L'Italia che va a scuola
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L'Italia che va a scuola

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L'Italia che va a scuola

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Quanto costa la scuola italiana? È vero che nel nostro paese ci sono 'troppi insegnanti' come si sente dire ormai da qualche tempo? È vero che gli alunni italiani sono così 'somari' se raffrontati ai coetanei europei? La maggior voce di spesa dell'istruzione italiana è costituita dagli stipendi degli insegnanti, per contenerla si potrebbe ridurne il numero. Ma quanti sono? Vanno conteggiati solo i cosiddetti 'docenti in servizio'? Solo i professori di ruolo o anche i supplenti? E, nel secondo caso, quali supplenti, soltanto quelli in servizio per tutto l'anno o anche quelli temporanei? E i precari? E di quali graduatorie: quelle a esaurimento o anche quelle d'istituto?Salvo Intravaia comincia da esempi come questi per raccontare nel dettaglio la scuola italiana, con numeri, tabelle e dati alla mano, e scrive un'inchiesta a tutto campo su un mondo che coinvolge almeno 15 milioni di persone, fra genitori, docenti, alunni, dirigenti scolastici, segretari e bidelli. Un universo caotico, contraddittorio ma ricco di possibili risorse per rilanciare un sistema che adesso fa acqua un po' da tutte le parti.

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788858103692
Argomento
Economics

1. Professione: docente

Gli ultimi governi alla guida del Paese hanno preso di mira i docenti della scuola, cercando di «razionalizzarne» – questa la parola d’ordine – il numero. Soprattutto da quando soggetti internazionali, governativi come l’Ue o organizzativi come l’Ocse, hanno indicato nella scuola uno dei soggetti cardine per lo sviluppo economico e sociale di un Paese – denunciando in vari studi e dossier le basse performance degli alunni italiani a fronte degli alti costi del sistema scolastico nazionale – si è fatta strada l’idea che i soldi spesi per la scuola italiana non siano spesi al meglio. Poiché la maggior voce di spesa dell’istruzione italiana è costituita dagli stipendi degli insegnanti, si è pensato con gli ultimi esecutivi che qualunque riforma dovesse partire dalla riduzione proprio del numero degli insegnanti. Ma cosa sappiamo in realtà sugli insegnanti?
La scuola è costituita in primo luogo dagli alunni e dai loro docenti. Ma se è abbastanza facile conteggiare il numero dei primi in un determinato periodo dell’anno, la determinazione della consistenza di maestri e professori risulta piuttosto complicata. Dobbiamo innanzitutto chiederci che cosa intendiamo per «docente in servizio». Il solo professore di ruolo o anche i supplenti? E, nel secondo caso, quali supplenti, soltanto quelli in servizio per tutto l’anno o anche quelli temporanei? I supplenti che, pur essendo in lista, non entrano quasi mai in classe sono docenti da contabilizzare o no? E non aiuta i nostri conteggi sapere che esistono due graduatorie dei precari: quelle ad esaurimento e quelle d’istituto. E gli insegnanti tecnico-pratici come vanno considerati?
Procediamo con ordine.

