Napoli, Belle Époque
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Napoli, Belle Époque

  1. 202 pagine
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Napoli, Belle Époque

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È un'impresa non facile raccontare Napoli anche per chi ne conosce le viscere. Francesco Barbagallo è riuscito a farlo con rigore, senza noia accademica, in un libro di grande contemporaneità. Corrado Stajano, "Corriere della Sera"

Napoli, Belle Époqueè un lavoro storico, documentato, con un uso ben preciso delle fonti e una visione d'insieme netta e precisa. Ma è allo stesso tempo come un romanzo, ricco di paesaggi urbani, di personaggi, di colpi di scena. Il prologo e l'epilogo sono neri e tragici ma incorniciano un racconto che forse si potrebbe definire felice.Silvio Perrella, "Il Mattino"

Una metropoli moderna che eccelle nei più diversi campi della cultura: filosofi e letterati, ingegneri e architetti, la canzone come industria culturale, il cinema muto. E poi grandi magazzini di livello europeo, iniziative imprenditoriali e lotte sociali avanzate. Napoli fino al 1915 è ancora una capitale europea. Dopo non lo sarà più.

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Informazioni

V.
Le culture di Napoli

1. Una metropoli ancora europea

Fare i conti con Napoli è complicato. Una città con una storia plurimillenaria, forgiata dall’insediamento delle più diverse civiltà, venute dal bacino del Mediterraneo o discese dal Nord Europa. Una grande capitale europea, sempre ai vertici dell’alta cultura, ma segnata dall’analfabetismo della sua plebe eccessiva e anche di aristocratici potenti. Un riformismo troppo presto interrotto nell’intensa stagione dell’illuminismo e degli inizi di una dinastia indipendente, un tentativo di rivoluzione aristocratico-borghese sventato nel 1799 dalla reazione plebea guidata dalla Chiesa, nell’eterno conflitto tra potenze straniere.
Le contraddizioni di Napoli, che dalla natura ha avuto il privilegio di stendersi in un sito tra i più suggestivi del mondo, toccano l’apice nel periodo a cavallo tra Ottocento e Novecento. È questo il momento in cui l’Italia intraprende la strada della modernità capitalistica di tipo industriale, agganciandosi all’Europa più avanzata, dalla quale era ancora ben lontana al momento dell’Unità, nel 1861. È ora che il Mezzogiorno vede crescere la distanza dal Settentrione d’Italia. E inizia ad aggravarsi la «questione meridionale», esplosa peraltro già al momento dell’unificazione in quella vera e propria «guerra civile» – come lo definì subito il neonato Parlamento italiano – che fu il «brigantaggio».
Qual è allora lo stato reale della «questione di Napoli», sorella gemella dell’altra «questione», ma dai tratti differenti, come capita anche tra gemelli? Certo Napoli non era più la capitale di un grande regno, che aveva largamente sfruttato per il suo fastoso splendore. Com’era chiaro già ai più insigni illuministi, che avevano prodotto per tempo, ad opera di Giuseppe Maria Galanti, la metafora della «grande testa sul corpo meschino». È vero: anche Parigi era una grande testa, ma la Francia non era «un corpo meschino». Lo era invece il Regno delle Due Sicilie, con la sua arretratezza, l’assolutismo spergiuro, gli scarsi commerci, l’inadeguato sistema bancario, l’analfabetismo, la mancanza di strade, i tratti ferroviari che portavano solo da una reggia all’altra.
Sulla condizione di Napoli italiana abbiamo una letteratura imponente, per lo più espressione della parte liberale antiborbonica dell’intellettualità meridionale, ma anche diari e ricostruzioni di chi restò fedele alla precedente dinastia. L’immagine nettamente prevalente di Napoli nei primi decenni unitari è quella di una città in decadenza, una «città regia» che non riesce a trasformarsi in «città borghese», una metropoli ancora tra le più popolose d’Europa ma il cui fascino appare compromesso dalla «scoperta» delle miserabili condizioni di vita della gran parte dei suoi abitanti.
Limitiamoci a considerare le riflessioni e i giudizi di uno solo tra i grandi interpreti della realtà napoletana nel primo cinquantennio italiano: Giustino Fortunato, pronipote di un primo ministro di Ferdinando II, nipote di due proprietari lucani arrestati per sospette connivenze e «manutengolismo» con i briganti già loro dipendenti, figlio di un padre morto «col dolore, con la certezza morale della soggezione di queste province allo ‘straniero’!».
Saranno i corsi di letteratura italiana di Settembrini e poi di De Sanctis seguiti, dopo la laurea in Giurisprudenza, nella rinnovata Università a separare il giovane lucano trapiantato a Napoli dalle forti tradizioni borboniche familiari e a orientarlo verso un patriottismo italiano che diventò la sua fede e la sua guida. Fu questa la scelta di vita del giovane Fortunato in aperto conflitto col padre Pasquale, che riuscì a impedirgli però sia di iscriversi all’Accademia di belle arti diretta da Domenico Morelli, sia di giurare poi fedeltà allo Stato italiano per entrare nei ruoli dei funzionari di prefettura. Non fu per caso che Giustino Fortunato iniziò l’attività di deputato nel Parlamento italiano soltanto l’anno dopo la morte del padre, nel 1880.
