Storia dell'archeologia classica in Italia
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Storia dell'archeologia classica in Italia

Dal 1764 ai giorni nostri

  1. 248 pagine
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Storia dell'archeologia classica in Italia

Dal 1764 ai giorni nostri

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La storia dell'archeologia classica in Italia ricostruita come una storia culturale. Dalla metà del Settecento fino agli anni '90 del Novecento, le ragioni storiche, politiche, ideologiche e perfino psicologiche che hanno indirizzato e influenzato le idee e le pratiche dell'archeologia, attraverso i numerosi mutamenti politici del paese.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788858122143
Categoria
Archaeology

1.
Dall’antiquaria
all’archeologia

1.1. «Nobile semplicità e quieta grandezza»:
Winckelmann e la nascita della storia dell’arte antica

Nel 1764 Johann Joachim Winckelmann (1717-1768) pubblicò la Geschichte der Kunst des Alterthums (Storia dell’arte dell’antichità), l’opera fondativa degli studi di arte antica. Nato a Stendal, nel Brandeburgo, Winckelmann giunse a Roma imbevuto di cultura classica libresca1. L’arte antica in Germania era merce rara e spesso il primo incontro con essa avveniva tramite riproduzioni in gesso. Poco dopo essere giunto a Roma nel 1755, al seguito del nunzio apostolico alla corte di Sassonia il cardinale Alberico Archinto, Winckelmann cominciò a riflettere sulla sua futura Storia dell’arte. Roma era il centro di una intensa attività antiquaria. Vi risiedeva il pittore Anton Raphael Mengs che fu per Winckelmann un mentore insostituibile. Quest’ultimo dichiarò di essere giunto a Roma «per aprire un po’ gli occhi» a coloro che sarebbero venuti dopo di lui2. Winckelmann non rientra a rigore nell’ambito di questo libro, per ragioni cronologiche e culturali. Tuttavia egli è come la figura del Commendatore nel Don Giovanni di Mozart: muore all’inizio ma incombe su tutta l’opera. La scienza dell’antichità europea del XIX e XX secolo non sarebbe comprensibile senza un continuo riferimento al suo pensiero. I grandi antiquari che l’avevano preceduto, come Bernard de Montfaucon (1655-1741) o il conte di Caylus (1692-1765), avevano messo a disposizione degli eruditi enormi cataloghi di oggetti: non solo manufatti artistici ma anche testimonianze dell’instrumentum domesticum, cioè gli oggetti d’uso quotidiano che l’archeologia moderna, in seguito, recupererà all’ambito dello studio con l’attenzione alla cultura materiale. Eppure si trattava sempre di elenchi di oggetti, illustrati, spiegati, ma non inseriti in una narrazione storica né tantomeno storico-artistica. La Storia dell’arte di Winckelmann – pur strutturalmente in debito nei confronti dei capitoli della Naturalis Historia (34-36) che Plinio il Vecchio dedica alle arti figurative e delle Vite di Giorgio Vasari – associa le opere dell’arte antica a un contesto storico e le inserisce in una narrazione continua che poggia su basi stilistiche. Avendo Winckelmann assunto l’arte greca come modello insuperabile della realizzazione artistica, cercò le cause della sua perfezione, mettendola in relazione con la storia del popolo greco e con l’ideale di libertà politica che esso aveva elaborato, stabilendo un nesso tra stile e storia. Legò inoltre il concetto di stile a quello di sviluppo, affermando che l’arte si evolve secondo uno schema che consiste in nascita, fioritura e decadenza3, conformandosi a un modello biologico elaborato molto probabilmente dalla letteratura artistica di età ellenistica, poi ripreso da Plinio con il concetto dell’akmé (apice) dell’attività di un artista e che ha avuto una continuità di vita fino ad epoca moderna.
Il messaggio principale di Winckelmann fu l’assioma che la «nobile semplicità e quieta grandezza» dell’arte greca derivasse dal più libero sistema sociale che l’umanità si era data: la democrazia. La bellezza dunque si sviluppa grazie alla libertà. Quale messaggio più idoneo poteva mettere a disposizione dei filosofi dell’Illuminismo? Winckelmann non era un semplice antiquario, fu, diremmo oggi, un critico militante, che sferrò una polemica morale, sociale e politica «contro lo stile di corte, contro il costume e lo spirito di corte francesi, contro il despotismo»4. Nel gusto artistico i bersagli della sua polemica furono il barocco e il rococò. Quindi l’esemplarità dell’arte greca – accanto a quella di scrittori come Platone, Senofonte, ecc. – divenne l’ideale su cui far rivivere una perduta età dell’oro estetica. Non si potrebbe comprendere l’influenza di Winckelmann sull’estetica del secolo successivo e la sua supremazia negli studi della scienza dell’antichità, al di là delle numerose critiche ricevute, anche dai suoi contemporanei, se non si ponesse attenzione al successo che il suo modo di concepire l’antichità come modello insuperabile ebbe tra gli intellettuali tedeschi del XIX secolo, tra cui perfino Karl Marx5.
Peccato che né Winckelmann né altri antiquari contemporanei avessero visto un’opera d’arte greca o quasi: il dibattito sugli originali e sulle copie era agli inizi6. Quando alla fine degli anni Settanta il pittore Mengs argomentò che il celebre Apollo di Belvedere, su cui Winckelmann aveva scritto pagine ispirate, era una copia romana, ci furono reazioni scomposte, anche se non si era basato su considerazioni stilistiche ma di cultura materiale7. Winckelmann costruì dunque il proprio giudizio estetico su copie romane, ma questo non impedì alla sua creazione di una Grecia idealizzata di svolgere un impatto potente sull’immaginario di intellettuali tedeschi come Johann G. Herder, Gotthold E. Lessing, Wilhelm von Humboldt e Johann W. von Goethe e naturalmente degli studiosi di antichità dell’inizio del nuovo secolo. Il binomio arte e libertà rispondeva allo spirito della Rivoluzione francese e ai princìpi su cui essa si basava. Perciò il messaggio di Winckelmann ha travalicato i suoi limiti scientifici, fornendo un paradigma per la comprensione dell’arte antica resistente alle critiche: il messaggio non era più scientifico, ma filosofico. Anche la morte nel pieno della vita, avvenuta l’8 giugno 1768 in seguito alle ferite da coltello infertegli da Francesco Arcangeli, in circostanze torbide, contribuì a sottrarre Winckelmann alla storia e a collocarlo su un livello eroico. Le parole dedicategli da Goethe non potrebbero essere più esplicite a questo proposito: «La morte prematura di Winckelmann ha per noi il suo lato positivo. Dal suo sepolcro ci rinvigorisce l’aura della sua forza e stimola in noi l’impulso vitale a continuare con ardore e amore ciò che egli cominciò»8. La Storia dell’arte di Winckelmann fece apparire improvvisamente sorpassata anche la migliore antiquaria, perché dimostrò che l’arte può avere una storia. Facendo però della Grecia un modello assoluto, intoccabile perché considerata il luogo in cui si raggiunse l’apice della bellezza e dello spirito, creò paradossalmente le condizioni per escludere dall’orizzonte degli studi archeologici ciò che bello non era, la produzione figurativa dell’impero romano e gli oggetti, apparentemente senza storia, della cultura materiale che, al contrario, la vecchia antiquaria aveva considerato senza però la capacità di renderli testimoni della storia dell’uomo. La scienza dell’antichità tedesca si formò e strutturò all’inizio del XIX secolo su questa contraddizione e, con essa, anche l’archeologia italiana che – come vedremo – trovò in Germania il proprio modello di riferimento.

