IX. Il sogno americano
Si racconta che, nel 1787, durante una seduta del Congresso che doveva approvare il testo della costituzione americana Benjamin Franklin, rispondendo alle domande di un deputato che insisteva nel chiedere perché la felicità fosse stata nominata nella dichiarazione di indipendenza e non nella costituzione, rispose: «la costituzione americana dà al popolo solo il diritto di cercare la felicità. Dopo di che dovete costruirvela da voi stessi».
In questo episodio, realmente accaduto o forse frutto di fantasia, è condensato gran parte di quello che viene chiamato, con un’espressione nata nel Novecento, il «sogno americano»: la speranza, cioè, di migliorare la propria condizione di vita attraverso il lavoro, il coraggio e la determinazione. La felicità non è precostituita e consegnata all’uomo come un qualcosa di già definito, ma va cercata, nel senso che ciascuno deve avere la possibilità di raggiungerla attraverso i propri meriti e le proprie capacità, all’interno di condizioni che solo un governo giusto può e deve assicurare. Tale principio, divenuto familiare con la dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America (1776), spiega l’aspettativa di poter migliorare la propria condizione attraverso il lavoro, il coraggio e la determinazione, che accompagna gran parte della letteratura americana dell’Ottocento, da Horatio Alger a Mark Twain, e che rimane affidato alla memoria recente con il celebre discorso di Martin Luther King, tenuto il 28 agosto 1963 davanti al Lincoln Memorial di Washington1.
Il mito del buon selvaggio
Il sogno americano ha però un’origine ben più antica e si forma in modo assai graduale, attraverso la sovrapposizione e la sedimentazione di una lunga serie di idee, miti e anche clamorosi fraintendimenti, che accompagnano tutto il XVII e il XVIII secolo.
Fino alla metà del Settecento il sogno americano è quello della società europea, che conosce assai poco il Nuovo Mondo, se non per i racconti di viaggio e di esplorazione, e rimane profondamente affascinata dal mito del buon selvaggio, cioè dall’idea che al di là dell’Oceano esista un mondo puro, incontaminato, immune dalle distorsioni prodotte sulla natura dalla religione e dal processo di civilizzazione. Nelle Americhe, scrivono molti intellettuali dell’epoca, vive il prototipo dell’uomo nello stato naturale, che è selvaggio perché non conosce le forme complicate dell’organizzazione sociale occidentale, ma che proprio per questo è felice, in quanto deve provvedere unicamente ai bisogni propri e della sua famiglia. Il buon selvaggio è rimasto nella condizione di innocenza che gli europei hanno perduto, vive una dimensione primitiva della religione e non conosce le brutalità che nascono dal dispotismo e dalle gerarchie di tipo feudale. È la rappresentazione di un mondo ideale, che gli abitanti del Vecchio Continente in realtà non conoscono o conoscono pochissimo, ma che serve all’uomo europeo per interrogarsi su se stesso, per tentare di capire se il progresso e la civilizzazione rappresentano effettivamente un miglioramento per l’umanità, o piuttosto una degenerazione rispetto a una condizione perduta di felicità2.
Il mito del buon selvaggio è quindi una forma di utopia, che come tutti i racconti utopici circola attraverso la letteratura del tempo, si tratti dei Dialoghi con un selvaggio del barone di Lahontan (1703-1705), di romanzi epistolari o di trattati politici come il Contratto sociale di Rousseau. L’illusione del Nuovo Mondo aiuta a non accettare le situazioni e le difficoltà che esistono in Europa, con le loro ingiustizie e le loro disuguaglianze, e permette di proclamare che esistono realmente popoli felici, che non hanno dimenticato la naturalità dell’uomo e che potrebbero servire da esempio per superare il disagio della civiltà3.
Quando poi il territorio americano comincia ad essere meglio conosciuto, perché le colonie si espandono e le informazioni circolano più rapidamente, si scopre che il mito della società felice è messo alla prova dalla durezza della quotidianità, dalle necessità della sopravvivenza, da una natura spesso ostile. Il mito del buon selvaggio migra quindi altrove, al nord e al sud delle Americhe e può assumere sfumature molto diverse. Lahontan racconta il carattere delle popolazioni degli algonchini, degli uroni e degli irochesi che popolano la zona dell’attuale Canada, dove ha vissuto come ufficiale francese per quasi dieci anni. La parte centrale dei suoi dialoghi con il selvaggio Adario è dedicata proprio al tema della felicità e al confronto tra lo stile di vita degli uroni, ancora immune da interessi, corruzione e individualismo, e quello dei francesi, caratterizzato da progresso e civilizzazione. Lahontan non sogna di diventare un urone, né Adario si fa convincere del fatto che il mondo europeo sia migliore; la riflessione e la scelta vengono lasciate al lettore4.
Morelly invece – un autore misterioso e assai citato, del quale non si ha praticamente alcuna notizia – scrive il racconto di un Naufragio delle isole galleggianti o la Basiliade (1753), narrando l’avventura di alcuni viaggiatori che sbarcano su una terra sconosciuta e felice dove non esiste la proprietà privata, dove le abitazioni sono in comune fra tutti e le strade dividono geometricamente il territorio.
