Eros tiranno
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Eros tiranno

Sessualità e sensualità nel mondo antico

  1. 286 pagine
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Eros tiranno

Sessualità e sensualità nel mondo antico

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Prima che la frase 'ti amo' siglasse il rapporto sessuale, prima che eros fosse sequestrato dall'arte ed espulso dalla filosofia, prima che sul sesso scendesse l'ombra del peccato e che il peccato fosse inseguito sin nei meandri dell'intenzionalità e della fantasia, il mondo antico conosceva possibilità inesplorate, cammini interrotti, modi d'indagine e di espressione dai quali ripartire per comprendere chi siamo e dove, magari a nostra insaputa, stiamo andando.Silvia Vegetti Finzi Il desiderio, il piacere, il corpo, dal mondo greco al mondo romano, ai Padri della Chiesa: una delle studiose più note dell'antichità ci conduce con grazia nei territori della passione.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788858122471
Argomento
History

IV. Rapporti

Il matrimonio

Ecco una città in pace. È una città felice, e questa felicità appare in una festa. Ci sono carri che viaggiano, torce fiammeggianti, grida e canti. È una festa di nozze.
Quando non si distrugge nella guerra, la società si rigenera. Facendo delle nozze una festa pubblica e conviviale, quella che più simbolizza il benessere di un periodo di pace, la società greca arcaica celebra quell’unione dei corpi sessuati da cui dipende la sua riproduzione e la sua stessa esistenza. In principio era il sesso, in principio era la differenza dei sessi. L’atto sessuale tra una donna e un uomo è la causa della procreazione. Questo è un fatto biologico. Matrimonio e filiazione, con le loro regole e i loro rituali, sono fenomeni legali e sociali. Ma sono soprattutto le istituzioni con cui una società riconosce il proprio debito verso Eros.
Quello che sappiamo del rito matrimoniale, dal periodo arcaico al periodo classico, ci permette di affermare che i Greci simbolizzano nella performance nuziale la doppia natura del matrimonio: sia la fondazione di una famiglia legittima e la creazione di un’alleanza tra gruppi di parenti, sia un evento erotico. La processione che porta la sposa velata dalla casa del padre a quella del marito, il banchetto alla fine del quale lo sposo solleva il velo quasi scoprisse il viso della fidanzata per la prima volta, i canti che accompagnano prima il corteo stesso e poi i primi momenti che la coppia passa nell’intimità della camera da letto – canti intesi a coprire i gemiti della deflorazione – tutti gli aspetti di pubblicità della festa alludono all’incontro sessuale (Sissa, 1987). Le rappresentazioni visive che abbondano sui vasi – e in particolare sul tipo di vaso che viene usato proprio durante il rituale – mostrano anche la presenza del piccolo dio alato, Eros stesso, svolazzante intorno alla futura sposa, mentre si agghinda e si fa bella. Specchi e cofanetti arredano lo spazio coniugale, a sottolineare la civetteria, la seduzione, l’attesa amorosa. Il matrimonio è un evento euforico.
La sessualità femminile e la sessualità maschile vi trovano una messa in scena esemplare. Socialmente, lo sposo svolge il ruolo attivo, di colui che prende una donna, ricevendola dal padre, o da un altro membro della famiglia di lei, che agisce in qualità di tutore. In quanto attore erotico però, il ragazzo che si sposa è comunque alle prese con le incertezze del desiderio: ecco perché il rituale è anche un gioco di avvicinamento graduale, di lento assedio del corpo femminile, fino allo svelamento prima pubblico e poi privato. Dal punto di vista giuridico, la donna deve considerarsi una minorenne per statuto, sotto la tutela di un uomo, il quale la consegna a un altro uomo, al fine di procreare figli legittimi. Come corpo sessuato, però, la sposa entra in scena celandosi; si mostra velata, proprio come la bella Pandora di fronte agli uomini e agli dei: oggetto misterioso, la cui superficie ornata e decorata promette bellezza e piacere, sta dentro la crisalide del velo e viene fuori a poco a poco durante il corso della festa. Il suo desiderio è rappresentato proprio nella civetteria: la sposa sa di non essere solo uno strumento di riproduzione o sa di poterlo essere solo se succede anche qualcosa d’altro. Perché l’atto sessuale sia consumato, occorre che un avvenimento si produca, l’incarnarsi del desiderio. Anche il suo desiderio è un’erezione, non dimentichiamo, ma interna e invisibile. Lei deve manifestarlo. Nel farsi bella e nello spogliarsi si offre al desiderio maschile, ma anche rivela il suo. Anche lei agisce come attrice erotica.
La festa culmina con il primo atto sessuale. Mentre in altre società antiche l’essenziale, nella ritualizzazione di tale atto, è la prova che la sposa si è mantenuta vergine fino a quell’istante, in Grecia il sangue della deflorazione non ha un’importanza predominante. I Greci hanno una nozione di verginità, come integrità di un corpo mai penetrato, ma non identificano tale stato – la parthenía – alla presenza di una membrana, che occluderebbe il sesso femminile e che sarebbe lacerata alla prima penetrazione. La violenza inseparabile dalla prima intrusione eterosessuale ricorre come un tema letterario, allusivamente nella vicenda tragica delle Danaidi e molto esplicitamente nel romanzo ellenistico (Goldhill, 1995).
Lo spargimento di sangue tuttavia non si spiega necessariamente a causa di un imene fratturato. I medici greci, da Ippocrate a Galeno, ignorano l’esistenza della membrana verginale. Lo stesso silenzio vale per Aristotele, nonostante la sua meticolosa attenzione per l’anatomia genitale. La prima volta che un testo ginecologico ne fa menzione, è per affermare con forza che tale parte anatomica non esiste. Chi credesse che il sesso femminile è naturalmente chiuso da una pellicola, che si rompe alla prima penetrazione, commette un errore. Così sostiene Sorano, un medico che, pur scrivendo in greco, è attivo a Roma nel I secolo d.C. La sua allusione a gente, non meglio identificata, convinta dell’esistenza di un pannicolo verginale va compresa nel contesto della cultura e della sessualità romana.
Indipendentemente dall’imene, che funzionerebbe come un sigillo, capace di segnalare e garantire la purezza sessuale di una donna, il primo contatto eterosessuale, nella forma della penetrazione, rimane il momento saliente delle nozze. Potremmo stupirci che il famoso canto nuziale, che accompagna proprio la fase iniziale della festa, si chiami Imeneo. Non è questa una chiara allusione all’imene? Si tratta in realtà di una interpretazione tarda, probabilmente romana, di una coincidenza lessicale. Imeneo, Hyménaios, è un personaggio mitologico, un giovane che giunge con fatica al momento del matrimonio e muore il giorno delle nozze. Il canto celebra il suo eroismo e rimpiange la sua morte. Identificare l’infelice novello sposo con una parte del corpo della sposa (hymén, membrana): ecco un’idea che i Greci non sembrano avere avuto (Sissa, 1987).

