Dal terrorismo degli «anni di piombo»
al terrorismo internazionale
di Armando Spataro
Nel contrasto del terrorismo la magistratura italiana ha sempre dedicato prioritaria attenzione al dovuto rispetto dei diritti delle persone indagate: ciò è avvenuto sia durante gli «anni di piombo», nei confronti del terrorismo interno, sia negli ultimi due decenni, segnati dal terrorismo internazionale. A tale ultimo proposito, ha respinto le teorizzazioni della cosiddetta War on Terror, partorite oltreoceano a cavallo dell’11 settembre, di cui si parlerà più avanti.
1. Magistratura e polizia giudiziaria negli anni di piombo:
auto-organizzazione e stretta collaborazione
In particolare, durante gli anni bui del terrorismo interno, che vanno dalla fine degli anni Sessanta fino al 1988, i magistrati sono stati capaci di esprimere un eccellente livello di professionalità: specializzazione, lavoro di gruppo, coordinamento spontaneo tra uffici giudiziari, raccordo effettivo e leale con la polizia giudiziaria, capacità di gestione di un fenomeno divenuto quasi «di massa» come quello dei cosiddetti pentiti e, come si è detto, rispetto delle garanzie degli imputati furono i fattori che ne caratterizzarono l’azione.
Ma è bene procedere con ordine.
La situazione della polizia giudiziaria, prima del sequestro Moro (16 marzo 1978), era sostanzialmente la seguente: nel 1974, dopo il sequestro del giudice Sossi e la strage di piazza della Loggia, erano stati costituiti l’Ispettorato per l’azione contro il terrorismo (affidato al vicecapo della polizia, Emilio Santillo) e il Nucleo speciale di polizia giudiziaria dei Carabinieri (diretto dal generale Carlo Alberto dalla Chiesa e diverso da quello che verrà costituito nel 1978), anche per dare supporto all’autorità giudiziaria di Torino nelle prime indagini sulle BR; ma entrambi tali reparti, nonostante gli ottimi risultati conseguiti, erano stati poi sciolti o trasformati. Questa scelta, secondo alcuni commentatori dovuta all’erroneo convincimento che le BR fossero state definitivamente sconfitte con l’arresto di Curcio e di altri storici esponenti di quell’organizzazione, non aveva però prodotto un effettivo indebolimento degli apparati di investigazione, determinandone piuttosto una diversa strutturazione, con perdita della guida centralizzata e della capacità di muoversi agilmente su tutto il territorio dello Stato. Peraltro, all’inizio del 1978, i nuclei regionali e gli uffici politici della polizia furono sostituiti dalle DIGOS (Direzioni investigazioni generali e operazioni speciali) – costituite nelle questure dei capoluoghi di regione nonché a Padova e Catania – cui fu attribuita la competenza per le indagini in materia di terrorismo.
Però, mentre le forze di polizia giudiziaria avevano già intrapreso il cammino verso una più diffusa specializzazione in questa materia, la magistratura, salvo che a Torino, era invece decisamente indietro: mancavano ancora la cultura dello scambio reciproco delle informazioni tra uffici giudiziari e la capacità di coordinare quelli di polizia giudiziaria. Si spiega, allora, perché il sequestro di Aldo Moro colse le istituzioni impreparate: indagini frammentate, talvolta approssimative e comunque prive di efficace coordinamento, costituivano la normalità quasi dappertutto.
Ma proprio quel tragico evento determinò l’iniziativa autonoma di pubblici ministeri e giudici istruttori che, in assenza di interventi legislativi o di direttive politiche, diedero vita a un coordinamento spontaneo tra gli uffici giudiziari interessati dal fenomeno, fino alla creazione, al loro interno, di gruppi specializzati nel settore del terrorismo. Eppure, il sistema di legge dell’epoca non prevedeva alcuna norma in tema di coordinamento, ma piuttosto regole che ostacolavano lo scambio di notizie. Quel gruppo di magistrati investigatori non superava il numero di venti-venticinque unità: nel corso dei loro incontri, si scambiavano in tempo reale notizie sulle indagini ed elaboravano indirizzi giurisprudenziali applicati uniformemente. Quando poi, tra la fine del 1979 e l’inizio del 1980, si manifestarono le collaborazioni dei primi terroristi «pentiti», i magistrati facevano immediatamente circolare tra loro i verbali delle dichiarazioni acquisite, accordandosi sulla ripartizione di competenze «a fare» e su tempi e modalità di eventuali e conseguenti sbocchi operativi (perquisizioni e arresti). Anche l’evoluzione delle strategie dei gruppi armati, le loro «risoluzioni strategiche» e i volantini di rivendicazione venivano analizzati da quei magistrati, alcuni dei quali avevano il compito di confrontare e sintetizzare i documenti d’interesse: in assenza di computer e banche dati, essi divennero la memoria storica della produzione ideologica dei gruppi terroristi.
