reggimano vicino alle portiere.
il punto di vista di un passeggero a bordo della S42, alla stazione di Schöneberg, mentre arriva la S41
Due satelliti che si incontrano. Lungo il percorso circolare intorno a Berlino, la S41 e la S42, che girano l’una in senso orario e l’altra antiorario, si incontrano spesso e ogni volta i passeggeri si guardano l’un l’altro come se ciascuno potesse essere una diversa opzione di vita dell’altro. Qui il punto di vista di un passeggero a bordo della S42, alla stazione di Schöneberg, mentre arriva la S41. (Foto dell’autore)
La sequenza delle fermate è rapida. Fuori, la scia di luce e la striscia di colori. Così comincia il primo viaggio. Schönhauser Allee. Gesundbrunnen. Passano già le prime due fermate. I graffiti sulle schiene dei palazzi. Una ciminiera. Poco distante da qui, a Bornholmer Strasse, sul Bösebrücke, nella notte del 9 novembre 1989 cominciò a venire giù la prima breccia del muro: il lampo di libertà atteso per quasi trent’anni nel cavo chiuso della Cortina di Ferro. Il cammino di questo treno, come quello della libertà di questa città, è stato lungo. Il primo tratto venne inaugurato il 17 luglio del 1871 tra Gesundbrunnen e Kolonnenstrasse, poi il resto dell’anello ferroviario fu completato nel 1888. All’epoca, quell’arco ferroviario era inciso ben oltre i confini della città. All’inizio si trattava di vagoni a vapore e il giro non veniva mai completato senza che si fermassero per rifornirsi di carbone o acqua. L’esigenza era soprattutto trasportare le merci verso le sedi delle industrie. Poi, però, furono le persone a utilizzarlo. Alla fine degli anni Venti, l’intera rete venne elettrificata e già allora per girare intorno si impiegavano solo sessantatré minuti. Poi, quando Walter Ulbricht, nel 1961, diede l’ordine di cominciare a stendere il filo spinato che si sarebbe trasformato in un’enorme struttura di costrizione, il cerchio venne spezzato. Nessuno poteva più girare in tondo. Come un astro, come un satellite. Nessuna libertà. Nessuna luce.
Un uomo con un cappotto blu e dei baffetti biondi tiene aperte le pagine della «Berliner Zeitung». Sta con la testa quasi infilata negli ampi fogli. A colpirlo è la notizia di un settantatreenne che sembra essere scomparso in una piccola cittadina tra Berlino e il confine polacco. È uscito di casa per andare a ritirare una nuova vettura. Strada facendo, però, ha perduto la via. Molto probabilmente l’uomo, suggerisce l’autore dell’articolo, deve avere perduto la memoria. L’uomo con i baffetti sta immerso nella lettura, quasi dimentico di essere a bordo del treno. Quando qualcuno scompare, quando qualcuno perde il senno di sé, ci colpisce sempre. Un uomo, un corpo vissuto, pieno di esperienze e avvenimenti, svuotato d’improvviso della memoria e del legame più profondo con la propria identità, sembra suggerire qualcosa che riguarda direttamente ciascuno di noi.
Il treno gira, passa Wedding, una delle zone più povere di Berlino. La metà delle persone che abitano qui arriva da paesi lontani. Turchia. Africa sub-sahariana. Asia. Ma anche Polonia o paesi dell’ex Jugoslavia. La città è cresciuta, straripata, e l’anello che prima stava a delimitare i lontani confini esterni ora si trova a far parte della metropoli come un sentiero antico nel mezzo di una foresta. A Westhafen sale un ragazzo che vende le copie di «Motz», la rivista degli homeless. Il giovane si chiama Mir. Lo fa già da qualche mese, ma solo quando gli servono un po’ di soldi. Ha iniziato così, per comprarsi il biglietto del concerto di Udo Lindenberg all’Olympiastadion, il mese scorso. Si tiene in equilibrio con un gioco di gambe. Il treno ancheggia mentre passa tra un canale d’acqua da un lato, e dall’altro il Moabit, il quartiere operaio che per lungo tempo provò a essere l’avamposto di resistenza alla scalata di Hitler. «Non diventerò mai ricco, ma per una volta, dammi un po’ di caviale»: così recita un cartellone pubblicitario di una compagnia di assicurazioni sulla banchina della fermata di Beusselstrasse. Mir fa avanti e indietro sul vagone, ma della rivista non riesce a venderne neppure una copia.
