Fortezza Italia
Non discuterò qui l’idea di Patria in sé. Non mi piacciono queste divisioni.
Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri.
don Lorenzo Milani, L’obbedienza non è più una virtù
1. Stranieri ricchi e stranieri poveri
Quando gli immigrati eravamo noi Buona parte delle città medioevali non conserva più le antiche mura di cinta, erose dal tempo o cadute sotto i colpi dei nemici, ma l’intera Europa appare egualmente una fortezza sotto assedio. Quelle che Ernesto Balducci chiamava «le mura d’acciaio dell’Occidente» respingono i disperati che fuggono dalle guerre e dalla fame, costringendoli ad arrivare via mare su imbarcazioni di fortuna per poi risospingerli nelle terre da cui sono partiti, destinati alle torture, alle bombe, all’inedia.
Eppure, in un passato non troppo remoto, ad emigrare in massa eravamo noi. A partire dal 1860, nell’arco di un secolo ventitré milioni di italiani hanno lasciato la penisola per cercare fortuna in altre terre. Nessun paese comunitario ha nella propria storia un esodo di tali dimensioni. Per molti decenni meta privilegiata è stata l’America; poi i paesi dell’Europa del Nord, Francia, Svizzera, Belgio, Germania. Ci si spostava non per spirito di avventura ma per necessità, spinti dalla mancanza di lavoro e di prospettive, non pensando ad un abbandono definitivo della patria ma convinti di potere un giorno rientrare.
Quelle migrazioni furono segnate da tragedie. La traversata dell’Atlantico sui piroscafi non era una passeggiata, si moriva di fame e di malattia, e al momento dell’approdo sulle coste americane le persone in vita erano generalmente meno di quelle salite a bordo all’imbarco. Altri drammi furono conseguenza delle condizioni di lavoro, svolto quasi sempre in assenza delle più elementari misure di sicurezza: nel 1907 a Monongah, una cittadina della Virginia, a causa di un’esplosione morirono ustionate all’interno di una miniera trecentosessantadue persone, centosettantuno delle quali italiane; nel 1956 l’incendio di un’altra miniera di carbone, questa volta a Marcinelle, in Belgio, provocò il decesso di duecentosessantadue uomini, di cui centotrentasei italiani.
I nostri connazionali non godevano di buona fama: venivano considerati sporchi, fannulloni, straccioni, mafiosi. Il 14 maggio 1909 il «New York Times» scriveva: «L’Italia è prima in Europa con i suoi crimini violenti. [...] il criminale italiano è una persona tesa, eccitabile, è di temperamento agitato quando è sobrio e ubriaco furioso dopo un paio di bicchieri. Quando è ubriaco arriva lo stiletto». Questi pregiudizi diedero luogo a episodi di giustizia sommaria. Nel 1899 a Tallulah, un paesino a trecento chilometri da New Orleans, cinque «dagos» – come negli Stati Uniti erano denominati spregiativamente i siciliani (da «day goes», pagati a giornata) – furono linciati perché la capra di uno di loro aveva brucato nel prato del medico del paese, il medico aveva ucciso la capra e per reazione uno dei dagos lo aveva ferito.
Historia magistra vitae, ma gli italiani di oggi hanno la memoria corta. Quando sono gli altri ad arrivare da noi, il nostro passato di «stranieri», e per giunta sgraditi, lo rimuoviamo. Dimentichiamo che c’è sempre stato un naturale esodo dagli Stati più poveri a quelli più ricchi e, all’interno dei singoli Stati, un movimento dalla periferia verso il centro alla ricerca di un maggiore benessere; che nei periodi storici in cui c’era miseria gli italiani hanno cercato fortuna altrove e che la nostra penisola ha visto una consistente migrazione dal Sud verso il Nord di quelli che per decenni sono stati definiti spregiativamente «terroni».
Trascuriamo anche l’attualità. In questi ultimi anni molti italiani hanno ripreso ad emigrare. Non c’è solo il fenomeno battezzato «fuga dei cervelli», di chi ha un alto livello di specializzazione e non riesce a fare ricerca nel nostro paese. Molte persone che hanno un livello di istruzione medio-basso si trasferiscono all’estero, in aree dove il tasso di disoccupazione è meno elevato o è più facile cogliere opportunità.
La memoria corta ci fa comodo. L’approdo di indigenti di altri paesi, oltre a turbare le coscienze (di pochi), mette in discussione il benessere occidentale e il nostro stile di vita consumistico. Non vedere il bisogno altrui aiuta a non pensarci. I nostri poveri possiamo punirli ma non allontanarli; quelli stranieri pretendiamo che se ne stiano a casa loro.
