Teatro e antiteatro dal dopoguerra a oggi
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Teatro e antiteatro dal dopoguerra a oggi

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Teatro e antiteatro dal dopoguerra a oggi

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La tensione a produrre 'nuovo' che ha caratterizzato le arti di tanta parte del Novecento ha investito anche l'ambito del teatro. Così al teatro d'autore è seguito quello di regia e poi quello d'attore, al teatro di interpretazione il teatro di immagine, il teatro rituale e cerimoniale, sino al parateatro che annulla la distanza fra attori e spettatori e alla performance che tende a escludere il personaggio drammatico. Lungo un appassionante percorso per generi, Cesare Molinari esplora l'intreccio di stimoli e sperimentazioni che contrassegnano l'arte teatrale dal secondo dopoguerra a oggi.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788858122570

Capitolo primo.
La drammaturgia

Negli anni che seguirono la fine del secondo conflitto mondiale ripresero la loro attività di attori, di registi e, in particolare, di autori drammatici uomini che, in un campo o nell’altro della pratica teatrale, si erano già affermati nel periodo fra le due guerre. Sono uomini della generazione venuta alla luce nel primo decennio del secolo. Per alcuni di loro, la guerra aveva comportato solo una brevissima interruzione, di due o tre anni, senza lasciare tracce significative nella loro opera – almeno in apparenza. E questo successe non solo in paesi che non erano stati pesantemente attraversati dalle operazioni militari o colpiti dai bombardamenti, come la Spagna o gli stessi Stati Uniti, ma anche in paesi che, al contrario, avevano subito pesanti occupazioni da parte degli eserciti nemici, come la Francia.

In Francia

Durante l’occupazione nazista, e quindi dal luglio del 1940 all’agosto del 1944, a Parigi l’attività dei teatri era stata sospesa per un breve periodo, ma almeno a partire dal 1942 gli stessi tedeschi avevano imposto una certa “normalizzazione”, che permise o obbligò i teatri a riprendere la programmazione, spingendo anche gli autori, nuovi e vecchi, a proporre nuovi testi da mettere in scena. Così, tanto per fare qualche esempio, La reine morte (La regina morta) di Henry de Montherlant (1896-1972) fu rappresentata nel dicembre del 1942 alla Comédie-Française, dove pure, due anni dopo, nel dicembre 1944, furono messi in scena Les fiancés du Havre (I fidanzati di Le Havre) di Armand Salacrou (1899-1989), mentre Le malentendu (Il malinteso) di Albert Camus (1913-1960) andò in scena al Théâtre des Mathurins il giorno prima della liberazione, cioè il 24 agosto del ’44.
L’episodio che potrebbe segnare simbolicamente il passaggio da un’epoca all’altra va forse individuato nella messa in scena dell’opera postuma di colui che, per certi versi, era stato il dominatore della scena francese fra le due guerre (assieme, se vogliamo, a Paul Claudel, ma su un piano del tutto diverso): Jean Giraudoux (1882-1944), il cui capolavoro, La folle de Chaillot (La pazza di Chaillot), fu rappresentato all’Athénée di Louis Jouvet il 19 dicembre del 1945. Tuttavia, fra gli autori drammatici che si erano affermati nel corso degli anni Venti e Trenta e che continueranno ancora a lungo a essere presenti sulla scena francese e internazionale, mi pare di poter ricordare come esemplari di questo momento di passaggio il già citato Armand Salacrou e l’ancor più noto e presente Jean Anouilh (1910-1987).
Salacrou aveva cominciato la sua carriera di drammaturgo già nel 1925, per proporsi definitivamente all’attenzione del pubblico e della critica dieci anni più tardi con una strana commedia, nella quale un marito tradito e suicida rievoca, rispondendo alla moglie, i trentacinque anni della sua vita: L’inconnue d’Arras (La sconosciuta di Arras). Questo intreccio tra la vita e la morte, il ricordo e la realtà attuale ritornano nel dramma che Salacrou fece rappresentare dalla compagnia Renaud-Barrault nel dicembre del 1946, Les nuits de la colère (Le notti dell’ira), dove però i tragici eventi del più recente passato, la guerra e la lotta partigiana, impongono alle coscienze nuovi e forse irresolubili problemi.