1.1. Quanti insegnanti entrano in classe ogni giorno?

Quella che a prima vista potrebbe sembrare una domanda banale non lo è affatto. In classe non entrano solo i docenti di ruolo – quelli a tempo indeterminato – e i supplenti. Ci sono i docenti di sostegno per i disabili, quelli di Religione cattolica e il personale educativo (ovvero i cosiddetti educatori in forza agli educandati e ai convitti nazionali). Ci sono poi gli esonerati per mandato sindacale e quelli per ragioni di servizio: come i vicari delle scuole con un numero elevato di classi. Ci sono, ancora, coloro che svolgono il dottorato di ricerca all’università e i «distaccati» presso gli ex provveditorati e negli uffici scolastici regionali. E ancora: i distaccati per l’attuazione dell’Autonomia e gli insegnanti all’estero. Per alcuni anni, gli insegnanti impegnati a fare «altro» conservano il posto e ogni anno vengono rimpiazzati da un supplente. Scorrendo le ultime pubblicazioni ufficiali del ministero dell’Istruzione scopriamo che il numero di docenti italiani – precari e di ruolo – nell’anno scolastico 2010/2011 è stato pari a 778.736 unità. Negli anni precedenti gli insegnanti italiani erano parecchi di più (tab. 1).
Oltre 680 mila insegnanti, in Italia, lavorano coprendo 642.858 cattedre comuni. Cosa fanno i 41.448 insegnanti in più rispetto al fabbisogno delle cattedre? Una parte lavora nella scuola a tempo parziale: nel 2009/2010 erano 21.235 gli insegnanti part-time. Ma i conti non tornano lo stesso: conteggiando questi ultimi, mancano all’appello sempre quasi 31 mila insegnanti. Per la maggior parte, si tratta dei cosiddetti «spezzonisti»: coloro che insegnano su un numero inferiore di ore/cattedra: su una cattedra di 18 ore possono esserci anche due o tre insegnanti e così il numero complessivo aumenta.
Le cose si complicano ancora di più passando al numero dei supplenti effettivi. Perché non tutte le supplenze anche di un intero anno scolastico vengono assegnate dagli ex provveditorati agli studi. Alcune, come le cosiddette supplenze per maternità, vengono assegnate dalle scuole. Così, se una docente si assenta per maternità e al suo posto ne vengono nominate due, ciascuna per metà orario, nella contabilità figura sempre un solo posto di supplente. Circostanza che si verifica per le supplenze conferite dopo il 31 dicembre e per tutte quelle, di durata inferiore all’anno scolastico, assegnate dalle scuole.
Per quanto possa sembrare paradossale, quindi, nessuno sa, forse neppure il ministero dell’Istruzione, quanti siano effettivamente i supplenti che entrano in aula ogni giorno. Anche perché il loro numero varia settimana per settimana, in relazione alle assenze degli stessi titolari.
Continuiamo la nostra indagine quantitativa: uno degli indicatori utilizzati dall’Unione europea per confrontare la competitività dei sistemi educativi dei Paesi membri è il rapporto esistente tra numero di alunni e numero di insegnanti. Un dato che, come si comprenderà facilmente, dipende parecchio dall’organizzazione scolastica dei diversi sistemi formativi: dal numero di ore di lezione lavorate dai singoli docenti alle ore che devono trascorrere a scuola gli alunni. Ad ogni modo, in questa particolare classifica per nazioni l’Italia si ritrova piuttosto in basso, quasi tra le ultime posizioni (tab. 2).
In realtà, basterebbe non conteggiare i 90 mila posti di sostegno del 2009, posti che all’estero sono gestiti da altri ministeri, per salire in classifica di diverse posizioni. Se decurtassimo infatti gli insegnanti di sostegno, il rapporto alunni/insegnanti italiano da 10,9 salirebbe a 12,2 e l’Italia si piazzerebbe accanto alla Svezia. E che dire degli insegnanti di Religione? Essendo quest’ultima una materia facoltativa, potremmo anche pensare di fare accollare alla Chiesa la spesa relativa ai docenti. Una decisione che alleggerirebbe le casse statali di quasi 700 milioni di euro. Nell’anno scolastico 2009/2010 erano infatti 26.326 gli insegnanti di Religione in servizio presso le scuole statali.