La filiazione

La congiunzione sessuale produce bambini, che diventano figli di genitori. Ma la differenza dei sessi fa della maternità e della paternità due relazioni profondamente diverse per un figlio e per una figlia. Seguiamo questi percorsi, di umanizzazione e di acculturazione, dal corpo materno al riconoscimento paterno e civico, per gli uomini e per le donne. Vediamo che cosa dicono a questo proposito il diritto e la medicina all’epoca classica, due forme di pensiero efficace e normativo. Il diritto è fatto di regole, la medicina è un genere di competenza autorevole, i cui contenuti vengono trasmessi sotto forma di consigli e prescrizioni.
Cominciamo con il diritto e con la relazione più corporea, quella con il corpo materno. La maternità dev’essere definita prima di tutto in rapporto alla legittimità della filiazione, quindi del matrimonio. È il matrimonio che fa della maternità un fatto sociale e non un fenomeno naturale. I figli che noi chiamiamo «naturali» non entrano in successione, non sono cittadini: non vengono riconosciuti né nell’ambito della parentela, né nella sfera della cittadinanza. Senza un padre che «fa» (poiéin) suo figlio, un bambino non appartiene a nessun gruppo. Niente, figlio di niente, come dice Euripide. Ápolis, ápatris: privo di padre, di patria e di città, come lamenta un personaggio di Demostene. Privo di nome: un corpo impersonale.
Se non c’è matrimonio, congiunzione rituale di un uomo e di una donna e alleanza tra due famiglie, la maternità è socialmente sterile. Non crea alcun legame riconosciuto. La scoperta della relazione madre-figlio tra due persone che si ignorano o si trattano come estranei è un tema tragicomico nello Ione di Euripide. Nell’Edipo re di Sofocle, è questo l’aspetto più ambiguo della tragedia: Giocasta non vede che quell’uomo più giovane, che sposa in seconde nozze, è suo figlio. È come se la mancanza di un riconoscimento paterno rendesse le madri cieche di fronte al viso e al corpo dei loro bambini. Una madre «naturale» sembra incapace di distinguere, di ravvisare la somiglianza tra se stessa e suo figlio.
Quando la maternità avviene nel matrimonio, invece, essa fornisce la materia alla fabbricazione sia di un figlio che viene riconosciuto ritualmente dal padre, sia di un cittadino, poiché solo un figlio già accettato come tale può essere iscritto dal padre in una fratria (gruppo di parenti) e, più tardi, in un demo (comune di residenza). Essa fornisce altresì la materia alla fabbricazione di una futura madre legittima di figli legittimi, perché nascere bene significa essere partoriti da una donna data in isposa regolarmente dal padre o da un fratello consanguineo o dal nonno paterno (Demostene, Contro Stefano, II, 18); e solo una donna nata, a sua volta, da una donna sposata (e non da una concubina) – e riconosciuta come figlia legittima dal padre – può essere data in isposa secondo le regole. Solo una donna riconosciuta da un padre ha un padre, capace di darla in matrimonio. Una donna non può sposarsi da sé, non può darsi.
La maternità legittima è quindi essenziale nella trasmissione dell’identità sociale. Questo appare nella concatenazione tra legittimità di un matrimonio, legittimità delle nascite che ne derivano, legittimità del matrimonio successivo, almeno per le figlie. E si manifesta letteralmente nella formula del giuramento pronunciato da un uomo quando presenta un figlio o una figlia alla fratria: l’uomo si dichiara, si istituisce padre giurando che il bambino o la bambina sono nati da una donna ateniese sposata (Iseo, VII, 16; VIII, 18-20; Sylloge, III, 371, 45, 921, 109-110). Non importa che la donna sia sua moglie: occorre che sia la moglie legittima di qualcuno, che quindi sia stata data in isposa da qualcun altro, che l’aveva riconosciuta come figlia di una donna sposata, e così via. Il padre stesso è necessariamente un figlio legittimo, altrimenti non sarebbe lì, membro di una fratria, a cui deve averlo introdotto suo padre.