La nascita delle barriere Il diritto di emigrare solo negli ultimi decenni è stato costruito come diritto a senso unico: libertà degli occidentali di trasferirsi nei continenti extraeuropei, cui non corrisponde una reciproca libertà dei cittadini extraeuropei di trasferirsi in Occidente. In passato, a partire dal Cinquecento, in concomitanza con la colonizzazione dell’America da parte delle potenze europee, per giustificare la depredazione e lo sfruttamento delle popolazioni indigene si teorizzò il diritto di chiunque ad accedere a qualunque parte del pianeta; e questo diritto, pensato ad uso e consumo dei conquistatori, fu costantemente ribadito nei quattro secoli successivi. Non c’era bisogno di metterlo in discussione perché l’andamento della migrazione è stato a lungo centrifugo: dal vecchio continente verso altre terre, mentre non c’era un flusso in senso inverso.
Si comprende, dunque, perché fino ad epoca relativamente recente i pochi stranieri che intendevano stabilirsi nel nostro paese non erano soggetti a misure particolari. C’era l’esigenza di censire chi, non cittadino, si trovava sul territorio italiano, non di impedirne l’ingresso. Il Testo unico di pubblica sicurezza del 1931 imponeva ai forestieri di presentarsi, entro tre giorni dal loro arrivo in Italia, all’autorità di pubblica sicurezza per compilare la dichiarazione di soggiorno; se non lo facevano potevano essere espulsi mediante accompagnamento alla frontiera o, nei casi di urgenza, allontanati dal prefetto con foglio di via obbligatorio. L’arresto scattava solo in caso di inottemperanza al foglio di via o di rientro senza autorizzazione, per cui in definitiva ad essere punito era il soggiorno illegale, non l’accesso al nostro territorio, che era libero.
La Costituzione del 1948 non incise su questo sistema normativo, limitandosi a sancire il diritto dei cittadini di uscire liberamente dal territorio della Repubblica e di rientrarvi, ma non affrontando il tema della libertà degli stranieri di venire a vivere da noi – salvo riconoscere il diritto d’asilo ai perseguitati politici – perché l’Italia continuava ad essere solo un paese di emigrazione.
Ad un certo punto le ondate migratorie hanno invertito il loro corso. A partire dagli anni Settanta del secolo scorso ai confini dell’Europa hanno iniziato a premere masse di diseredati del Sud del mondo. Questo mutamento della direzione dei flussi migratori ha comportato anche un capovolgimento di prospettiva nel riconoscimento del diritto di emigrare, che ha perso il suo carattere universale. A potere entrare e uscire liberamente dall’Italia sono solo i cittadini dell’Unione Europea, in virtù dei diritti loro riconosciuti dal trattato istitutivo dell’Unione. Per regolamentare in modo restrittivo il soggiorno degli extracomunitari sono invece intervenute, a partire dal 1990, diverse leggi – in particolare la legge Turco-Napolitano del 1998 e la Bossi-Fini del 2002 – che hanno man mano ampliato l’area dell’illiceità penale, finendo per farla coincidere con quella dell’illiceità amministrativa. Ad essere puniti sono l’ingresso e il soggiorno illegali, l’inottemperanza all’ordine di andarsene, il reingresso dopo che si è stati espulsi.
Parallela all’estensione della sfera della punibilità è stata l’introduzione del sistema delle quote: il presidente del Consiglio dei ministri fissa ogni anno con decreto il tetto massimo di stranieri extracomunitari ai quali rilasciare il permesso di soggiornare in Italia per esercitare un lavoro autonomo o subordinato. Per selezionare i ‘fortunati’ è stato imposto un meccanismo irrealistico, fondato sull’incontro a livello planetario fra domanda e offerta di lavoro: gli interessati non possono venire in Italia per prendere contatti, presentarsi, discutere le modalità di impiego; l’assunzione deve avvenire preventivamente, stipulando un contratto quando ancora essi si trovano nel paese d’origine, con l’onere per il datore di lavoro di fornire loro un alloggio e di impegnarsi al pagamento delle spese di viaggio per il rientro.
La filosofia alla base di queste norme è prettamente egoistica: avere manodopera di comodo a basso costo. Gli immigrati li vogliamo solo se ci servono, e dunque nella quantità utile e per il tempo strettamente necessario, per andare ad occu...