Lo schiavo
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Lo schiavo

  1. 20 pagine
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Lo schiavo

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L'egittologo prova inevitabilmente un certo disagio allorché è chiamato a discutere della figura dello schiavo nell'antico Egitto, dal momento che l'ipotesi stessa della presenza di una qualche forma di schiavitù di tipo classico nella Valle del Nilo continua a costituire oggetto di dibattito fra gli studiosi di storia economica e sociale. E se è vero che la recezione occidentale ha fissato fin dall'antichità biblica l'immagine dell'Egitto quale «casa di schiavitù», quale civiltà che fonda la propria stessa ricchezza sullo sfruttamento del lavoro coatto, l'egittologo non può considerare casuale la mancanza, in una società come quella dell'Egitto faraonico, in cui il documento scritto pervade l'intera sfera comunicativa del singolo e dello Stato, di una codificazione giuridica dello status di «schiavo». L'abbondanza di documentazione scritta epigrafica e papiracea, letteraria e amministrativa, religiosa e profana trasmessa dalla cultura egiziana appare in stridente contrasto con la scarsità di informazioni che è possibile ricavarne circa la situazione antropologica (nel senso più ampio del termine) di questa figura umana: che molti dei gruppi sociali descritti nei decreti reali o nei testi amministrativi fossero sottoposti a diverse restrizioni della libertà individuale è fatto come vedremo documentato; ma a quale fra questi gruppi vada propriamente applicata la definizione di «schiavi», è invece questione assai più difficile da dirimere, e che richiede un attento riesame delle fonti.Acquista l'ebook e continua a leggere!

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788858100349
Argomento
Storia
Categoria
Storia antica