Una ragazza, così come continua a fare l’uomo con i baffetti biondi, tiene il capo chino su un libro, e non alza mai il volto. Nel giro urbano, in quell’andare circolare intorno alla città, intorno alla propria identità, intorno a se stessi, si sale senza pensare, senza aspettarsi nulla, quasi sempre con gli occhi fissi su un giornale, sullo schermo di un cellulare o sulla solitudine della punta delle proprie scarpe. Eppure, d’improvviso, s’apre un interstizio, una fessura. Un’apertura da cui filtra una luce che a volte può essere accecante. Una donna, accanto alla ragazza che legge il libro, ha i capelli che stanno diventando grigi. Gli occhi socchiusi che sembrano fessure. Guarda fuori distrattamente. Poi, d’improvviso quasi dischiude la bocca, sembra attratta da qualcosa. Una scritta sui muri, un manifesto pubblicitario, una finestra. Ma è solo un istante. Tutto è già passato.
Questo girare intorno alla città, lungo poco più di trentasette chilometri, questo salire e scendere sulla ferrovia suburbana, ritorna sempre nei racconti e nelle storie che riguardano Berlino. Deve essere quasi un modo per riappropriarsi di qualcosa che prima si aveva, poi si è perduto e poi di nuovo si è riusciti a riconquistare. Su questi treni ha viaggiato anche Günter Kunert, il poeta che di Berlino è quasi un’incarnazione, costretto pure lui a dividersi tra est e ovest, costretto a dover effettuare una cesura con la sua infanzia per colpa di quel che era troppo spaventoso da poter essere ricordato. In una delle sue storie ha raccontato di quando gli è capitato, mentre viaggiava sulla ferrovia suburbana, di «guardare d’impeto dentro una finestra illuminata». Una finestra che non aveva mai veduto e che non pensava neppure che potesse essere lì. Guardò e intravide qualcosa: lo spigolo della lucida credenza scura, il cestello di porcellana bianca, le mele dalle chiazze rosse. Persino se stesso nella stanza rivestita di seta color arancio. Era un altro tempo, un tempo perduto. Tutto corre veloce. Tutto corre sempre veloce. Il treno non aspetta e gira intorno. C’è sempre qualcosa che si cerca di trattenere e che poi fugge via. L’edificio della Pilkington. La fermata di Jungfernheide. Il quartiere Charlottenburg. Poi Wilmersdorf. La parte occidentale della città. Gli eleganti caffè, la Corbousierhaus, il Palazzo Antico fatto costruire da Federico II, il giardino barocco, il moderno Europa Center. La ferrovia che comincia ad andare verso sud. I visi riflessi nel finestrino. Westend. I mattoni rossi. Lo stile liberty. Il verde dell’acciaio. Le donne sedute sulle panchine. Gli indizi che la città lancia da questo treno sono infiniti, innumerevoli, contraddittori. Tessere di un puzzle che si fa fatica a ricomporre.
La donna con i capelli che stanno diventando grigi e gli occhi quasi chiusi come fessure, dopo quel sussulto, dopo la bocca spalancata per la sorpresa, ha tirato fuori dalla borsa un libro. Sembra volersi lasciare dietro quel che ha veduto e quel che quella visione le ha rammentato. Forse vuole dimenticare. Quando Kunert vide quella finestra, invece, si mise a correre indietro, lungo il pavimento dei vagoni, molto più velocemente di quanto non faccia Mir per vendere le copie del suo giornale. Voleva vedere ancora quella stanza illuminata, quell’allegria spensierata che pensava di non avere mai vissuto, corse indietro, ma il treno andava troppo veloce. Il treno, o quel che è, va sempre troppo veloce. Ora passa Messe Nord. Tanta la gente che scende. I vagoni sono quasi vuoti. In questi momenti, le persone, i singoli volti, gli sguardi, emergono come isole in un mare. Una donna controlla dei documenti che stanno infilati dentro una cartellina rossa. La apre e la richiude un numero infinito di volte. Cosa si decide questa mattina al tribunale del suo destino? La vendita di una casa? La separazione dalla persona che non è riuscita più a trovare il filo che la portasse fino a lei?
Girare intorno ai limiti di una città o di un paese intero è un modo per provare a restituirle unità. In un giorno del 1982 Werner Herzog uscì dalle strade di Sachrang, il paesino della Baviera dove era cresciuto da bambino. La Germania era divisa in due e i politici stavano prendendo le distanze dall’obiettivo di riunificare le due parti separate di quella nazione. Il regista, convinto che solo i poeti potessero ancora fare qualcosa, si mise a girare intorno ai confini della Germania in senso orario. L’obiettivo era quello di tenere unita la nazione, come se il suo cammino ne potesse avere la forza. Il giro intero però non gli riuscì. Al confine danese, dopo avere percorso mille e seicento chilometri, si ammalò e dovette rinunciare.