1.2. L’identikit: donna, meridionale e di mezza età

Quando si pensa ad un insegnante, oggi viene in mente quasi automaticamente la figura di una donna. Donna è quasi sempre la maestra della scuola materna e dell’elementare. Il maestro, come lo hanno conosciuto i nostri padri e i nostri nonni, è una specie in via di estinzione. Nell’anno scolastico 2009/2010 se ne contavano appena uno ogni 200 insegnanti nella scuola dell’infanzia e 4 su 100 alla primaria. Anche alla scuola media e alla scuola superiore il professore è spesso donna. Tre quarti degli insegnanti delle medie e due docenti su tre delle superiori sono donne. Secondo un’indagine pubblicata da Eurostat, in Italia, le donne in cattedra rappresentano il 78 per cento del totale. Una situazione che in Europa si registra soltanto in pochi Paesi: in Francia si tocca quota 66 per cento, 64 in Germania e 62 in Spagna. Nel Regno Unito il gentil sesso rappresenta il 68 per cento del totale e la scuola in Finlandia si colora di rosa nel 69 per cento dei casi. Una situazione che, nel nostro Paese, si è evoluta gradualmente verso il record attuale. Nel 1949/1950, i maestri della scuola elementare erano addirittura 29 su 100. Mentre nella scuola media i professori arrivavano alla quasi parità: 43 su 100. La scuola superiore era invece decisamente al maschile: nel 57 per cento dei casi ci si trovava di fronte un uomo. I tassi di «femminilizzazione» della scuola italiana, oggi, sembrano proprio la naturale evoluzione dell’emancipazione femminile degli ultimi cinquant’anni. La donna per affrancarsi dalla posizione di subordine nei confronti del padre e del marito iniziò a lavorare per rendersi economicamente indipendente. Ma spesso occorreva conciliare il carico degli impegni familiari e superare una certa diffidenza sociale. Quale lavoro scegliere? Il primo sbocco naturale era verso le professioni già «al femminile»: cioè l’insegnamento alla materna e all’elementare. E quello di maestra era il lavoro che per eccellenza garantiva uno stipendio accettabile e mezza giornata libera. Anche dal punto di vista sociale il lavoro di maestra, di pertinenza soprattutto femminile, era considerato «adatto» e non disdicevole. E il contatto con i bambini si conciliava bene anche col senso materno che una buona moglie doveva avere. Ovviamente, queste considerazioni sembrano archeologia sociale, ma fu verosimilmente anche così che cominciò la corsa «in rosa» alla cattedra.
Gli insegnanti italiani sono anche, e soprattutto, meridionali. Su questo i numeri non lasciano scampo a dubbi. Secondo una rilevazione condotta dal ministero dell’Istruzione dopo le proteste della Lega contro i docenti meridionali in servizio al Nord, nel nostro Paese oltre metà (il 55,4 per cento) degli insegnanti di ruolo in servizio nel 2007/2008 era nato in una delle otto regioni meridionali. L’incidenza sul totale del personale in servizio nelle regioni meridionali – insegnanti meridionali in servizio al Sud – è ovviamente alta: il 97 per cento. Ma anche nelle altre aree del Paese si contano tantissimi insegnanti nati al Sud: il 24 per cento nelle regioni settentrionali e il 22 per cento nell’Italia centrale. La presenza in cattedra di insegnanti meridionali è del 31 per cento in Lombardia e del 23 in Piemonte ed Emilia Romagna. Un fenomeno che sembra destinato ad accentuarsi se si volge lo sguardo ai dati riguardanti i docenti precari. D’altra parte, la pubblica amministrazione nel Meridione è stata una delle «industrie» più fiorenti. E la scuola fa parte proprio del settore pubblico. Quest’ultima, inoltre, ha – per larghissima parte – avuto necessità di assumere un gran numero di insegnanti, precari e di ruolo, e garantisce uno stipendio fisso. Insomma, un buon «posto». Nei momenti in cui la domanda di cattedre ha superato l’offerta, i docenti meridionali si sono spostati al Nord: «Meglio lontani da casa col lavoro che disoccupati nella terra natia», hanno pensato. Così, presi armi e bagagli in parecchi si sono trasferiti al Nord e molti ci sono rimasti per sempre.
Gli insegnanti sono inoltre di mezza età. L’Italia ha il corpo docente più vecchio d’Europa: con età media superiore ai 50. Gli under 30 sono pochissimi e anche gli under 40 scarseggiano: appena il 16 per cento nell’elementare e solo il 6 nella media e nella superiore. Nelle nostre scuole abbondano gli over 50: 48 su 100 nell’elementare e addirittura 63 nella scuola di secondo grado. Una situazione, quest’ultima, che non ha pari in nessun altro Paese europeo. In Germania, uno dei Paesi con i docenti più «vecchi», alle superiori ci sono ben 24 under 40 in cattedra su 100 – un numero quattro volte superiore al nostro – che diventano 33 in Finlandia e addirittura 40 in Spagna. Il corpo docente più giovane è quello di Malta, col 63 per cento di professori che non hanno ancora spento 40 candeline.