Nella corrispondenza napoletana dell’estate 1878 alla «Rassegna settimanale» di Sidney Sonnino e di Leopoldo Franchetti il trentenne giornalista, seguace della Destra storica in compagnia dell’amico Pasquale Turiello, delineava in pochi tratti efficaci, degni del pittore che avrebbe voluto essere, la struttura della capitale nel regno borbonico:
Godendo il monopolio delle importazioni nell’interno e delle esportazioni all’estero per un gran numero di derrate, Napoli era una città assolutamente commerciale, senza industrie, senza manifatture, senza lavoro di officine: le arti e i mestieri non traevano alimento se non da’ soli bisogni immediati della vita quotidiana, e tutta la ricchezza era compendiata nelle rendite de’ proprietarii e ne’ profitti delle industrie di provincia, ne’ lucri del commercio locale e nelle spese varie e improduttive del governo.
Fratello di uno dei rari imprenditori capitalistici attivi nell’ancora largamente arretrata agricoltura meridionale, il giovane intellettuale delineava anche un ritratto impietoso delle «classi dirigenti» napoletane e, tra di esse, delle nuove leve della Sinistra liberale, ascese da poco al potere politico-amministrativo.
Nella grande maggioranza degli onesti è immutata la tendenza ereditaria alla noncuranza di tutto e di tutti; è fiacca, disgregata, indifferente, pettegola, sospettosa; vuol vivere in pace, oziosamente, di rendite; non ha fede né carattere, non ha sdegni né amori; rifugge tuttora dagli obblighi di coltura e di socievolezza, imposti da’ nuovi ordini politici. [...] E non più ambizioni allora ma appetiti, non più programmi ma clientele, non più lotte di principii e di programmi, ma gare di seduzioni e di camorra; la concorrenza succedette all’emulazione, l’intrigo sostituì il merito, la bassa popolarità usurpò il posto della gloria.
Eppure vent’anni dopo, a fine secolo, quando ancora non era stato sconfitto il tentativo reazionario del re Umberto I e le leggi eccezionali del premier, il generale Pelloux, non s’erano ancora infrante contro l’ostruzionismo parlamentare di liberali e democratici, sarà proprio Fortunato a rigettare il concetto di «decadenza» riguardo alla condizione di Napoli e del Mezzogiorno. La sua fede unitaria era più grande del realismo critico, di cui pure era dotato in abbondanza.
Il progresso, grazie all’unità, il progresso morale è stato letteralmente enorme – scriveva a Pasquale Villari nel settembre del 1899 –. E perciò io sono stato e sono tra que’ pochissimi, che ridono in faccia a’ piagnoni, sempre che i piagnoni versan lagrime su la così detta «decadenza». Decadenza ci sarà stata, se mai, nella rimanente Italia: qui no; cento e cento volte no. [...] Ma decadenza, no; ma rimpianti del passato, no; ma rammarico delle fedi perdute, no; sempre no.
In effetti il tema della decadenza di Napoli, sul finire dell’Ottocento, era diffuso rispetto a due grossi problemi: la perdita del ruolo di città-capitale e le miserabili condizioni di vita di un popolo che contava centinaia di migliaia di persone. C’era anche la scarsissima propensione politica dei ceti che avrebbero dovuto essere dirigenti, e questo era un addebito difficile da negare alla precedente dinastia.
Ma, come stiamo vedendo, Napoli mostrava di avere ancora una notevole vitalità. Era sempre la città italiana di maggiore rilievo e respiro europeo. Aveva intellettuali e qualche politico capaci di indicare soluzioni possibili per migliorare il presente e prospettare un futuro più positivo. I progetti c’erano, qualche realizzazione anche. Insomma, non si poteva dire una «città morta», come allora veniva definita la fiamminga bellissima Bruges, che nel Trecento aveva rivaleggiato con i mercanti e i banchieri di Genova e di Firenze.
Napoli era una città antica e allo stesso tempo moderna, quale la stava faticosamente, lentamente, contraddittoriamente realizzando la ristrutturazione urbanistica operata a partire dal Risanamento. Certo il nuovo volto della città, risplendente nei quartieri e nei palazzi e villini recenti del Vomero e di Chiaia allietati dallo stile liberty e floreale, finiva per accrescere la tendenza largamente prevalente alla rendita urbana, in una città in cui l’attività più diffusa era quella del «padrone di case». Una parte almeno della melanconia di Salvatore Di Giacomo risaliva forse alla doppia perdita del padre e dei suoi edifici di proprietà a causa del colera e del Risanamento.
Ma c’era pure una Napoli attiva nei commerci e nelle attività imprenditoriali. Certo non era Milano, né le altre due città del nascente «triangolo industriale». Il capitalismo industriale non avrà un volto napoletano nemmeno dopo la «migliore» legge speciale, quella nittiana del 1904, e le cose andranno sempre peggio dopo la prima guerra mondiale, quando Napoli sarà risucchiata definitivamente dentro il destino subalterno del Sud – fatto di ritardo, divario, emigrazione – rispetto all’intensivo e accelerato sviluppo industriale del Nord Italia.
Tra Ottocento e Novecento, però, Napoli vive davvero la sua Belle Époque, che non è fatta solo di luminosi café chantant e seducenti chanteuses, ma anche di iniziative economiche e progetti politici, di espressioni culturali di elevato livello e delle prime, originali forme della cultura di massa. Una città, quindi, che non sembra affatto ripiegata nella nostalgia di una mitica età aurea, quando un popolo intero cantava, felice di poter vivere all’aperto per il dolce clima e di sfamarsi grazie alla benevola magnanimità di sovrani e signori.