In breve, a quelle riunioni presero a partecipare anche i responsabili degli organismi investigativi della polizia giudiziaria che andavano ulteriormente incrementando la loro specializzazione (il nuovo Nucleo speciale interforze comandato dal generale dalla Chiesa venne costituito il 10 agosto del 1978): proprio per effetto di questo stretto rapporto tra magistrati e forze di polizia fu possibile non solo dare attuazione piena al principio costituzionale (art. 109) della subordinazione funzionale della polizia giudiziaria alle direttive del pubblico ministero – e, all’epoca, dei giudici istruttori – ma anche favorire reciprocamente, attraverso il confronto tra le rispettive esperienze, una consistente crescita di professionalità e la capacità di coordinamento di tutte le istituzioni impegnate nelle indagini giudiziarie sul terrorismo.
E ciò avvenne senza alcuna necessità di ricorrere a tribunali speciali, a processi sommari o all’intervento dei Servizi d’Informazione, la cui competenza – secondo il sistema italiano – concerne l’attività di prevenzione dei rischi per la sicurezza nazionale, senza possibilità di interferenza o di relazioni funzionali con la magistratura.
Non a caso per i Servizi, riformati nel 1977, fu previsto l’obbligo di riferire le notizie di reato alla polizia giudiziaria, tramite i rispettivi vertici: un obbligo confermato dalla legge di riforma n. 124/2007.
Dunque, né confusione né scorciatoie nella lotta al terrorismo ma, in sostanza, la creazione di una sorta di task force composta da magistrati e polizia giudiziaria, capace di valutare congiuntamente le modalità e i tempi degli sviluppi investigativi con l’attenzione rivolta alle regole e alle necessità del futuro dibattimento, nonché prudente nell’analizzare la reale pertinenza o meno dei fenomeni di cosiddetto antagonismo sociale (fisiologici in qualsiasi democrazia avanzata) alla pratica del terrorismo vero e proprio.
2. Il ministro Rognoni, la legislazione dell’emergenza
e la collaborazione dei «pentiti»
Ma proprio nel 1978, in particolare nel periodo successivo al rapimento di Moro, la situazione registrò un’evoluzione positiva: accanto alla descritta capacità di auto-organizzazione della magistratura, intervennero la spinta positiva impressa alle istituzioni dal ministro dell’Interno Virginio Rognoni (destinato a tale ruolo dopo il rinvenimento del corpo di Moro in via Caetani a Roma e le dimissioni di Francesco Cossiga) e una produzione legislativa frutto di un clima politico che, almeno nello sforzo di contrastare il terrorismo, favoriva iniziative condivise da maggioranza e opposizione.
La nomina di Rognoni, accademico e uomo di grande esperienza politica, diede vigore alla lotta al terrorismo. Egli fu sempre al fianco delle forze dell’ordine e vicino ai magistrati: ne ascoltava e vagliava le proposte e, nell’ovvio rispetto delle diverse competenze, sosteneva con forza in sede politica quelle in cui credeva.
Secondo alcuni commentatori, quegli anni sarebbero stati caratterizzati dalla produzione di una legislazione emergenziale che avrebbe condotto al sacrificio di diritti e garanzie degli imputati. Si fa spesso riferimento, ad esempio, alla legge Reale del 22 maggio 1975, ma si omette di ricordare che tale legge risaliva a un periodo in cui il terrorismo non si era ancora manifestato nelle sue forme più cruente: era in realtà una legge sull’ordine pubblico, non certo finalizzata a contrastare il fenomeno terroristico.
Collegate all’estendersi del terrorismo, invece, furono due leggi rispettivamente approvate nell’agosto 1977 e nel maggio 1978 (pochi giorni dopo l’omicidio di Aldo Moro), che introdussero alcune novità processuali e alcuni nuovi reati, come il sequestro di persona a scopo di terrorismo.
Del tutto inutilizzati, invece, furono altri nuovi strumenti introdotti in quegli anni, come ad esempio, nel dicembre 1979, la possibilità, in presenza di determinati presupposti, della perquisizione per blocchi di edifici da parte delle forze di polizia anche senza autorizzazioni dei magistrati: nessun serio investigatore, infatti, potrebbe preferire uno strumento di questo genere al paziente lavoro di osservazione e pedinamento indispensabile nelle indagini contro ogni tipo di criminalità organizzata. Meglio pedinare il ricercato, insomma, e arrivare ai suoi complici piuttosto che effettuare perquisizioni indiscriminate.
Gli strumenti «emergenziali» effettivamente utili contro il terrorismo, invece, furono sostanzialmente due, entrambi introdotti nell’ordinamento alla fine del 1979: la previsione di una nuova aggravante, cioè quella dell’avere commesso il fatto per finalità di terrorismo, e la normativa premiale in favore dei cosiddetti «pentiti». Si tratta di norme tuttora in vigore e non, dunque, di strumenti eccezionali, ma ordinari e ancora necessari contro il terrorismo dei giorni nostri. Alla luce dei risultati conseguiti per quella strada, il Parlamento approvò un’altra legge nel maggio del 1982, che introdusse benefici ancora maggiori (possibilità di più incisive riduzioni di pena e di libertà provvisoria, nonché casi di non punibilità per i responsabili di alcuni delitti) per i terroristi che avessero scelto la strada della piena collaborazione processuale entro il breve termine previsto da...