Passa ancora la scia di luce e la striscia di colori. A Westkreuz, i condomini dei quartieri più abbienti. A Halensee, le nuove abitazioni in costruzione. Le grandi gru con i loro nasi lunghissimi. Un vaso con i fiori. Non ci sono le distese infinite dei deserti e neppure le vette più alte del mondo, ma girare intorno a Berlino è quasi come girare intorno al mondo. Joseph Roth, quando salì su questa ferrovia, arrivò a dire che un tragitto ferroviario urbano è più istruttivo di un viaggio per mari e paesi lontani. «I viaggiatori esperti – scrisse per un articolo poi pubblicato il 23 aprile del 1922 sul ‘Berliner Borsen-Courier’ – sapranno che in fondo basta vedere un unico cespuglio di lillà nascosto in un polveroso cortile di una grande città per comprendere l’assoluta, profonda tristezza dei cespugli di lillà di tutto il mondo». Cosa direbbe se vedesse il giallo struggente dei tigli di questi giorni?
Alla stazione di Hohenzollerndamm sale un insolito viaggiatore. Forse ha letto Joseph Roth e cerca i lillà. Sta con una mappa aperta poggiata sul finestrino del treno. È altissimo, magro e un po’ spaurito. Sembra Claude Lévi-Strauss, con gli occhi va dalla rappresentazione cartografica della mappa fino alla fugace apparizione della città. Ha lo sguardo interrogativo di chi non riesce a conciliare quel che accade con quel che immaginava accadesse. Il vagone si svuota, il treno va lento ora, però non perde mai quel pugno di viaggiatori, quel minimo di esseri umani, quel grumo di vite raccolte. Anche la ripresa di questa ferrovia è stata lenta. Anche dopo l’apertura della prima breccia nel Muro, nella notte del 9 novembre 1989, si è dovuto attendere ancora molto. Ci sono voluti altri tredici anni, fino a giugno del 2002, dopo investimenti, riaperture di alcuni tratti, ristrutturazioni di molte stazioni, si è potuto compiere di nuovo un intero giro intorno alla città.
A Heidelberger Platz il vagone comincia di nuovo a riempirsi. Ora i posti a sedere sono quasi tutti pieni. A Bundesplatz, al box giallo della rivendita di würstel si ferma a mangiarne uno l’uomo con i baffi biondi e il giornale piegato sotto al braccio. Non pensa più all’uomo che ha perduto la memoria, gli basta assaporare il gusto salato della carne. Si chiudono le portiere. Gli edifici istituzionali. Le grandi ville distanti. Alla fermata di Innsbrucker Platz non sale e non scende nessuno. La porta rimane chiusa. C’è una luce quasi da sogno, quasi una nebbia, attraverso la quale si vede la città. Un filtro, una semitrasparenza. È in una luce come questa che Kunert ha veduto la sua finestra? Poco distante da qui, proprio a pochi passi, c’è la piazza dove John Fitzgerald Kennedy arrivò a pronunciare due frasi nella lingua di Günter Kunert. Anche se è stata la prima a divenire la più famosa (Ich bin Berliner), forse è la seconda (Lass’ sie nach Berlin kommen), quel suo «lasciate che vengano a Berlino», a essere quella che suona più attuale. La fermata di Schöneberg. Le bici, i tigli e i bei quartieri. Alla grande stazione di Südkreuz il treno è giunto dall’altra parte della città. Una donna sfoglia il giornale. Anche lei legge la notizia dell’uomo scomparso, dell’uomo che ha perduto la memoria. L’ultima volta è stato visto a un distributore di benzina al di là del confine, in Polonia. Lì, aveva cercato di convincere l’addetto alla pompa a vendergli una tanica di benzina, ma non c’è riuscito. Il problema a quanto pare era il tipo di moneta: l’euro. L’uomo, ha raccontato il benzinaio, aveva mostrato gli euro che aveva in tasca. Gli euro, però, da quelle parti non servono a nulla. In Polonia c’è ancora lo zloty. Per fortuna, ha detto il benzinaio. Con tutto quello che succede alla Grecia, noi l’euro neppure lo vogliamo.
