La coscienza e la legge
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La coscienza e la legge

  1. 184 pagine
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La coscienza e la legge

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La legge è sempre giusta? Un uomo di Stato e un uomo di Chiesa si confrontano a partire dalla propria visione della giustizia sui temi più urgenti del presente.

L'intenso dialogo tra Raffaele Cantone e Vincenzo Paglia consegna al lettore una ricca collezione di riflessioni sulla contemporaneità. E riporta in evidenza quel dualismo tra cultura laica e cristiana che è un lascito strutturale della storia italiana, ma che, come mostra questa serrata conversazione, riesce a trovare numerosi punti di intesa.Massimiliano Panarari, "La Stampa"

Se e quanto la legge coincida con la morale è questione vecchia di secoli, se ne parla almeno da quando Socrate bevve la cicuta, da innocente, semplicemente per non commettere ingiustizia. Suona come una novità che sull'argomento discutano, in un libro-dialogo, un colto uomo di Chiesa come Vincenzo Paglia e un giurista cattolico di spessore come Raffaele Cantone.Mario Garofalo, "Corriere della Sera"

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788858143247
Argomento
Economics

1.
Quale giustizia?

Secondo la visione cristiana, l’unica giustizia per l’uomo è la tensione verso Dio. Una concezione estranea alla cultura laica moderna, che considera la giustizia come conseguenza del patto teso a garantire sicurezza e riscatto dal bisogno per tutti coloro che hanno deciso di vivere insieme. In quale definizione di giustizia vi riconoscete?
PAGLIA Per il credente l’unico giusto è Dio. Secondo il credo cristiano, a differenza delle altre religioni monoteistiche, Dio è “uno e trino”. È un Dio che è una comunione di tre persone: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Non un Dio lontano, chiuso in una solitudine autarchica e perfino narcisistica, ma un Dio che ha deciso di uscire da Sé per legarsi all’uomo da lui creato a sua immagine e somiglianza, affidandogli la cura dell’intera creazione e la responsabilità delle generazioni. Ecco, questa è la giustizia divina: l’ordine del mondo, della storia, che corrispondono alla libertà dell’amore di Dio. Come scrive un antico testo che appartiene al corpus delle lettere dell’apostolo Paolo, il Figlio “è l’immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura; perché per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle visibili e quelle invisibili. [...] Perché piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose” (Lettera ai Colossesi 1, 15-16a, 19-20a). L’uomo, nella sua destinazione, è parte decisiva di questa giustizia prima e ultima, che si realizza, appunto, nell’essere in relazione con Dio, con l’umanità e con l’intera creazione. Tale visione utopica sostiene l’intera storia cristiana e ha ispirato la stessa modernità occidentale.
Vi è poi, secondo la narrazione del libro dell’Esodo, l’ingresso di Dio nella storia. Dopo aver ascoltato il grido del suo popolo ridotto in schiavitù, Dio decide di “scendere” sulla terra e ristabilire la giustizia per il suo popolo, ossia la sua liberazione dalla schiavitù e l’ingresso in una terra, da lui stesso donata, perché tutti potessero vivere nella libertà e nella pace. La consegna delle “tavole della legge” sul Sinai – mentre il popolo ebraico compiva il viaggio verso la terra promessa di Canaan – sanciva il patto tra Dio e Israele. Un patto asimmetrico – non poteva che essere così – ma segnato dalla scelta di un’appartenenza reciproca. Questa alleanza d’amore costituiva la sostanza della giustizia. Nessuno tra il popolo doveva essere discriminato, tanto meno scartato. L’abbandono dei più deboli – gli stranieri, i piccoli, le vedove e gli orfani – rappresentava il tradimento della giustizia. In questa evenienza, Dio stesso si ergeva a difensore dei loro diritti contro gli oppressori. E la giustizia doveva essere ripristinata.
