1.
Il «popolo ateniese»
Aristofane, Tucidide e Crizia, quest’ultimo in quanto probabile autore del pamphlet Sul sistema politico ateniese, sono le fonti dirette, coeve dei fatti, e pienamente calate nella lotta politica, sul trentennio più drammatico della storia di Atene: gli anni della trentennale guerra contro Sparta, della lacerazione definitiva del tessuto politico della città e del disfacimento inarrestabile dell’impero. Rispetto alle altre due fonti, Aristofane – di cui si sono salvate numerose commedie, dislocate tra il 425 e il 405, con una interessante coda all’inizio del secolo seguente – ha un enorme vantaggio: i documenti che ci ha lasciato sono databili in modo preciso, riflettono momenti e situazioni precise, vi reagiscono e sempre molto faziosamente li illuminano. È perciò quel corpus di pièces teatrali la più importante fonte storica su quel trentennio. Dunque cercare di capire chi fosse Aristofane, perché si sia gettato a capofitto in un’attività così coinvolgente, rischiosa e poco remunerativa come il portare ogni anno commedie sulla scena, significa anche entrare per la porta principale nella storia del grandioso e tragico declino di Atene e della sua ‘democrazia imperiale’.
1.
«Un moralista travestito da Sileno». Al termine di un memorabile studio sulla commedia antica, così Auguste Couat (1846-1898) definisce Aristofane approdando a questa felicissima formula attraverso una marcia di avvicinamento mirante ad evitare schematismi e semplificazioni. Aristofane – osserva Couat di fronte al turbine di oscenità che investe il lettore delle undici commedie superstiti – non fa che acconciarsi ai gusti del pubblico («concession nécessaire aux goûts du public»); non vi è commedia che non si concluda con una «farsa indecente», giacché l’oscenità ne costituisce «l’elemento principale e per così dire la sostanza [l’élément principal et comme la substance]». A tal punto questo elemento è strutturale che «anche gli ammaestramenti politici più seri sono come infettati [infectés] dal virus dell’oscenità». Tale ‘virus’ si manifesta anche soltanto con una concessione al turpiloquio («un mot grossier»), che ha il compito di ricordarci con che tipo di opera abbiamo a che fare, e che «è l’autore stesso che non vuol essere preso sul serio» perché si tratta «essenzialmente di un divertimento [amusement et rien de plus]». Persino a danno dei suoi «eroi» – cioè dei personaggi positivi – egli «non resiste al bisogno di farci ridere [aux dépens de ses héros]».
E nondimeno questo garbuglio di «convenzionali» vincoli inerenti al genere comico e «verità» («convention versus vérité») va sbrogliato. Non possiamo nasconderci che sotto il comodo travestimento da Sileno ci sono degli «obiettivi» (propos). Questo è un punto fermo da non smarrire. Anzi le definizioni tipo «non è che divertimento» rivelano, ad una lettura approfondita, tutta la loro insufficienza. La chiave è proprio in quel «travestimento»: la più efficace propaganda si fa assecondando il più possibile il gusto degli spettatori (nel caso della commedia, doverosamente scurrile).
Couat, uno degli studiosi più in grado di capire Aristofane, in primis per l’intensissima sua attività e diretta esperienza politico-giornalistica (in anni cruciali come quelli che precedettero e seguirono la Comune), sembra – al termine di un saggio in cui la politicità e la collocazione sociale della commedia ‘antica’ e di Aristofane in ispecie si profilano col dovuto rilievo – approdare ad una aporia. Ovviamente tutto il libro, così come la gran parte dei libri su Aristofane, ruota intorno al problema di per sé più importante: la posizione di Aristofane di fronte al regime politico dominante in Atene. Era un nemico della ‘democrazia’ visto che nelle sue commedie è racchiuso «il pamphlet più virulento che sia mai stato scritto contro di essa»? Couat si obietta che però in Aristofane vi sono anche «l’éloge du peuple athénien» e la simpatia per «les petits gens»; e specifica: «artigiani, contadini, piccoli proprietari [cultivateurs], abitanti della città e della campagna». E ancora: «La sua eloquenza, rivolta contro la tirannide del popolo, rivela una ispirazione popolare [est d’une inspiration populaire]!». Con questa formula apparentemente paradossale, Couat attinge il problema centrale, la cui incomprensione condanna a defatiganti e inconcludenti andirivieni mentali: che vuol dire ‘popolo’ ad Atene nel tardo quinto secolo e nel fuoco della lotta politica di cui pamphlettisti, commediografi, politici, sicofanti, filosofi sono instancabili protagonisti.