Chartres, aprile ’44. Nel salotto piccolo borghese di Bernard e Pierrette, accuratamente descritto, fanno irruzione i partigiani che uccidono Bernard, accusato di aver tradito il suo amico Jean, e il collaborazionista Pisançon. Ma poi, tranne uno, Lecoq, moriranno in uno scontro con i tedeschi lì fuori. Dunque inizio di violento realismo, in cui muoiono tutti gli uomini. Che risorgono un po’ alla volta per cominciare un dibattito sulle responsabilità, in cui intervengono anche le mogli, l’egoista Pierrette e la generosa Louise, moglie di Jean, e finalmente lo stesso Jean, accecato nelle torture, ma ancora vivo in carcere. Poi il primo flashback: l’attentato al treno, nella cui preparazione i partigiani raccontano ideali e paure, iniziando a qualificare il loro passato: l’ingegnere ferroviario che fa deragliare i treni, il pacifista esperto di esplosivi, che ora li innesca. Più l’apparizione di Hitler. Si torna nel salotto dei morti viventi: Bernard vuole giustificarsi e racconta la sua versione dei fatti. Il secondo atto si apre con un lungo flashback sull’amicizia delle due coppie nel ’38, col riferimento alla corte che Bernard aveva fatto a Louise, che lo aveva rifiutato. Poi di nuovo nel ’44 con il racconto degli eventi che portano all’arresto di Jean, rifugiatosi dopo l’attentato in casa di Bernard: di fatto è stata Pierrette a denunciarlo, ma Bernard è sostanzialmente complice. Il dramma finisce nella prigione di Jean e Locoq, al quale Jean detta l’ultima lettera a Louise, con la proclamazione degli ideali di responsabilità e di libertà, mentre Lecoq non ha nessuno cui scrivere: della ragazza amata in realtà non sa neppure il vero nome.
Dunque una struttura complessa a doppio incastro tra morti che tornano e flashback, che ovviamente rinnega lo sviluppo lineare della commedia classica. I personaggi sono accuratamente definiti, ma l’intreccio non comporta una conclusione fattuale, bensì solo morale. Il tema centrale è dunque la responsabilità, che divide i “buoni” dai non-cattivi (che per sé foro). Come se l’autore sentisse da un lato il bisogno di complicare lo svolgimento, ma dall’altro, e soprattutto, di investire il dramma e i suoi personaggi di una problematica che riguarda il singolo nei suoi rapporti con la storia e la comunità.
Jean Anouilh aveva esordito nel 1931 all’Oeuvre di Lugné-Poe, il teatro che, negli ultimi anni dell’Ottocento, era stato espressione della scuola simbolista. La sua opera drammatica viene dallo stesso autore descritta in tre tipologie: le rielaborazioni di tragedie classiche (Antigone, Medée), le pièces roses e le pièces noires, che si distinguono soprattutto per la conclusione felice o infausta della storia. Ardèle ou la marguerite (Ardelia o la margherita), 1948, è una pièce noire che descrive una specie di grottesca family reunion in cui tutti i personaggi sono invischiati in tragicomiche storie d’amore e di sesso.
Il filo narrativo, sommerso dal bavardage ridicolo di personaggi tutti sostanzialmente uguali, ma pure individualmente definiti, è costituito dal fatto che la sorella più vecchia del Generale, Ardèle, gobba che non si vede mai, ha ora un amore con un altro gobbo. Questa relazione fra “diversi” viene percepita, senza motivo reale, come scandalosa, sicché Ardèle è stata chiusa, e si è rinchiusa, nella sua stanza. Alla fine riesce a ricevere il suo gobbo, con il quale si uccide.
La pochade si rovescia in tragedia, anzi in tragedia universale, poiché l’amore – come argomenta il Conte – nelle vesti di raisonneur, è fatto per soffrire o per far soffrire; ovvero, come folleggia la pazza moglie del Generale, è solo uno sporco strofinarsi inseguendo gli odori del calore. Un tema che, con diverse flessioni, ritornerà nella drammaturgia più recente, da Rainer Werner Fassbinder a Sarah Kane.
