Danni collaterali
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Danni collaterali

Diseguaglianze sociali nell'età globale

Zygmunt Bauman, Marzia Porta

  1. 224 pagine
  2. Italian
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Danni collaterali

Diseguaglianze sociali nell'età globale

Zygmunt Bauman, Marzia Porta

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Il termine ‘danni collaterali' indica le conseguenze indesiderate delle operazioni belliche. Non sono però prerogativa esclusiva della guerra: i danni collaterali rappresentano uno degli aspetti più diretti e sconcertanti dell'ineguaglianza sociale che caratterizza la nostra epoca.
Perché ad essere intrinsecamente votati ai danni collaterali sono i poveri, per sempre segnati dal duplice marchio dell'irrilevanza e dell'indegnità. Causare danni collaterali è più facile nei quartieri loschi e tra le strade più malfamate delle città che nelle tranquille zone residenziali abitate da uomini potenti e altolocati. Tra l'occupare il gradino più basso della scala della disuguaglianza e il ritrovarsi ‘vittima collaterale' di un'azione umana o di un disastro naturale esiste lo stesso rapporto che intercorre tra i poli opposti delle calamite, che tendono a gravitare l'uno verso l'altro.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858117064

1. Dall’«agorà» al mercato

La democrazia è la forma di vita propria dell’agorà: quello spazio intermedio che collega/separa gli altri due settori della polis: l’ekklesìa e l’oikos.
Nella terminologia aristotelica l’oikos rappresentava il nucleo familiare, il luogo all’interno del quale gli interessi privati prendevano forma ed erano perseguiti; l’ekklesìa simboleggiava invece il “pubblico”, il consiglio dei cittadini, composto da magistrati eletti, nominati o estratti a sorte, a cui spettava il compito di curare gli affari della comunità riguardanti tutti i cittadini della polis – come le questioni di pace e di guerra, la difesa del dominio e le norme che regolano la convivenza tra cittadini all’interno delle città-Stato. Il concetto di “ecclesia” deriva dal termine kalèin, che significa chiamare, convocare, radunare, e presumeva sin dall’inizio la presenza dell’agorà, il luogo dove incontrarsi e discutere, il punto d’incontro tra popolo e consiglio: la sede della democrazia.
All’interno della città-Stato, l’agorà era lo spazio fisico in cui la bulè – il consiglio – convocava una o più volte al mese tutti i cittadini (i capifamiglia) per deliberare su temi di interesse comune o per eleggere o estrarre a sorte i propri membri. Per ovvi motivi, una volta che l’ambito della polis o il corpo politico si estesero ben oltre i confini della città, tale procedura divenne insostenibile, in quanto il significato di agorà non poteva più coincidere, letteralmente, con quello di pubblica piazza nella quale tutti i cittadini dello Stato erano tenuti a convenire per prendere parte al processo decisionale. Ciò non significa, però, che l’intento alla base della costituzione dell’ agorà e la funzione da essa svolta nel perseguirlo avessero perso significato o dovessero essere abbandonati per sempre. Si può raccontare la storia della democrazia come il succedersi dei tentativi di tenere in vita sia l’intento che i processi volti a soddisfarlo dopo la scomparsa del suo substrato materiale originario.
O, in alternativa, si potrebbe dire che a mettere in moto, ispirare e tenere in vita la storia della democrazia fu il ricordo dell’agorà. Si potrebbe – e si dovrebbe – dire inoltre che la conservazione e la reviviscenza di tale ricordo fossero destinati a seguire traiettorie diverse e ad assumere svariate forme; non esiste un unico modo di svolgere l’opera di mediazione tra oikos ed ekklesìa, né esiste un modello che sia privo di imperfezioni e intoppi. Oggi, a più di due millenni di distanza, occorre pensare in termini di democrazie multiple.