1.2. Gli scavi di Ercolano e Pompei

Le città di Pompei ed Ercolano furono distrutte in seguito all’eruzione del Vesuvio il 24 agosto del 79. Pompei fu ricoperta da un deposito di lapilli e cenere di circa sei metri di spessore. A Ercolano il materiale vulcanico, trasportato dall’acqua insieme al fango, formò uno strato tufaceo di quasi venti metri. L’interesse per le due città si accese all’inizio del XVIII secolo grazie a un rinvenimento fortuito: durante l’occupazione austriaca, un ufficiale dell’esercito, il principe di Elbeuf, scoprì alcune statue e iscrizioni nel fondo di un pozzo scavato da un contadino in una sua proprietà a Portici. Le sculture, dopo vari passaggi, furono acquistate da Cristiano Augusto, principe elettore di Sassonia, la cui figlia Amalia sposò il re di Napoli Carlo di Borbone, futuro Carlo III di Spagna. Nel 1738 il sovrano affidò all’ingegnere spagnolo Roque Joaquín de Alcubierre l’incarico di praticare pozzi di sterro e aprire gallerie nello spessore tufaceo laddove furono rinvenute le statue. In seguito si appurò che il pozzo nella proprietà Elbeuf si trovava al centro del teatro di Ercolano e presto gli scavatori trovarono iscrizioni, oggetti in bronzo, sculture marmoree e pitture, di cui all’epoca si avevano rare testimonianze. Circa dieci anni dopo, il sovrano incaricò Alcubierre di avviare scavi su grande scala anche a Pompei. Nel trentennio successivo furono inoltre riportate alla luce alcune ville nei pressi di Stabia9. Per farsi un’idea dell’impatto straordinario che questi scavi ebbero all’epoca, bisogna pensare che si trattava dell’unico cantiere archeologico in Europa. Dal 1760 fu aperto anche quello di Velleia nel ducato di Parma, affidato da Filippo di Borbone al padre teatino Paolo M. Paciaudi, in chiara concorrenza con gli scavi campani10. Rispetto però allo scavo di città spogliate e abbandonate in antico, Pompei ed Ercolano, come pure le ville suburbane dell’area, erano state seppellite in piena attività, e perciò offrivano una testimonianza quasi intatta della vita romana in tutti i suoi aspetti. Carlo concepì il progetto di scavo delle due città con lo scopo di attirare l’ammirazione dell’Europa. Gli scavi furono condotti da Alcubierre con la tecnica delle gallerie, alla ricerca di oggetti, e questo precluse una conoscenza della topografia delle città. Tuttavia queste imprese per la prima volta posero gli antiquari di fronte a problemi concreti, costanti in archeologia: organizzare uno scavo su vasta super...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. Introduzione. ‘Archaiologia’, ‘antiquitates’, archeologia
  3. 1. Dall’antiquaria all’archeologia
  4. 2. Lo studio dell’antichità in Italia fino all’Unità
  5. 3. Un’archeologia per il nuovo Regno d’Italia
  6. 4. Tra pratica e modello: quale archeologia per l’Italia unita?
  7. 5. La formazione di un’identità: l’archeologia in Italia tra Otto e Novecento
  8. 6. L’archeologia tra le due guerre
  9. 7. Il dopoguerra: persistenze e nuove tendenze
  10. 8. Archeologia del mondo classico come sistema aperto
  11. 9. La perdita della centralità: archeologia classica e altre archeologie