Questa concatenazione e questa formula mostrano concretamente che cosa significa la filiazione indifferenziata a dominanza patrilineare, che caratterizza la società ateniese. È una filiazione asimmetrica, perché solo un padre ha la prerogativa di riconoscere i figli e di farli esistere socialmente, ma bilaterale perché lo statuto giuridico della madre, in quanto donna sposata e riconosciuta, è indispensabile per la trasmissione dell’identità. Un uomo non può riconoscere come suo, come discendente della sua sola linea, un figlio nato in modo qualsiasi, da una donna non sposata. Ma anche: un uomo deve ammettere l’esistenza di una donna sposata, madre del figlio che intende riconoscere, e non può quindi appropriarsi dei suoi figli come fossero solo suoi. L’introduzione alla fratria vale come un doppio riconoscimento: dei figli e della loro madre.
Insistiamo su questo punto cruciale, fonte come vedremo di drammatici fraintendimenti: la relazione tra un bambino e sua madre non si impone all’evidenza come un fatto naturale, ma deve essere riconosciuta simbolicamente dal padre. Un bambino viene presentato al gruppo dei parenti come figlio di una madre legittima. Tale legame, tuttavia, rimane stabilito una volta per tutte. Mentre la paternità è puramente simbolica – un rito la sancisce e un altro rito, un’adozione, la può cancellare – la maternità riconosciuta rimane indissolubile. Lo dimostra un caso limite: una persona adottata acquista un nuovo padre, perdendo il precedente, ma conserva comunque la propria madre. Di mamma ce n’è una sola.
Irrigidimento del senso morale? Protezione rinforzata, piuttosto, dell’identità ateniese. Stiamo parlando infatti degli effetti di un celebre decreto di Pericle del 451 a.C., che limita la cittadinanza ai figli di genitori cittadini, non solo dal lato paterno, ma anche, ormai, dal lato materno. Con questo decreto, i matrimoni con straniere diventano illegali: è proibito dare in isposa, regolarmente, una straniera a un uomo ateniese (Pseudodemostene, Contro Neera). Di conseguenza, il matrimonio diventa segno di nascita non solo legittima, bensì ateniese per entrambi i coniugi. Se una donna è stata data in isposa, ciò dimostra che è ateniese. I suoi figli erediteranno la stessa appartenenza.
La nozione di legittimità è di natura politica. Fuori dall’orizzonte di una città-Stato, preoccupata di difendere la propria riproduzione endogamica, i figli nati indipendentemente dal matrimonio, se accettati e amati dal padre, non si vedono condannati a una vita di esclusione e di vergogna. Chi sia la madre non importa, non occorre che si dimostri la sua appartenenza al gruppo, tramite il segno del suo essere stata maritata come si deve.
Nel quadro di una filiazione asimmetrica, ma bilaterale, la maternità viene valorizzata perché contribuisce a rendere possibile la trasmissione. Trasmissione dell’identità ateniese, ma anche trasmissione di beni nella rete dei parenti. Vediamo come.
Ad Atene, le donne ereditano, ma in situazioni, per così dire, secondarie. Prima di tutto, a condizione che non vi siano figli maschi. In presenza di fratelli, mentre questi dividono egualitariamente il patrimonio alla morte del padre, le sorelle ricevono soltanto una dote al momento del matrimonio. In assenza di fratelli, se sono sposate con figli, esse ereditano in parti uguali (Iseo, VI). Nella devoluzione ai collaterali (in assenza di figli maschi e femmine, e se non è intervenuto un testamento o un’adozione da parte del defunto), i maschi e i discendenti dei maschi hanno precedenza sulle femmine e i loro discendenti, tutti gli agnati, cioè i parenti del morto da parte di padre, precedono i cognati, cioè i parenti del de cuius da parte di madre. Il patrimonio così trasmesso non viene diviso, ma spetta al parente che dimostra di essere il più prossimo di tutti al collaterale morto. Se un gruppo di fratelli si trova in quella posizione, sarà il maggiore a prevalere sui minori.