Il proposito dell’agorà (talvolta dichiarato, ma per lo più implicito) era e rimane il perpetuo coordinamento di interessi “privati” (legati all’oikos) e “pubblici” (gestiti dall’ekklesìa). La funzione dell’agorà era e continua ad essere invece quella di fornire la condizione essenziale e necessaria a tale coordinamento: ovvero, la traduzione del linguaggio degli interessi individuali/familiari nel linguaggio degli interessi pubblici, e viceversa. Ciò che nell’agorà essenzialmente ci si aspettava o si auspicava di conseguire era riconfigurare questioni e desideri privati sotto forma di argomenti pubblici e, viceversa, riconfigurare questioni di interesse pubblico sotto forma di diritti e doveri individuali. Il livello di democrazia di un regime politico potrebbe quindi essere misurato in base al successo o al fallimento, alla scorrevolezza o alla grossolanità di quella traduzione: vale a dire, in base alla misura in cui il suo obiettivo precipuo è stato raggiunto, anziché, come spesso accade, in base alla tenace osservanza di questa o quella procedura, erroneamente considerata condizione necessaria e al tempo stesso sufficiente della democrazia. Di ogni democrazia, della democrazia in quanto tale.
Il modello di “democrazia diretta” proposto dalla città-Stato, in cui la fedeltà e la scorrevolezza della traduzione potevano essere misurate sul momento basandosi semplicemente sul numero di cittadini che prendevano parte “in carne e voce” al processo decisionale, era chiaramente inapplicabile al moderno, resuscitato concetto di democrazia (e in particolare alla “grande società”: quell’entità immaginata, astratta, lontana dall’esperienza personale e dalla sfera di influenza del cittadino); la moderna teoria politica si adoperò quindi per individuare o inventare dei parametri alternativi in base ai quali valutare il livello di democrazia di un dato regime politico. Criteri dei quali discutere, e capaci di riflettere e indicare se lo scopo dell’agorà era stato adeguatamente raggiunto e la sua funzione svolta a dovere. I più popolari tra questi criteri alternativi erano forse quelli di tipo quantitativo, basati sulla percentuale di cittadini che prendevano parte alle elezioni (che nella democrazia “rappresentativa” si erano sostitui­te alla partecipazione “in carne e voce” dei cittadini al processo legislativo). L’efficacia di questa partecipazione indiretta tendeva tuttavia a rimanere controversa, in particolare dopo che il voto popolare aveva iniziato a trasformarsi nell’unico, accettabile metro della legittimità dei governanti, mentre regimi apertamente autoritari, dittatoriali, totalitari e tirannici che non ammettevano né il pubblico dissenso né un aperto dialogo potevano facilmente vantare percentuali di affluenza alle urne ben superiori (e quindi, stando ai criteri formali, un maggiore sostegno popolare verso le politiche dei loro governanti) a quelle rilevate nei governi che al contrario rispettavano e tutelavano scrupolosamente la libertà di opinione e di espressione – percentuali che questi ultimi potevano solo sognare di raggiungere. Non sorprende dunque che oggi, quando si tratta di esplicitare i tratti distintivi della democrazia, l’enfasi tenda a spostarsi dai dati sulla partecipazione e l’assenteismo elettorali a questi criteri di libertà di opinione e di espressione. A partire dai concetti di «defezione» e di «protesta», che Albert O. Hirschman considera le due principali strategie a cui i consumatori possono (e tendono a) ricorrere al fine di esercitare una vera e propria influenza sulle politiche di marketing3, è stato spesso suggerito che il diritto dei cittadini a dare apertamente voce al proprio dissenso, la disponibilità di strumenti che consentono loro di farlo e di raggiungere il pubblico a cui intendono rivolgersi, e il diritto a prendere le distanze dal governo sovrano di un regime detestato o non condiviso sono le condizioni imprescindibili affinché un assetto politico veda riconosciute le proprie credenziali democratiche.