L’ultima scoperta del secondo Settecento – ormai lontana dal continente americano – sarà l’arcipelago di Tahiti, descritto dai viaggi di Louis-Antoine de Bougainville e di James Cook e reso celebre dalla vicenda dell’ammutinamento del Bounty, formato da isole da sogno dove esiste una felicità primitiva, sensuale e sessuale, dove trionfano l’amore e l’uguaglianza, l’assenza di convenzioni e di vincoli sociali.
Il mito del buon selvaggio accompagna la nascita del sogno americano, trasformandosi assieme ad esso, e svolge una funzione fondamentale: insegna che lo sviluppo delle istituzioni sociali e politiche, così come sono conosciute in Europa, non ha nulla di realmente necessario ed è sempre una costruzione artificiale degli individui. Se così è, allora questi possono inventare qualcosa di politicamente nuovo, anche senza timore di regredire ad uno stato primitivo; qualcosa che consenta di realizzare meglio le aspirazioni alla felicità e di arrestare la corsa dell’uomo, prima che la civilizzazione degeneri nell’oppressione e nel dispotismo.
L’America e il mondo antico
Nel corso del Settecento si diffonde però anche un altro tipo di sogno americano, che consiste nel rovesciamento dell’immagine del buon selvaggio e nell’idea che, invece, proprio nel continente americano possano essere rintracciate forme di civiltà da confrontare con quella europea. Lo suggeriscono molte relazioni di viaggio nell’America centrale, la scoperta e la conoscenza di popoli come i Maya, gli Inca, gli Aztechi, di cui rimangono vestigia culturali e anche sopravvivenze urbane. Un contributo importante viene dai racconti dei missionari e persino di alcuni discendenti delle popolazioni autoctone, come Garcilaso de la Vega, detto «el Inca», che sin dal Seicento descrivono la grandezza delle civiltà perdute e riferiscono dei massacri condotti dai conquistatori spagnoli, spiegando come la corrotta civiltà occidentale, offuscata dal desiderio dell’oro e delle ricchezze, abbia sopraffatto quei popoli ingenui e felici.
Anche questo tema si diffonde rapidamente attraverso un’ampia letteratura che lo declina in modi diversi, e che passa dal Resoconto di un viaggio nell’interno dell’America meridionale (1744) di Charles Marie de La Condamine al mito del «cristianesimo felice» nelle missioni gesuitiche del Paraguay, narrato da Muratori, dalle Ricerche filosofiche sugli americani (1768-1770) di Cornelis de Pauw sino alla Storia dell’America (1777) di William Robertson5.
L’interesse per la grandezza e la decadenza delle antiche civiltà americane si intreccia e si sfuma anche dentro tematiche assai più complesse, che interpretano queste vicende nel quadro di una filosofia della storia di ispirazione massonica. L’attenzione per questi popoli antichi corrisponde a un interesse per le loro mitologie, per i loro linguaggi simbolici, per un’idea della storia segnata dalle catastrofi in cui permane il mistero circa le origini del sapere umano. L’opera che forse meglio sintetizza tutte queste posizioni, fino a rappresentare una sorta di vera e propria rassegna enciclopedica6, è intitolata Lettere americane. Si tratta di un racconto scritto tra il 1777 e il 1778 in forma epistolare da Gianrinaldo Carli. Subito tradotto in spagnolo, tedesco e francese, già si inquadra, come scrive l’autore stesso nella seconda edizione, in quella «politica rivoluzione» che anima le colonie americane contro la Gran Bretagna e che viene lodata anche da Benjamin Franklin. Carli riesce a mescolare sapientemente una serie di temi che circolano nell’Europa settecentesca: la storia delle civiltà americane vista come modello di progresso e di riscatto dal feudalesimo; l’uso dell’antico come strumento per riscoprire i caratteri di una sapienza perduta; l’adesione all’idea di un destino segnato dal tema della rigenerazione dopo le catastrofi e assai vicina ai temi trattati, nella stessa epoca, all’interno delle logge massoniche7.
Carli ha un progetto preciso, che consiste nella confutazione delle idee di Rousseau, di quegli stessi scritti che stanno diffondendo in tutt’Europa l’idea di un contratto sociale generatore della sovranità popolare, ma fonte di instabilità e disordine e quindi pericoloso per l’esistenza delle monarchie illuminate. Proprio per combattere il pensiero di Rousseau, che giudica erroneo e velenoso, Carli punta la sua attenzione sul mito del buon selvaggio, spiegando che l’uomo nello stato di natura non è affatto mite e benevolo, ma infelice e crudele. Si è confusa, sostiene, la libertà naturale con quello che è invece un istinto animale. Bisogna quindi rivalutare e contrapporre a quest’immagine un’altra esperienza vissuta nel Nuovo Mondo, che è quella della civiltà, in particolare quella peruviana del popolo degli Incas. Si tratta di una monarchia su base teocratica che però, secondo Carli (che segue, su questi, temi di altri autori), si ...