Sposiamoci per non litigare

Alla differenza dei sessi si accompagna una asimmetria sistematica. Tale asimmetria si manifesta nella sua forma più semplice nell’ineguaglianza dei discendenti diretti, maschi e femmine, di fronte all’eredità paterna. L’inferiorità della sorella che, pur essendo una figlia, non è tanto figlia quanto il fratello, e quindi deve situarsi al limite della linea diretta, pone un problema giuridico e antropologico interessantissimo.
Prendiamo il caso particolare di una ragazza che, alla morte del padre intestato e in assenza di fratelli, si trovi destinata a seguire il patrimonio paterno: la figlia epíkleros. In questo caso, il rispetto prioritario della filiazione entra in conflitto con il principio della devoluzione collaterale. Da un lato, la figlia non è erede a pieno titolo, klerónomos, perché non è un maschio, ma resta comunque discendente diretta, madre virtuale di un maschio che sarà, in futuro, erede diretto del nonno materno. Dall’altro, il collaterale più prossimo che, per ora, detiene il diritto alla successione, poiché non ci sono figli maschi, può ricevere l’eredità, ma a una condizione. Deve sposare la ragazza, per generare con lei un figlio maschio, il quale verrà dato in adozione postuma al padre di lei, diventando il fratello di sua madre e quindi l’erede prioritario del patrimonio rimasto in sospeso. La figlia epíkleros deve in realtà essere compresa come «madre epíkleros», madre in potenza di un erede diretto che nascerà una generazione più tardi. Il parente più prossimo, cugino o zio, si troverebbe in posizione di netto svantaggio nei suoi confronti, a meno che questi non fosse suo figlio.
È importante situare il caso particolare della figlia epíkleros nel quadro dell’eredità padre/figlie e in contrasto con le figlie che sono diventate madri, le quali ereditano normalmente, quasi fossero klerónomoi. Sposate con uomini estranei alla famiglia, esse hanno già figli che sono eredi del nonno materno, in linea diretta. Ora, per principio, quando è possibile, la linea di discendenza prevale sulla collateralità. La legge consacra questo principio e, di conseguenza, accetta sia la frammentazione del patrimonio tra sorelle – così come lo ammette per i maschi – sia il fatto che le varie porzioni si disperdano in case diverse, là dove le eredi si sono maritate e sono diventate madri. Quindi è normale che il patrimonio segua quella linea e discenda, attraverso di loro, verso i suoi destinatari più legittimi. Rispetto a questi nipoti (figli delle figlie) del defunto, tutti gli altri parenti sono fuori gioco. Non c’...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. Parte prima. Eros tiranno
  3. I. Il desiderio
  4. II. Il piacere
  5. III. Corpi
  6. IV. Rapporti
  7. Parte seconda. «Mollis Amor»
  8. Parte terza. «Perversa Voluntas»
  9. Conclusioni. Bestie da confessione e stilisti del piacere
  10. Bibliografia