2. Industriarsi con le canzoni: la festa di Piedigrotta

È questo il tempo del più grande successo della canzone napoletana. Per la verità c’è un precedente storico, a prescindere dal mito del popolo che canta per la gioia di vivere nel golfo delle sirene e dalla realtà di canti popolari di intensa bellezza, come l’antica Jesce sole e poi Guarracino, Michelemmà, Cicerenella e tanti altri.
La prima canzone d’autore che ha un successo travolgente nella prima festa musicale di Piedigrotta, nel 1835, è Te voglio bene assaje, scritta da Raffaele Sacco, un ottico la cui ditta è ancora attiva a pochi passi da piazza del Gesù, lungo Spaccanapoli. Per la musica, attribuita a Filippo Campanella, Di Giacomo fece il nome di Donizetti, ma non fornì le prove che aveva promesso. Di sicuro c’è che non è un canto popolare, ma il frutto dell’incontro fra i canti di strada e le romanze che si ascoltavano nelle riunioni «periodiche» dei salotti napoletani nell’Ottocento. L’enorme successo di questa canzone sia tra gli strati popolari che a livello borghese, quindi per via orale e per iscritto, si manifestò nella diffusissima ripetizione del ritornello (Te voglio bene assaje e tu nun pienze a mme!) e nella vendita di 180.000 esemplari di ‘fogli volanti’ con i versi.
La nascita della canzone napoletana d’autore viene fissata più credibilmente al 1880, quando il giornalista Giuseppe Turco e il musicista Luigi Denza presentano a Castellammare di Stabia Funiculì Funiculà, in occasione dell’inaugurazione della funicolare per il Vesuvio, la prima in Italia.
In quegli anni i musicisti napoletani, autori e interpreti di brani melodici che si collegavano alle diverse forme della musica da camera europea, dalle romances francesi ai Lieder di area austro-germanica, viaggiavano molto in Europa. Francesco Paolo Tosti, per esempio, era accolto alla corte della regina imperatrice Vittoria, Luigi Denza insegnava canto alla Royal Academy of Music di Londra. Dunque anche in questo settore, fondamentale per la costruzione dell’immagine di Napoli moderna, è molto attivo lo scambio tra la metropoli mediterranea e le grandi capitali europee: la produzione musicale francese e austro-tedesca (compresi i grandi Schubert e Liszt) influenza dall’alto la canzone napoletana, che a sua volta circola in tutta Europa e presto raggiungerà l’America.
Gli anni Ottanta risultano centrali anche per i legami che si stringono sempre più forti tra la diffusione delle canzoni e la festa di Piedigrotta. La festa verrà sospesa per tre anni dopo il colera, ma la presentazione delle canzoni continuerà: nel 1885 apparve Era de maggio, il capolavoro di Salvatore Di Giacomo e Mario Costa.
Intanto la festa vedrà attenuarsi sempre più il suo primigenio caratte...

Indice dei contenuti

  1. I. Ingegneri a Napoli
  2. II. Industriali e capitali stranieri
  3. III. La questione di Napoli tra fine Ottocento e legge speciale
  4. IV. Commerci e progetti
  5. V. Le culture di Napoli
  6. VI. La modernità capitalistica e la lotta di classe
  7. VII. Napoli verso la guerra
  8. Note
  9. Immagini