Nel sottotitolo di questo lavoro così autorevole, Hirschman pone nella stessa categoria i rapporti venditori-compratori e quelli Stato-cittadini, in quanto sottoposti ai medesimi criteri di misurazione della performance. Una decisione legittimata oggi come ieri dal presupposto che le libertà politiche e le libertà di mercato sono strettamente collegate tra loro, si alimentano e si rafforzano a vicenda – oltre a necessitare le une della presenza delle altre; e che la libertà dei mercati, la quale è alla base della crescita economica e la promuove, è, in definitiva, la condizione necessaria, nonché l’humus, della democrazia politica – e la politica democratica è l’unico contesto entro il quale è realmente possibile perseguire e raggiungere il successo economico. Tale presupposto, tuttavia, è quanto meno controverso. Pinochet in Cile, Syngman Rhee nella Corea del Sud, Lee Kuan Yew a Singapore, Chiang-Kai-shek a Taiwan o gli attuali governanti della Cina erano o sono in tutto e per tutto dittatori (Aristotele li avrebbe definiti “tiranni”), a prescindere dai titoli che di volta in volta adottavano o adottano per definire la propria carica. E tuttavia detenevano o detengono il potere su mercati di considerevole estensione e in rapida crescita. Se non fosse per una protratta “dittatura dello Stato”, i succitati Paesi non sarebbero oggi l’epitome del “miracolo economico”. E, potremmo aggiungere, non è una semplice coincidenza che lo siano diventati.
Ricordiamoci che la fase iniziale dell’insorgere di un regime capitalista, quella della cosiddetta “accumulazione originaria” del capitale, è invariabilmente caratterizzata da sovvertimenti sociali eccezionali, accolti da profondo risentimento, dall’espropriazione dei mezzi di sostentamento e da una polarizzazione delle condizioni di vita; fenomeni che non possono non sconvolgere coloro che li subiscono e produrre tensioni sociali dagli effetti potenzialmente esplosivi – che commercianti e imprenditori alle prime armi devono reprimere con il sostegno di un’energica, spietata e coercitiva dittatura statale. Mi si permetta di aggiungere, inoltre, che i “miracoli economici” del Giappone e della Germania del dopoguerra possono essere in grande misura spiegati dalla presenza in quei Paesi di forze di occupazione straniere, che si fecero carico di espletare le funzioni coercitive/oppressive del potere statale che sarebbero spettate alle istituzioni politiche locali, sottraendosi al tempo stesso a qualsiasi controllo da parte delle istituzioni democratiche dei Paesi occupati.
Uno dei punti notoriamente più dolenti dei regimi democratici è dato dalla contraddizione tra la formale universalità dei diritti democratici (riconosciuti in egual misura a tutti i cittadini) e la possibilità men che universale di riuscire a esercitarli effettivamente; in altre parole, la discrepanza tra la posizione giuridica di un “cittadino de jure” e le effettive opportunità godute da un cittadino de facto. Uno scarto che ci si aspetta venga colmato dagli individui stessi tramite il dispiego delle proprie capacità e risorse – di cui però potrebbero non disporre, e che in un enorme numero di casi, infatti, non possiedono.
Lord Beveridge – a cui dobbiamo il modello dello “Stato sociale” inglese del dopoguerra, successivamente preso a modello da diversi Paesi europei – era un liberal, e non un socialista. Egli credeva infatti che la proposta di un’assicurazione contro tutti i rischi, universale e approvata da tutti, fosse l’inevitabile conseguenza, nonché l’indispensabile complemento, del concetto liberal di libertà individuale, e condizione necessaria della democrazia liberale. La guerra che Franklin Delano Roosevelt dichiarò “alla paura” si basava su quello stesso presupposto, così come deve essere stato per il pionieristico studio di Seebohm Rowntree sulla diffusione e le cause della povertà e del degrado umani. Dopotutto, la libertà di scelta comporta innumerevoli e incalcolabili rischi di fallimento, che molti riterrebbero insostenibili, superiori alla loro personale capacità di farvi fronte. Per la maggior parte degli individui, l’idea liberale di libertà di scelta è destinata a rimanere un miraggio elusivo e un ozioso vagheggiamento a meno che la paura della sconfitta venga mitigata da una polizza assicurativa affidabile, emessa a nome dell’intera comunità e su cui sia possibile contare in caso di sconfitta personale o di inaspettato tiro del destino.
