III.
I soldati del Regio Esercito
sul fronte orientale
1. «Italiani, brava gente»? Le truppe italiane e la politica d’occupazione nell’Unione Sovietica meridionale
a) Una guerra pulita? Il semplice fatto che le Divisioni del Regio Esercito al fronte russo facevano parte di un’Armata d’invasione e d’occupazione venne ben presto dimenticato in Italia, così come il fatto che la propaganda del regime fascista si preoccupasse di dipingere i propri soldati quali rappresentanti di una cultura millenaria, caratterizzati da un’innata umanità. Così diceva un opuscolo del 1943 destinato ai soldati che tornavano a casa dal fronte russo:
Ricordi, combattente di Russia, quelle facce spaventate di donne, di vecchi, di bambini, ogni volta che entravamo in un paese conquistato? Si dicevano (poi ce lo hanno raccontato, ti ricordi?) l’un con l’altro: «Sono arrivati i fascisti. Ora è finita per noi. Taglieranno la lingua ai bambini e le mammelle alle donne. Ruberanno, ammazzeranno violenteranno le ragazze». Invece, dopo un giorno, quando ci avevano conosciuti, il terrore spariva, il sorriso tornava sulle loro labbra, e le donne ci dicevano «dobrii... dobrii italiànezi...». Raccontavano che i bolscevichi, prima di scappare, avevano ripetuto quello che da venti anni andavano predicando sulle piazze e nelle scuole di Russia, con i giornali e con la radio, che cioè noi eravamo barbari e sanguinari e che nessuno sarebbe scampato al nostro massacro. Ve le ricordate, invece, le lacrime delle donne ucraine dopo ogni nostra partenza? Ogni donna ucraina, giovane o vecchia, aveva un parente combattente contro di noi. Eppure la vostra umanità, la fraternità con cui dividevate la pagnotta ed il rancio, la tenerezza dimostrata verso i loro bambini, il vostro spirito di civiltà, in una parola, soldati italiani, conquistava di colpo le popolazioni1.
Sulla falsariga di argomentazioni analoghe, dopo il 1945 si cercò di evitare in ogni modo di analizzare criticamente la campagna di Russia e in particolare quel che accadeva al di fuori del campo di battaglia. In questo senso sono emblematiche le memorie di Giovanni Messe, pubblicate nei primi anni del dopoguerra e piene di interpretazioni tendenziose che nessuno osò mettere in discussione. Messe era infatti considerato una delle massime autorità in quel campo, dal momento che aveva militato come generale comandante del Corpo di spedizione, maresciallo d’Italia, capo di stato maggiore generale dopo la caduta di Mussolini e senatore della Repubblica italiana. Ancora oggi non si hanno tanti dubbi sulla veridicità di quanto egli scrisse, appena finita la guerra, sul comportamento dei soldati italiani in Russia:
Come ho già accennato, i rapporti fra i soldati del Csir e la popolazione civile si avviarono spontaneamente a una reciproca comprensione che doveva sboccare in vera e propria cordialità: affinità nel modo di concepire gli affetti, la famiglia, l’amore alla terra, una comune tendenza al sentimentalismo, il senso spiccato della dignità e dell’ospitalità che è proprio della famiglia russa, costituirono un terreno fecondo per le reciproche relazioni. Da un lato i russi apprezzavano il comportamento semplice ed alieno dall’arroganza degli italiani, la loro dolcezza verso i bambini, la loro bonomia; gli italiani, a loro volta, si sentivano attratti verso quelle genti che non si mostravano ostili, si astenevano dalla guerriglia, concedevano volentieri l’ospitalità, rendevano quei piccoli servizi che erano richiesti2.
«Io credo», continuava Messe, «che veramente il Csir anche in questo campo, non certamente secondario, abbia servito con onore il Paese distinguendosi [...] per il superiore senso di civiltà e, soprattutto, per quella umana comprensione che la violenza della guerra non deve mai distruggere nei popoli effettivamente progrediti».