Senza scomodare il troppo nobile concetto di tragedia, si potrebbe dire che la commedia rosa si tinge definitivamente di nero. D’altra parte non si può sostenere che la morale delle commedie rosa sia in effetti molto più ottimistica. L’invitation au château (L’invito al castello), 1948, racconta di due gemelli:
Orazio e Federico, che si contendono la ricca ereditiera Diana. Orazio fa venire alla festa una ballerinetta perché faccia innamorare Federico e gli lasci campo libero. Così va in effetti a finire, ma non a causa delle trame di Orazio, ma perché le due coppie si scoprono naturalmente innamorate: così Orazio sposerà Diana e Federico Isabella.
La linea narrativa, relativamente semplice e mutuata dall’antico tema comico dei gemelli, è sommersa in una serie di episodi secondari e un fiume di parole, quasi una fusione tra la commedia di intreccio e il conversation play alla Eliot. All’opposto di quanto aveva fatto Salacrou, in Anouilh la struttura drammatica non viene scomposta e ricomposta in una serie di incastri, ma piuttosto nascosta e quasi negata nel momento stesso in cui la si riafferma come elemento narrativamente portante.
Le rivisitazioni e le rielaborazioni delle tragedie classiche costituiscono una linea ininterrotta della storia della drammaturgia europea, dal Rinascimento fino a oggi. Anche Jean-Paul Sartre (1905-1980) si propone in veste di drammaturgo con una rielaborazione delle Coefore eschilee, Les mouches (Le mosche), messe in scena da Dullin nel 1943.
Sartre fu la personalità dominante della cultura francese – e non solo – per almeno quindici anni, dal 1945 al 1960: il suo pensiero incise profondamente non soltanto sulla riflessione filosofica e sulla produzione letteraria, ma anche sul costume e sugli atteggiamenti di quei giovani che frequentavano le caves parigine e ascoltavano le canzoni di Juliette Gréco. Prima e durante la guerra Sartre era venuto elaborando il sistema della filosofia esistenziale che assunse la sua forma definitiva nell’opus magnum, pubblicato nel 1943, L’Être et le Néant (L’Essere e il Nulla), nel quale contrapponeva l’essere in sé del fenomeno opaco e immobile, definito solo dal fatto che è, all’essere per sé della coscienza, che non è, ma si crea continuamente nel tempo, ponendosi quindi sempre di fronte alla necessità di scegliere, autodeterminandosi. Alla radice della possibilità di scegliere si può porre quel tratto caratteristico del per sé umano, che è l’immaginazione, cui Sartre aveva dedicato un saggio nel 1936, dove l’immaginazione è definita come la coscienza che trascende il mondo cui pure è connessa, negando l’essere nella prospettiva di un nuovo essere. Il ruolo decisivo attribuito all’immaginazione spiega anche l’importanza che Sartre annetteva alla produzione letteraria (tra il 1938 e il 1939 egli aveva pubblicato due romanzi: La nausée, Le mur), e in particolare a quella drammatica e al teatro, dove la scelta autentica della realizzazione di sé e del proprio destino si può agevolmente contrapporre a quella inautentica che consiste proprio nel recitare un ruolo eterodiretto. Ragion per cui la metafora del teatro ritorna spesso nell’opera letteraria e drammatica del filosofo.
Les mains sales (Le mani sporche), 1948 è forse l’opera più rappresentativa della drammaturgia sartriana, e quella che ha lasciato una traccia anche nel parlare comune: “sporcarsi le mani”.
Ambientata in una impossibile Illiria ma facilmente riportabile ad avvenimenti attuali. Nel primo quadro, Hugo ritorna dalla prigione, accolto con diffidenza da Olga che però riesce a farne rimandare l’uccisione. Nel secondo inizia il lungo flashback che contiene il racconto di come, dopo lo scontro nel Comitato Centrale del Partito, la minoranza abbia deciso di affidare a Hugo, giovane intellettuale borghese, il compito di uccidere Hoederer, che vuole accordarsi con Reggente e Pentagono per condurre la guerra. Inviato presso di lui in veste di segretario, Hugo comincia ad apprezzare Hoederer, che a poco a poco lo convince anche della giustezza della sua politica, così come della necessità di sporcarsi le mani e di assumere la responsabilità. Hugo avrebbe rinunciato a ucciderlo, ma lo sorprende fra le braccia della moglie Jessica, e gli spara. Azione inautentica come l’amore dei due sposi: un gioco in realtà. Alla fine del flashback si viene a sapere che Hugo è stato condannato perché ora il Partito ha cambiato linea, accogliendo, su pressione dell’URSS, quella di Hoederer. Sentendosi ingannato da tutti, Hugo si lascia uccidere.