Se i diritti democratici e le libertà che li accompagnano sono garantiti nella teoria, ma restano inaccessibili nella realtà, al sentimento di scoraggiamento si aggiunge immancabilmente l’umiliazione dell’impotenza; dopotutto, la capacità di far fronte alle sfide che la vita ci presenta, giorno dopo giorno, non è che la palestra all’interno della quale l’autostima degli individui si rinforza o svanisce. Da uno Stato politico che non è, e rifiuta di essere, uno Stato sociale non ci si può che aspettare prospettive di salvezza limitate o nulle di fronte all’indolenza o all’impotenza individuali. In assenza di diritti sociali per tutti, un numero cospicuo e con ogni probabilità crescente di persone si accorgerà che i loro diritti politici hanno scarsa utilità e non meritano la loro attenzione. Se i diritti politici sono necessari per l’assegnazione dei diritti sociali, i diritti sociali sono indispensabili per rendere i diritti politici “effettivi”, e mantenerli in vigore. I due tipi di diritti hanno bisogno l’uno dell’altro per sopravvivere: la loro sopravvivenza non può che essere il risultato dei loro sforzi congiunti.
Lo Stato sociale è l’incarnazione estrema e moderna dell’idea di comunità: ovvero la reincarnazione istituzionale di quell’idea nella sua versione moderna di “totalità immaginata” – intreccio di dipendenza, dedizione, lealtà, solidarietà e fiducia reciproche. I diritti sociali sono, per così dire, la manifestazione tangibile ed “empirica” di quella totalità collettiva immaginata (ovvero, della moderna forma di ekklesìa, la cornice entro la quale le istituzioni democratiche si iscrivono), che collega la nozione astratta alle realtà quotidiane, ancorando l’immaginazione al terreno fertile dell’esperienza quotidiana. Questi diritti certificano la veracità e il realismo di una fiducia reciproca, da persona a persona, e della fiducia in una rete istituzionale condivisa che sostiene e rafforza la solidarietà collettiva.
Una sessantina di anni fa T.H. Marshall fece confluire il diffuso stato d’animo di quegli anni in quella che riteneva fosse, e fosse destinata a rimanere, una legge universale del progresso: dai diritti di proprietà ai diritti politici, e da questi ai diritti sociali4. Dal suo punto di vista la libertà politica era una conseguenza inevitabile, benché alquanto posticipata, della libertà economica, sebbene destinata necessariamente a propria volta a dar vita ai diritti sociali – il che rende quindi l’esercizio di entrambe le libertà attuabile e plausibile per tutti. Secondo Marshall, con ogni successivo allargamento dei diritti politici, l’agorà sarebbe divenuta più inclusiva e avrebbe dato voce a un numero crescente di categorie di persone rimaste sino a quel momento inascoltate, e ingiustizie e discriminazioni sarebbero state progressivamente ridotte ed eliminate. Circa un quarto di secolo più tardi, John Kenneth Galbraith individuò un’altra costante, destinata questa volta a modificare drasticamente, se non addirittura a confutare in modo chiaro, la prognosi avanzata da Marshall: mentre l’universalizzazione dei diritti sociali inizia a produrre risultati, i detentori dei diritti politici tendono, in misura sempre maggiore, a servirsi del proprio diritto al voto per sostenere iniziative individuali – con tutte le conseguenze che questo comporta: l’aumento, anziché il calo o l’eliminazione, della disuguaglianza nei redditi, negli standard e nelle prospettive di vita. Galbraith attribuiva tale propensione al radicale cambiamento dell’umore e della filosofia di vita dell’emergente “maggioranza appagata”5. Sentendosi ormai salda in sella e a proprio agio in un mondo di grandi rischi ma anche di ricche opportunità, questa emergente maggioranza non scorgeva più alcuna necessità