Senza ripercorrere le pagine dell’Antico Testamento sul tema della giustizia come armonia nella vita dell’intero popolo di Israele, faccio almeno un cenno alle due istituzioni create per ristabilire la giustizia sociale: l’anno sabbatico e l’anno giubilare. Sono due scadenze temporali della durata di un anno ciascuna durante le quali il popolo di Israele era chiamato a ristabilire la giustizia che era stata scardinata. Per l’anno sabbatico il libro dell’Esodo scrive: “Per sei anni seminerai la tua terra e ne raccoglierai il prodotto, ma al settimo anno non la sfrutterai e la lascerai incolta: ne mangeranno gli indigenti del tuo popolo e i loro avanzi saranno divorati dalle bestie della campagna. Così farai per la vigna e per il tuo uliveto. Per sei giorni farai i tuoi lavori, ma al settimo giorno farai riposo, perché possano goder quiete il tuo bue e il tuo asino, e possano respirare i figli della tua schiava e il forestiero” (23, 10-12). Per il Giubileo così scrive il libro del Levitico: “E santificherete il cinquantesimo anno, e proclamerete la liberazione nel paese di tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un Giubileo; ognuno di voi tornerà nella propria proprietà, e ognuno di voi tornerà nella propria famiglia” (Levitico 25,10). In quell’anno tutti gli abitanti del paese e persino la terra e l’ambiente dovevano essere liberati da qualsiasi genere di schiavitù: le terre dovevano rimanere incolte (una pratica ecologica resa necessaria dalla perdita di fertilità del suolo in seguito a un eccessivo sfruttamento), ognuno rientrava in possesso del proprio patrimonio, si cancellavano i debiti ai debitori e gli schiavi venivano liberati. In quell’anno si ristabiliva la giustizia così come era stata voluta da Dio fin dall’inizio.
Il Nuovo Testamento spinge il senso della giustizia verso l’altezza del mistero di Dio, come appare chiaro da queste parole di Gesù rivolte ai suoi ascoltatori: “Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli” (Matteo, 5,20), laddove gli scribi e i farisei sono il simbolo di un rispetto letterale della legge. È sufficiente già questa affermazione evangelica per mostrare che il compimento della giustizia va ben oltre la sola osservanza delle leggi: significa invece imitare Dio stesso e quindi realizzare una società ove viene bandita ogni discriminazione, ogni violenza, ogni ingiustizia. Gesù è il volto visibile dell’uomo giusto e il Vangelo la magna charta della giustizia. Nelle pagine evangeliche il senso della giustizia comporta certamente l’osservanza della legge, ma assieme anche la gratuità dell’amore, che spinge alla edificazione di una società ove il perdono ha la sua cittadinanza. Nessuno deve essere condannato senza speranza. Tutti sono chiamati alla salvezza. La legge e la “grazia” (la gratuità dell’amore) definiscono la giustizia. Tocchiamo qui il grande tema della giustificazione che è stato il nodo cruciale della disputa tra i cattolici e i protestanti. Del resto, entra nel cuore dei rapporti tra Dio e l’uomo. Solo nella seconda metà del Novecento è stata trovata una sintonia tra cattolici e protestanti sulla dottrina della giustificazione intendendo la giustizia come opera gratuita di Dio che tuttavia richiede un’accoglienza operosa da parte dei credenti. Dio è l’unico giusto che rende giusti i peccatori che l’accolgono.
La giustizia quindi – è un insegnamento chiaro nei Vangeli – non si realizza nella semplice osservanza delle disposizioni legali, quanto piuttosto nel processo di edificazione di una società come che sia “fraterna”, che realizzi cioè una communitas alla quale tutti debbono partecipare senza che nessuno venga escluso. Questa è la “volontà” di Dio che corrisponde alla sua “giustizia”. La giustizia pertanto non è semplicemente un comportamento individualmente corretto. È molto di più, è l’edificazione della communitas. L’essere e l’agire di Dio sono l’archetipo per l’uomo. C’è perciò un “oltre” – nei comportamenti umani – che fa parte della sua giustizia più “alta”. Quest’oltre fa da sentinella alla pienezza della giustizia perché non prevalga la fredda “legalità”. È ben nota l’affermazione evangelica “il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato” (Marco 2,27). Appare evidente – anche solo in questo passaggio – il primato dell’uomo, che resta il metro per definire la giustizia. È in tale orizzonte che, a mio avviso, si può iscrivere l’antico adagio fiat iustitia et pereat mundus. Questa affermazione attribuita a Gaio Cassio Longino, uno degli assassini di Cesare, venne corretta da Hegel, in una forma forse più attenta, con fiat iustitia ne pereat mundus. Ogni volta che l’uomo – qualsiasi uomo – viene offeso, è il mondo che perisce. E la giustizia del comandamento dell’amore di Dio, che si condensa nell’amore del prossimo, viene contraddetta. Insomma, parafrasando il Vangelo, si può dire: la legge è per l’uomo, non viceversa.