Ne derivò l’immagine dell’Italia come di un’isola di umanità all’interno di un conflitto che era soprattutto una guerra ideologica e di annientamento. E sul fatto che si trattasse di una guerra di sterminio ben presto non vi furono dubbi anche per eminenti osservatori, come l’addetto militare italiano a Berlino Efisio Marras3. Ma le sue numerose relazioni sull’argomento non impedirono a Mussolini e al Comando Supremo di continuare l’avventura in Russia e anche di rafforzare le truppe su questo scacchiere in modo massiccio. Nemmeno il memorandum del maggio 1942 sulla politica d’occupazione tedesca in Ucraina4, firmato da Messe, servì a qualcosa. Nel documento il generale giudicava duramente la politica d’occupazione tedesca e criticava in particolar modo la crudeltà dimostrata verso i civili, i partigiani e i prigionieri di guerra, il reclutamento forzato della manodopera, lo sfrenato saccheggio di tutte le risorse e la mancanza di un programma politico costruttivo e di una adeguata propaganda. Ma queste critiche erano essenzialmente di natura politica e pragmatica, non certo morale, da considerare in ogni caso nel contesto dei complessi rapporti tra tedeschi e italiani. Messe riteneva che il comportamento tedesco fosse controproducente, che facesse il gioco del movimento di resistenza e preparasse il terreno alle agitazioni nemiche. Il memorandum criticava inoltre l’ideologia razzista alla base della politica d’occupazione tedesca; la preoccupazione maggiore era che dopo la fine della guerra gli alleati dell’Asse, che si consideravano evidentemente un «popolo superiore», potessero applicare la dottrina della superiorità razziale anche ai rapporti tra la Germania e l’Italia. Non a caso il testo si conclude così:
I presupposti razziali su cui poggia tutta la politica tedesca nell’oriente europeo, ha portato alla netta separazione tra dominatori e dominati e all’affermazione della indiscussa superiorità germanica sugli altri popoli. È sembrato in qualche momento che analoghi concetti di superiorità razziale volessero ispirare gli atteggiamenti dei reparti germanici verso quelli alleati, schierati sul fronte russo. [...] Ad eccezione dunque dei reparti italiani e – sotto certi aspetti – di quelli ungheresi che si impongono per la loro tradizione guerriera e il loro valore militare, gli altri alleati sul fronte orientale sono considerati dai tedeschi alla stregua di popoli vassalli, che dovranno gravitare domani nell’orbita germanica. Se la volontà di potenza, la perfetta organizzazione militare, lo spirito di disciplina, sono le basi dell’espansione imperiale di un popolo, il senso di giustizia, di equilibrio, di comprensione delle esigenze e dell’animo delle popolazioni, costituiscono le basi per il suo consolidamento. Finora, sul fronte orientale, il popolo germanico ha dimostrato di possedere al massimo i primi requisiti, ma di non possedere a sufficienza i secondi.
Naturalmente gli osservatori italiani all’interno del Comando del Csir non erano gli unici a ritenere che una politica d’occupazione fondata esclusivamente sulla violenza fosse destinata al fallimento. Come ha sottolineato per la Wehrmacht Bernd Wegner riferendosi al fenomeno della guerra partigiana, questa opinione cominciò «in teoria a diffondersi nel 1942 nella maggior parte dei Comandi e degli uffici che si occupavano dei problemi locali»5. Ma per il momento non c’era da aspettarsi un cambiamento di linea: il vertice politico-militare del Terzo Reich aveva scelto consapevolmente di gestire i territori occupati con la mano pesante, lasciandosi sempre aperta la possibilità di calcarla ancora di più, e i comandanti al fronte o nelle retrovie continuavano a restare invischiati in necessità che sembravano oggettive, ma spesso erano soltanto conseguenze del loro modo di agire. Le osservazioni critiche di Messe – che del resto più tardi, prigioniero degli inglesi, si troverà a difendere il sistema di occupazione tedesco in Russia da presunte esagerazioni propagandistiche, mostrando in ciò un’indifferenza tanto sorprendente quanto ambigua verso gli ebrei6 – non erano ovviamente destinate ai tedeschi ma al Comando italiano, che tuttavia non sembrò mostrare grande interesse per questo tipo di informazioni7. Lo stesso Comando del Csir non adottò alcuna misura concreta, vincolato dal fatto che in alcuni settori esistevano forti interessi comuni con i tedeschi. Si decise quindi di lasciare le cose come stavano, senza intervenire, optando per la linea di minor resistenza; gli italiani cercavano di arrangiarsi per non creare contrasti con i loro alleati e collaboravano, quando lo ritenevano necessario e opportuno. Tuttavia, e nonostante tutte le critiche interne, in questo modo il Csir finì per inserirsi pienamente nell’apparato d’occupazione e di dominio tedesco.
b) Struttura e organizzazione Nell’estate del 1941 il Corpo italiano era stato concepito come una forza da combatt...