1.3. La galassia dei precari

Chiariamolo una volta per tutte: senza precari la scuola non potrebbe stare in piedi. Tuttavia del precariato esiste una dimensione fisiologica e una patologica: l’impressione è che in Italia ci muoviamo da troppo tempo in questa seconda direzione.
Quella dei precari della scuola italiana può essere definita una vera e propria galassia. Quanti sono? Che competenze hanno? Da quanto tempo sono in graduatoria? Quali speranze hanno di essere stabilizzati in tempi ragionevoli? La storia del precariato è lunghissima. Partiamo, per comodità, dal boom economico degli anni Sessanta. Tra gli anni Sessanta e Settanta, la scolarizzazione determinò un incremento tale del numero degli alunni (si passò dai 6 milioni agli oltre 9 milioni di alunni) da richiedere un esercito di supplenti. Fino ad allora, per entrare nei ranghi della scuola occorreva affrontare il concorso pubblico per esami e titoli. Nel 1974, il decreto legislativo 417 stabilì che era possibile entrare di ruolo nella scuola anche attraverso un concorso per soli titoli. Si trattò di una prima apertura verso la stabilizzazione dei precari. E alcuni anni dopo, nel 1982, per la prima volta passò l’idea che ai precari potesse e dovesse andare una quota dei posti vacanti: il 50 per cento delle cattedre del concorso pubblico successivo. Ma fu nel 1989 che nacque il cosiddetto «doppio canale»: metà dei posti disponibili veniva, come accade tuttora, assegnato ai precari iscritti nelle graduatorie provinciali e l’altra metà ai vincitori del concorso a cattedre. Alle migliaia di precari, che negli anni precedenti avevano raccolto abilitazioni e giorni di servizio nelle scuole statali, venne così riconosciuta la possibilità di entrare di ruolo senza sostenere alcun concorso. Dal 1989 in poi, la legislazione italiana diede quindi ai supplenti la legittima aspettativa di essere, prima o poi, stabilizzati. Il resto è storia recente. Nel 2000, le graduatorie del doppio canale furono trasformate in «graduatorie permanenti». In precedenza, trattandosi di graduatorie del concorso per soli titoli, le liste scadevano con l’attivazione del concorso successivo e in ogni caso occorreva riformularle ogni due o tre anni. Questo fatto determinava l’odioso fenomeno degli «scavalcamenti», ovvero la possibilità di essere avvantaggiati dal cambio di provincia.
Il 2000, per i cosiddetti esperti, diventò lo spartiacque fra precariato «storico» e «moderno». Le liste dei precari sono come il purgatorio dantesco: suddivise in tre fasce, più una quarta fascia di cui parleremo più avanti. Nel frattempo, il numero dei precari in lista crebbe in maniera abnorme, tanto che il ministero decise di studiare per la prima volta il fenomeno. Nel 2000, erano iscritti in graduatoria quasi 300 mila docenti, per la maggior parte meridionali: 170.998 supplenti su un totale di 294.951 erano nati al Sud, poco meno di 58 supplenti su 100 erano quindi meridionali. Un dato che, negli anni successivi, ha determinato parecchi attriti tra le forze politiche radicate al Nord, come la Lega, e il resto d’Italia. D’altra parte, fin quando al Nord le industrie e le fabbriche erano prodighe di posti di lavoro, gli abitanti delle regioni settentrionali optavano per lavori più remunerativi. Ma appena la crisi cominciò a mordere e iniziarono i licenziamenti, anche in «Padania» un posto da insegnante a scuola cominciò a diventare una buona opportunità. Una guerra fra poveri, insomma. Perché, nel frattempo, i supplenti meridionali avevano accumulato enormi punteggi e superavano sistematicamente i colleghi del Nord Italia.
Nel 2007, con l’esplicito obiettivo – mai raggiunto da nessun governo – di riassorbire il precariato della scuola, l’allora ministro della Pubblica istruzione, Giuseppe Fioroni, trasformò le graduatorie permanenti in graduatorie ad esaurimento: liste che si sarebbero dovute esaurire con l’assunzione di tutti i precari iscritti. Forse, ad «esaurimento nervoso» di coloro che ne facevano parte, visto che con l’ingresso – nel 2008 – della Gelmini nell’agone politico i precari vennero letteralmente falcidiati e la speranza di raggiungere l’agognata immissione in ruolo si allontanò definitivamente.