dello “Stato sociale”: un assetto che sempre più spesso equiparava a una gabbia anziché a una rete di sicurezza, un limite anziché un’opportunità – un’elargizione superflua, di cui con ogni probabilità loro, gli “appagati”, in grado di fare affidamento sulle proprie risorse e liberi di girare il mondo, non avrebbero mai avuto bisogno e di cui difficilmente si sarebbero avvalsi. Dal loro punto di vista, i poveri, legati e ancorati a terra come sono, non rappresentavano più “un esercito di riservisti del lavoro”, e il denaro speso per tenerli in buona salute era quindi sprecato. Il diffuso sostegno, al di là della destra e della sinistra, allo Stato sociale, che T.H. Marshall considerava la destinazione ultima della “logica storica dei diritti umani”, iniziò a contrarsi, a sgretolarsi e a dissolversi con un ritmo sempre più accelerato.
È improbabile, infatti, che lo Stato assistenziale (sociale) sarebbe mai potuto diventare una realtà se i proprietari delle fabbriche non avessero ritenuto a un certo punto che prendersi cura di “un esercito di riservisti del lavoro” (ovvero: mantenere “i riservisti” in buona salute nel caso fossero stati richiamati al servizio attivo) rappresentasse un investimento vantaggioso. Così come in passato l’introduzione dello Stato sociale era stata considerata una questione “al di là della destra e della sinistra”, oggi sono la riduzione e il graduale smembramento dei principi di quello Stato sociale a essere considerati una questione “al di là della destra e della sinistra”. Se oggi lo Stato sociale è insufficientemente finanziato, è compromesso o viene addirittura smantellato, è perché le fonti del profitto capitalista si sono spostate, o sono state spostate, dallo sfruttamento del lavoro di fabbrica allo sfruttamento dei consumatori. E, non potendo contare sulle risorse necessarie per reagire alle tentazioni del mercato consumistico, i poveri per essere utili – dove il termine “utilità” è inteso nel senso del capitale di consumo – avrebbero bisogno di contante e di un conto di credito (non il tipo di servizi che lo “Stato assistenziale” fornisce).
Più di qualsiasi altra cosa, lo Stato assistenziale (che, lo ripeto, è preferibile chiamare “Stato sociale”, così da spostare l’enfasi dall’erogazione di vantaggi materiali al loro intento originario, quello di formare la comunità) rappresentava un assetto inventato e promosso precisamente al fine di scongiurare l’attuale spinta verso la “pri...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione. Il danno collaterale della disuguaglianza sociale
  2. 1. Dall’«agorà» al mercato
  3. 2. Requiem per il comunismo
  4. 3. Il destino della disuguaglianza sociale nell’era liquido-moderna
  5. 4. Gli sconosciuti sono pericolosi... Ne siamo proprio sicuri?
  6. 5. Consumismo e moralità
  7. 6. «Privacy», riservatezza, intimità, legami umani e altre vittime collaterali della modernità liquida
  8. 7. La sfortuna e l’individualizzazione dei rimedi
  9. 8. Nella moderna Atene, in cerca di una risposta alla domanda dell’antica Gerusalemme
  10. 9. Storia naturale del male
  11. 10. «Wir arme Leut’»
  12. 11. La sociologia: da dove viene? E dove è diretta?
Stili delle citazioni per Danni collaterali

APA 6 Citation

Bauman, Z. (2014). Danni collaterali ([edition unavailable]). Editori Laterza. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3459812/danni-collaterali-diseguaglianze-sociali-nellet-globale-pdf (Original work published 2014)

Chicago Citation

Bauman, Zygmunt. (2014) 2014. Danni Collaterali. [Edition unavailable]. Editori Laterza. https://www.perlego.com/book/3459812/danni-collaterali-diseguaglianze-sociali-nellet-globale-pdf.

Harvard Citation

Bauman, Z. (2014) Danni collaterali. [edition unavailable]. Editori Laterza. Available at: https://www.perlego.com/book/3459812/danni-collaterali-diseguaglianze-sociali-nellet-globale-pdf (Accessed: 15 October 2022).

MLA 7 Citation

Bauman, Zygmunt. Danni Collaterali. [edition unavailable]. Editori Laterza, 2014. Web. 15 Oct. 2022.