Al centro del dramma c’è un lunghissimo dibattito ideologico-politico fra Hoederer e Hugo, che riassume da un lato i temi esistenziali del giovane gettato nel mondo e che non riesce a fare una scelta positiva, e dall’altro quello della politica cinica, ma umanamente e filosoficamente fondata di Hoederer. Il tono è sempre realistico, nonostante il gioco della coppia e l’irrealtà di quella che pretenderebbe di essere una realtà storica: realismo irreale a sostegno di una tesi filosofica. Ma si tratta anche di una pièce bien faite, a suspence moltiplicata: la cornice costituisce una storia a sé, ma al tempo stesso fa da premessa a quella del flashback e ne trae le ragioni della conclusione. Queste ragioni consistono anche nell’enunciazione della nuova linea del Partito, che ricalca quella di Hoederer. La storia centrale, che si conclude appunto con l’assassinio di Hoederer, ma soprattutto con il modo in cui avviene, è in due passaggi di suspence: ciò che si attende è se Hugo ucciderà, ma il momento culminante, cioè il primo confronto ideologico, comporta una conclusione sospensiva, con la bomba che impedisce a Hugo di agire e che ne innesca la crisi esistenziale, essendo quella bomba lanciata da Olga la prova che i compagni del Partito non si fidavano di lui. Ciò avviene nel contesto di un altro dibattito politico, quello fra Hoederer e i rappresentanti del governo, dove i personaggi agiscono nella loro funzione di esponenti di parti politiche. Ma ciò innesca anche la crisi spirituale di Hugo ed esalta il ruolo di sua moglie Jessica, la cui funzione è di introdurre il duplice confronto Hoederer-Hugo, con conseguente rinvio della conclusione. Nuova sospensione nell’innamoramento di Jessica che fa precipitare l’uccisione di Hoederer. Protagonista agente è il giovane Hugo, su cui pesa il passato borghese anche dopo aver scelto il Partito: ha continuo bisogno di vedersi con gli occhi degli altri, senza sapere che lo sguardo altrui ti oggettiva, rendendoti cosa, essere in sé. Il suo rapporto matrimoniale con Jessica è fasullo: giocano o recitano. Ma nel suo riepilogare, con Olga, anche l’azione viene investita della metafora teatrale: «tutta una commedia, anche gli attori muovono il dito» fingendo di sparare – il suo gesto non è stato una scelta, ma diretto da una causalità esterna. L’unica scelta vera sarà la morte, rifiuto di farsi reintegrare: è lui che apre la porta ai killer. Ma colui attorno al quale ruota l’azione, l’oggetto del desiderio, è Hoederer – l’uomo “vero”, colui che non esita a sporcarsi le mani, che sceglie e decide quello che fa, che opera anche cinicamente, ma ama gli uomini e non i principi. Vero capo, affascina tutti, compresi i suoi brutali guardaspalle, descritti sostanzialmente come subumani, ma che sono poi coloro per i quali lui lotta. Jessica e Olga, due volti del femminile, la “donna di cuore”, frigida fino a quando il cuore la innamora di Hoederer, ochetta capricciosa all’inizio, ma comunque capace di ingannare i be...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. Capitolo primo. La drammaturgia
  3. Capitolo secondo. I padri fondatori
  4. Capitolo terzo. Il repertorio
  5. Capitolo quarto. La linea del romanzo
  6. Capitolo quinto. La sfortuna di Brecht
  7. Capitolo sesto. Teatro e immagine
  8. Capitolo settimo. La figura dell’impegno
  9. Capitolo ottavo. Recitare da solo
  10. Capitolo nono. Oltre o prima del teatro
  11. Capitolo decimo. Elettronica