La persona umana resta fine di ogni azione dell’uomo, anche nella prospettiva sociale. Nessuna istituzione, a cominciare dallo Stato, può pretendere un potere assoluto, può esigere obbedienza incondizionata dalle coscienze o circoscrivere l’orizzonte della vicenda umana entro uno spazio e un tempo. La centralità dell’uomo risponde alla convinzione che la persona umana è il cuore di ogni vero sviluppo, di ogni salda architettura sociale, compresa la polis. Questa concezione dell’uomo, come la creatura più alta uscita dalle mani di Dio, deve comunque ricordarci la sua fragilità e la sua radicale dipendenza da Dio e dagli altri. L’uomo non è ab-solutus, non è sciolto da tutti e da tutto. La tentazione dell’autosufficienza – la stessa che ebbero Adamo ed Eva: ossia mettersi al posto di Dio – porta l’uomo ad assolutizzare le sue scelte e le sue decisioni con danni talora irreparabili. La coscienza del limite – indispensabile sia ai credenti sia ai non credenti – è la base che tiene unito il rapporto dialettico tra la persona e la comunità.
Ritroviamo tale relazione – che nel pensiero cristiano ha un’alta definizione – anche nella tradizione classica. Aristotele, ad esempio, considera la giustizia come una “virtù perfetta”: “chi la possiede può servirsi di questa virtù anche nei riguardi di un altro e non solo di se stesso”. È però un’opera “difficile”, sostiene lo Stagirita, e per questo bisognosa di radici più profonde che si trovano nell’amicizia (philia): “sembra che persino le città siano tenute unite dall’amicizia, ed i legislatori si preoccupano di essa ancor più della giustizia [...]. Quando si è amici, non c’è bisogno per nulla della giustizia, mentre, anche essendo giusti, si ha bisogno dell’amicizia, e il più alto punto della giustizia sembra appartenere alla natura dell’amicizia” (Etica Nicomachea 1155a). Mi pare non poco significativo che anche nella tradizione greco-romana sia presente l’attenzione ad un “oltre” la legge e che la scienza giuridica occidentale lo abbia accolto e organizzato in maniera efficace.
È una dimensione che chiede un più attento dialogo tra le culture e le fedi. La convivenza pacifica tra i popoli richiede che non venga separata la giustizia dalla carità. Nel corso della storia, alcuni hanno ritenuto – erroneamente – che la carità sia stata persino pericolosa perché avrebbe evitato la lotta alle ingiustizie, soprattutto quelle strutturali. Nulla di più scorretto. In realtà, mai l’una può fare a meno dell’altra. Quante volte, in nome di una giustizia che non conosce l’amore, si sono compiute incredibili efferatezze! La giustizia non basta mai. Anche nel più perfetto Stato del mondo, resteranno sempre uomini e donne esclusi. Solo chi coltiva la caritas può fare qualcosa per loro, perché ha occhi attenti per ogni persona: ne conosce i sentimenti, ne condivide le condizioni, ne ascolta le vibrazioni, e cerca di penetrare nei lati bui della loro esistenza. Chi conosce la caritas – diceva Dostoevskij – sa spingersi sino agli estremi territori della pietà e della compassione: è disposto a perdersi, pur di salvare una sola scintilla umana dalla rovina. Farsi prossimo agli uomini mezzi morti del mondo contemporaneo significa scardinare quella egolatria che sta portando all’imbarbarimento della vita dei singoli e delle società.
CANTONE Trovo questo lungo excursus molto stimolante, perché rende bene l’idea trascendente della giustizia secondo la religione cristiana, ovvero l’idea di una giustizia legata alla parola di Dio. In quest’ottica gli stessi valori costituenti del cristianesimo finiscono per incarnare il paradigma della giustizia, che si esprime mediante un diritto al quale le leggi devono far riferimento in maniera diretta. Di conseguenza tali valori, essendo assoluti, si impongono su qualunque declinazione di giustizia, sia essa giudiziaria, economica o sociale. Tant’è vero che nella religione e nella teologia cristiana quel concetto di diritto, considerato come diritto naturale, viene utilizzato in alternativa a quello di diritto positivo, che invece ha un’ascendenza prettamente secolare.