Nel 2009, il numero degli iscritti nelle graduatorie scese a 277.661 unità. Di questi, i precari «veri» erano 246.847, perché, per uno strano scherzo della normativa, poco più di 30 mila iscritti sono già di ruolo. Un numero comunque enorme di precari, che Fioroni intendeva in parte assorbire con un maxipiano di 150 mila assunzioni, varato nel 2007, ma che l’anno successivo venne bloccato dal governo Berlusconi. Nel 2011, alcune statistiche non ufficiali riportano una consistenza del precariato ancora in calo: 245.371 supplenti, suddivisi in tre fasce. Nella prima ci sono i reduci dalle graduatorie del doppio canale, nella seconda coloro che al momento del passaggio alle graduatorie permanenti erano in possesso dell’abilitazione e di 360 giorni di supplenza nella scuola statale e, infine, nella terza coloro che si trovavano in possesso della «sola» abilitazione all’insegnamento. Un numero comunque alto che difficilmente si riuscirà ad assorbire in tempi brevi. Nel 2009, prima cioè che sulla scuola si abbattesse il ciclone Gelmini, il ministero stimava che due graduatorie provinciali su tre potessero assumere tutti i precari in lista in tempi superiori ai due trienni: da 6 a 9 anni e oltre. E si trattava comunque di una valutazione ottimistica, perché l’ulteriore taglio all’organico del personale – operato nel 2009/2010, 2010/2011 e 2011/2012 – rende i tempi ancora più lunghi.
Ma, paradossalmente, la scuola non può fare a meno dei precari: il precariato è fisiologico, lo abbiamo detto. Cerchiamo di capire perché. La complessa macchina dell’istruzione pubblica, appena pochi mesi dopo l’inizio dell’anno scolastico, si mette in moto per avviare il successivo. Tra dicembre e gennaio, prima ancora che si aprano le iscrizioni all’anno successivo e molto prima che si facciano gli scrutini di fine anno – a giugno –, occorre predisporre tutto, sia per i trasferimenti del personale – docenti e Ata (amministrativi, tecnici, ausiliari) – sia per gli organici dell’anno successivo. Per effettuare i tagli agli organici del personale e assegnare gli insegnanti alle scuole, per esempio, il ministero stima la popolazione scolastica di ogni regione e in base a questa, dopo avere operato il taglio, determina l’organico di diritto. Poi, le scuole raccolgono le iscrizioni, svolgono gli scrutini di fine anno e, nel caso delle superiori, fanno sostenere gli esami di riparazione agli studenti. Solo allora, cioè a settembre, è possibile sapere quanti alunni effettivamente avrà una scuola. Un numero che dipende anche dai flussi tra i vari indirizzi delle superiori, dai trasferimenti tra i diversi istituti di una stessa città e dai trasferimenti tra le diverse realtà del Paese. Ed è quindi possibile determinare l’organico di fatto. Se in un istituto un docente di ruolo rimane senza cattedra e in un altro ne manca uno, non è detto che si possa sempre spostare il docente da una scuola all’altra, perché l’insegnante è di ruolo in un determinato istituto e ha dei diritti. Per evitare quindi di dover pagare stipendi a vuoto, come avviene in certi casi, lo Stato mantiene un certo numero di posti vacanti come bacino di compensazione per spostare agevolmente gli insegnanti da una scuola all’altra. Per definizione, infatti, i precari non hanno un posto fisso.
Ci sono, poi, una serie di istituti contrattuali che determinano precariato: se un docente svolge il dottorato all’università, al suo posto andrà un supplente. E se la scuola, per le sue dimensioni, necessita di un vicario esonerato dall’insegnamento, al suo posto subentrerà per un anno un altro supplente. Per avere un’idea della consistenza del precariato dei soli docenti basti citare due numeri: nell’anno scolastico 2010/2011, i docenti di ruolo sono stati 663 mila, 23.500 i supplenti annuali su posto vacante e 92 mila i supplenti fino alla fine delle lezioni: in totale, un supplente ogni 6 titolari. Una situazione che si può solo comprimere, ma non eliminare del tutto. E si può finalmente comprendere perché senza i 115 mila supplenti dell’anno appena trascorso la scuola sarebbe rimasta con migliaia di cattedre vuote. Anche le nuove regole per il reclutamento prevedono un precariato.
Nell’immaginario collettivo il supplente è anche giovane e libero da impegni. Ma, purtroppo, non è così. L’età media dei precari della scuola, iscritti nelle graduatorie ad esaurimento, supera i 38 anni. Gli over 40 sono 38 su 100 e gli over 50, che in altri Paesi o in altre epoche sarebbero prossimi alla pensione, sono 8 su 100. Nell’arco di una decina d’anni, dal 2001 al 2011, il divario fra l’età media dei precari e quella dei fortunati di ruolo è aumentato: nel 2001 l’età media dei supplenti era di 39 anni e quella degli insegnanti di ruolo di 47. Nel 2009 l’età media dei titolari di cattedra è giunta a 50 anni. Chi transita nelle aule scolastiche del Belpaese non è quasi mai un giovanotto di primo pelo. A par...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. 1. Professione: docente
  3. 2. Gli alunni: croce e delizia degli insegnanti
  4. 3. C’era una volta il preside
  5. 4. Ma, alla fine, chi decide?
  6. 5. La scuola spiegata ai genitori
  7. 6. In classe anche i disabili
  8. 7. Che fine hanno fatto i bidelli?
  9. 8. Quanto sono «sgarrupati» gli edifici scolastici nel nostro Paese?
  10. 9. Ma quanto mi costi?
  11. 10. Le private: occasione per rilanciare l’intero sistema o «diplomifici»?
  12. 11. Uno sguardo al futuro