Poco prima della fermata di Hermannstrasse una giovane donna araba, con un bel vestito blu notte e un copricapo rosa di seta, si avvicina alle porte di uscita. Ai piedi, scarpe da ginnastica scure. Un ragazzo che sta lì vicino ha una macchina fotografica e forse sta cercando di catturarne il volto. Lei sembra accorgersi di qualcosa, si indispettisce, e chiede al giovane se le ha fatto una foto. Se le ha rubato un pezzetto dell’anima. Glielo chiede prima in tedesco, ma il ragazzo non capisce e le chiede di ripetere in inglese. La scena sembra colpire anche l’altissimo signore con la mappa che smette per un istante di indagare sulla pieghevole rappresentazione dell’universo urbano. Fa appena a tempo a vederla mentre fissa negli occhi, con decisione e orgoglio, proprio un istante prima che la porta si apra, il ragazzo che sembra quasi intimidito, soggiogato da quel piglio, da quello sguardo. Fa a tempo a vedere il ragazzo che le dice di non aver fatto alcuna foto, fa a tempo a vedere il nervosismo del giovane come di chi mente senza esserne avvezzo, senza avere la malizia di chi non ha a cuore i destini degli altri. Poi le porte si aprono. Entra l’aria fredda d’autunno, i volti concitati di chi deve ancora andare avanti. Sulla banchina la luce fortissima del sole filtra attraverso il buio rettangolare delle tettoie. Sul vagone, l’uomo altissimo che assomiglia a Claude Lévi-Strauss ha riaperto la sua mappa.
A Neukölln sale di nuovo molta gente. Il treno ora è quasi pieno. Una coppia di giovani si stringe l’uno all’altra contro la parete di vetro che separa l’isola di chi sta seduto. Da vicino si sente il forte odore speziato della cucina delle loro origini. La ferrovia comincia a risalire nel semicerchio orientale della città. Dopo Sonnenallee, la strada che era divisa dal Muro, stanno tutti stretti. Uno contro l’altro. Tutti in piedi. Fuori passa la scia di luce, la striscia di colori. Il grande edificio dell’Allianz, le acque della Sprea. A Ostkreuz salgono una signora con un cane e un magrebino che parla al telefono. Il vagone si è quasi svuotato, come un giocatore che verso la fine della partita getta sul tavolo tutte le sue carte. Fermata di Storkower Strasse. Un tempo qui vicino c’era un macello e un passaggio pedonale sopraelevato ci passava sopra. Quel che si vedeva faceva venire il ...

Indice dei contenuti

  1. «Alter ego». Incontri, distacchi e avvicinamenti
  2. Compagni di viaggio. (Atene-Salonicco)
  3. Statue e architetture. (Londra-Parigi)
  4. Sul ciglio di un binario. (Porto-Lisbona)
  5. La liturgia del saluto. (Monaco-Berlino)
  6. Nell’universo segreto del vagone. (Barcellona-Madrid)
  7. Girotondo. Andate, ritorni e traiettorie curve
  8. La giostra e il satellite. (Berliner Ringbahn)
  9. Esplorazioni nel cratere. (Circumvesuviana)
  10. Fuggire e tornare. (Lago Mälaren)
  11. Coincidenze. (Galway-Londonderry)
  12. Vista sul mare. Passaggi, litorali e orizzonti
  13. Nella pancia della nave. (Sapri-Messina)
  14. La durata di un viaggio. (Barrow-in-Furness - Whitehaven)
  15. Ragioni per partire. (Amburgo-Copenaghen)
  16. Una nuova vita. (Nizza-Marsiglia)
  17. Incontri e separazioni. (Stavanger-Egersund)
  18. Sottosopra. Percorsi mossi, capovolgimenti e irreversibilità
  19. Il cielo capovolto. (Ragusa-Siracusa)
  20. Senza biglietto. (Pistoia-Porretta Terme)
  21. Lungo il corridoio. (Verona-Innsbruck)
  22. Il paesaggio e la consapevolezza. (Cuneo-Ventimiglia)
  23. Oltre lo specchio. (Bari-Matera)
  24. Da un capo all’altro. Attraversamenti, attese e mutamenti
  25. Paesaggi interiori. (Bergen-Oslo)
  26. Sui modi di apprendere la geografia. (Venezia-Atene)
  27. Il viaggiatore inadeguato. (Sofia-Burgas)
  28. La pazienza e il cambiamento. (Cagliari-Olbia)
  29. Partire davvero