Più complessa è la questione nel pensiero laico, che ha subìto nel corso dei secoli una evoluzione tale per cui non è possibile definire sic et simpliciter i termini della questione. Di certo il dualismo fra giustizia e legge ha connotato tutta la storia del pensiero umano intorno al grande interrogativo: esiste una giustizia fuori dalla legge o la giustizia coincide (e quindi si esaurisce) con la legge e con la sua osservanza? Nel mondo antico questo dissidio è esemplificato alla perfezione dall’opposto approccio che hanno Antigone e Socrate. Quest’ultimo, pur consapevole di essere stato condannato a morte ingiustamente, rifiuta di fuggire e dice al discepolo Critone, che cerca di convincerlo a scappare per salvarsi la vita: “Non dobbiamo ricambiare le ingiustizie, né fare del male a nessuno, qualsiasi cosa gli altri facciano a noi. Non è mai corretto commettere ingiustizia e neppure ricambiarla”. Antigone, al contrario, è disposta a violare la legge pur di seppellire il fratello Polinice, anche se il re di Tebe ne ha vietato la sepoltura e per vendicarsi vuole che il corpo sia lasciato in pasto ai rapaci e ai cani: “Quest’ordine non l’ha dato Zeus, a me – risponde la ragazza al sovrano che le chiedeva come avesse osato trasgredire le disposizioni –. Gli ordini che tu gridi non hanno tanto nerbo da far violare a chi ha morte in sé regole sovrumane. Regole non d’un’ora, non d’un giorno fa. Hanno vita misteriosamente eterna”. In questo secondo caso è evidente il richiamo a una legge naturale e superiore alla quale dare ascolto, anche se ciò comporta l’inosservanza delle leggi umane.
Con l’affermazione del cristianesimo e il suo lascito culturale e politico, nel Medioevo e poi nell’Età moderna il potere negli Stati assoluti finisce per conformarsi – se non altro in astratto – ai dettami della giustizia e della morale cristiana (la celeberrima endiadi Trono e Altare): il monarca è tale per diritto divino, quindi è legibus solutus, e la sua autorità (e dunque la sua legittimazione) discende direttamente da Dio. Ne deriva che la legge, promanando dal sovrano, non può che essere sempre giusta, a prescindere dall’aspetto sostanziale. Pensiamo al motto Dieu et mon droit, contenuto nello stemma reale del Regno Unito: fu utilizzato per la prima volta nel XII secolo da Riccardo Cuor di Leone, ma è stato ripreso da tutti i sovrani successivi, proprio per la capacità di esprimere quanto i due concetti siano legati fra loro e si trovino sullo stesso piano.
Sotto questo aspetto la Rivoluzione francese rappresenta uno spartiacque fondamentale. Con la fine dell’assolutismo e la comparsa del concetto di sovranità popolare si fa strada l’idea che la legge, quale prodotto del Parlamento eletto, se è stata approvata seguendo le procedure previste non solo sia legittima ma anche di per sé giusta. Del resto, fino ad allora il potere era stato soggetto all’arbitrio e alla discrezionalità assoluta del re, quindi è comprensibile che il rispetto della forma (rectius: la conformità alla legge) prevalga su ogni altra considerazione e diventi il mezzo che assicura la legittimità dei provvedimenti.
Ma si può davvero sostenere che la giustizia coincide sempre con la legalità? La risposta è no, perché è chiaro che esistono momenti storici in cui difendere questa tesi diventa impossibile. Non a caso questa concezione procedimentale del diritto entra in crisi con l’affermazione dei totalitarismi. Nel Terzo Reich, in particolare, appaiono evidenti tutti i limiti del formalismo giuridico: le Leggi di Norimberga, che ufficializzano la politica discriminatoria su base razziale, sono approvate all’unanimità dal Reichstag, seguendo la corretta procedura parlamentare. Escludere un bambino ebreo di appena sei anni da tutte le scuole pubbliche della Germania diventa legale: lo prevede la legge. Ma può considerarsi questo un elemento sufficiente per ritenere legittimo un provvedimento? Davanti all’indicibilità dello sterminio si può sostenere, come farebbe Socrate, che il rispetto delle leggi è un bene supremo da tutelare sempre e comunque? Sarà un caso, ma la giustificazione che abbiamo sentito ripetere dai nazisti, da Adolf Eichmann a Erich Priebke, è sempre stata: “Ho solo eseguito degli ordini”, come se bastasse questa considerazione, ovvero il rispetto del comando ricevuto, per respingere la responsabilità (anche penale) del proprio operato.
Dalla manifesta insufficienza del mero criterio di legalità nasce quindi la necessità di individuare alcuni criteri fondamentali e generali che consentano di ritenere che una legge, anche se formalmente approvata in maniera corretta, possa non essere giusta. Allo stesso tempo, dalle macerie morali e materiali della seconda guerra mondiale sorge quella che Norberto Bobbio ha chiamato l’“età dei diritti”, che nessuna legge può comprimere. Nascono così pietre miliari come la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948...

Indice dei contenuti

  1. 1. Quale giustizia?
  2. 2. Punizione e perdono
  3. 3. Settimo: non rubare
  4. 4. Di fronte alle mafie
  5. 5. Migranti, accoglienza, conflitti
  6. 6. Le ingiustizie della giustizia
  7. Epilogo. Le nostre coscienze, le nostre leggi
  8. Ringraziamenti