2.
In un passo molto significativo dei Cavalieri di Aristofane, il «venditore di salsicce» rimprovera Demo, vecchio alquanto rintronato che rappresenta ‘il popolo di Atene’. Lo rimprovera perché «non si affida ai kalokagathoi» (v. 738). È molto importante, nel lessico politico ateniese, quel termine, kalokagathoi; compendia la più distesa formula «i belli e buoni (οἱ καλοὶ καὶ ἀγαθοί)», sintesi di tutti i pregiudizi aristocratici. Il più pretenzioso dei quali è che bellezza e alta qualità morale (ma anche guerresca, coraggio etc.) vanno insieme, sono quasi inestricabili, e, congiunte in ovvia simbiosi, albergano negli esponenti delle classi alte.
Al di là del carattere arbitrario di un tale pregiudizio (che peraltro attraversa i millenni e tuttora vigoreggia quantunque inconfessato), ciò che soprattutto colpisce è che proprio un uomo di bassa estrazione sociale, quale il venditore di salsicce (il ‘salsicciaio’, che – nella trama dei Cavalieri – mette fuori gioco Paflagone-Cleone), rimproveri al ‘popolo di Atene’ di non affidarsi, per la direzione politica, ad esponenti dei ceti alti. Per Aristofane, così come per un ateniese del suo tempo – magari non per gli schematici interpreti moderni della storia ateniese – questo non appariva affatto sorprendente. «Il popolo» non era una compagine socialmente e ideologicamente compatta e omogenea. Solo una parte, numericamente minoritaria, dei ‘nullatenenti’ (le fonti d’epoca li chiamano per lo più «i poveri») sostiene consapevolmente e combattivamente il ‘potere popolare’ (δημοκρατία) e soprattutto ne affida la direzione a capi che abbiano apertamente preso le distanze dai ‘belli e buoni’ quand’anche provengano essi stessi da quel ceto. (E comunque sono anche disposti a riconoscerne la superiorità etico-sociale, per la ben nota ragione che le «idee dominanti di un’epoca sono quelle delle classi dominanti».) Un’altra parte – non piccola – soprattutto agricola del ‘popolo’ non considera quello dei nullatenenti e rispettivi ‘leader di fiducia’ il suo mondo; anzi, ne diffida. E quando quel mondo produce decisioni gravi, come la guerra con Sparta, rumorosamente lo avversa. Questo è lo stato di cose raffigurato con sociologica precisione nella scena iniziale degli Acarnesi di Aristofane: un piccolo proprietario, che in tempo di pace vive della sua terra nel ‘comune’ di Acarne, Diceopoli, costretto dalla guerra a vivere in Atene e perciò da molto presto presente all’assemblea (cui di norma non partecipa e che in tempi ‘normali’ non lo interessa affatto), si prepara a scatenare la sua ostilità e la sua rabbia contro ‘i politici’, che quella guerra hanno voluto e ostinatamente proseguono nell’interesse di altri gruppi sociali, non certo dei contadini come lui.
Sull’altro versante: quei ‘signori’ che hanno ‘tradito’ la classe da cui provengono sono detestati dai loro affini e addirittura indicati come peggiori dei ‘naturalmente malfattori’ appartenenti alle classi basse. È la tesi puntigliosamente argomentata nel pamphlet attribuibile a Crizia, e tramandato tra le opere di Senofonte, Sul sistema politico ateniese. E merita ...