Lo schiavo

Introduzione

L’egittologo prova inevitabilmente un certo disagio allorché è chiamato a discutere della figura dello schiavo nell’antico Egitto, dal momento che l’ipotesi stessa della presenza di una qualche forma di schiavitù di tipo classico nella Valle del Nilo continua a costituire oggetto di dibattito fra gli studiosi di storia economica e sociale. E se è vero che la recezione occidentale ha fissato fin dall’antichità biblica l’immagine dell’Egitto quale bêt ‘ǎbādîm, «casa di schiavitù», quale civiltà che fonda la propria stessa ricchezza sullo sfruttamento del lavoro coatto, l’egittologo non può considerare casuale la mancanza, in una società come quella dell’Egitto faraonico, in cui il documento scritto pervade l’intera sfera comunicativa del singolo e dello Stato, di una codificazione giuridica dello status di «schiavo». L’abbondanza di documentazione scritta – epigrafica e papiracea, letteraria e amministrativa, religiosa e profana – trasmessa dalla cultura egiziana appare in stridente contrasto con la scarsità di informazioni che è possibile ricavarne circa la situazione antropologica (nel senso più ampio del termine) di questa figura umana: che molti dei gruppi sociali descritti nei decreti reali o nei testi amministrativi fossero sottoposti a diverse restrizioni della libertà individuale è fatto – come vedremo – documentato; ma a quale fra questi gruppi – cui di volta in volta corrispondono definizioni quali mrj.t, «dipendenti», ḏ.t, «personale», ḥsb.w, «lavoratori forzati», b3k.w, «operai», ḥm.w, «servi», ḥm.w-nzw, «servi reali», sqr.w-‘nḫ, «prigionieri di guerra», ‘3mw.w, «Asiatici», ecc. – vada propriamente applicata la definizione di «schiavi», è invece questione assai più difficile da dirimere, e che richiede un attento riesame delle fonti.
Il problema presenta, in parte, un aspetto puramente terminologico, e per questo potenzialmente trascurabile: la lettura di strutture sociali o di fatti culturali di una qualsiasi civiltà attraverso i paradigmi di riferimento (anche linguistici) elaborati da un’altra è sempre, sotto il profilo ermeneutico, un processo spurio; ma è inevitabile, nella pratica dell’analisi interculturale, che lo studioso operi alla luce della propria esperienza storica. Si può parlare di «città» nell’Egitto faraonico? Certamente sì, dal momento che l’opposizione fra n’.tj, «cittadino» (ossia Egiziano) e ‘3mw, «beduino» (ossia Asiatico) costituisce un topos culturale assai frequente nella letteratura egiziana classica; si pensi al celebre passo della Profezia di Neferti (29-33):
Un uccello straniero si stabilirà nelle pianure del Delta,
dopo aver nidificato accanto agli abitanti della città:
per propria colpa, gli uomini hanno permesso che esso si avvicinasse.
E adesso, tutto ciò che era bello andrà perduto:
gli stagni pescosi ricchi di selvaggina, pullulanti di pesci ed uccelli!
Non c’è ormai più niente di bello, e l’Egitto è prostrato a causa di questi animali,
ossia i Beduini che percorrono il paese:
in Oriente sono sorti nemici, in Egitto sono scesi gli Asiatici!
Sarà tuttavia molto difficile ritrovare perfino a Menfi o a Tebe una agorá di tipo ateniese. Esiste una filosofia egiziana? Certamente sì, se si pensa per esempio all’affermarsi del motivo della «ricerca intellettuale» (ḥḥj nj jb) all’interno del genere letterario delle «Lamentazioni» durante il Medio Regno: Khakheperraseneb intitola la sua composizione letteraria: Collezione di parole, raccolta di detti, indagine di frasi come ricerca intellettuale composta dal sacerdote di Eliopoli Khakheperraseneb, figlio di Seni, detto Ankhu. Ma sarà ovviamente impossibile trovare in Egitto un’analisi metalinguistica della sophía, ossia una filo-sofia in senso greco. E gli esempi si potrebbero moltiplicare.
Ma la questione sostanziale è un’altra, ossia quella di come vada analizzato al suo interno il tessuto della società egiziana, e di quali sviluppi storici vi possano essere ravvisati. Molto spesso lo studioso o il lettore moderno tendono a trattare la cultura egiziana quasi essa rappresenti una struttura statica ed in tremila anni di storia faraonica non siano ravvisabili sostanziali mutamenti. Parlando della schiavitù osserveremo invece che i testi amministrativi dell’Egitto antico permettono di riconoscere evidenti evoluzioni nel concetto e nella pratica della schiavitù, e di ottenere un quadro d’insieme che converge con quanto le fonti letterarie rivelano circa la storia delle idee nella società faraonica. Non sorprenda questa dicotomia fra «testi amministrativi» e «fonti letterarie»; più che altre civiltà dell’Oriente antico, l’Egitto elaborò una serie di elementi formali che caratterizzano il discorso letterario vero e proprio rispetto alla documentazione di natura pragmatica: una rigida applicazione di convenzioni metriche, prosodiche e stilistiche, spesso un diverso registro linguistico, e soprattutto una diversa presentazione dello status e della psicologia dei singoli individui e dei gruppi sociali sono tratti specifici dell’ambito letterario stricto sensu, e principalmente dei suoi due generi più rappresentativi, ossia l’«insegnamento» ed il «racconto». Essi si occupano della dimensione del «bello» (nfr), rispetto al «vero» (m3’) dei testi religiosi (ed in parte di quelli politici) da un lato ed al «reale» dei testi amministrativi dall’altro: sarà per questo sempre necessario vagliare la documentazione egiziana alla luce di diversi filtri interpretativi, legati alla natura delle fonti testuali di cui di volta in volta ci serviremo. Il dio, il re, lo straniero, documentati nei testi pragmatici non sempre corrispondono alle loro finzioni letterarie: si pensi all’ironia con la quale il mito osiriano viene presentato nel racconto ramesside del Conflitto fra Horo e Seth per l’eredità di Osiri; o all’opposizione fra lo status divino del faraone nei testi teologici e la levità con la quale il rapporto equivoco tra il re Neferkare (Pepi II della VI dinastia) ed un suo generale di nome Sisene costituisce il motivo dell’omonimo frammentario racconto; o alla saggezza del principe beduino di Retjenu e del sovrano mitannico di Naharina, i quali riservano ai fuggiaschi d’Egitto (rispettivamente Sinuhe ed il Principe Predestinato) un trattamento assai lontano dalla barbarie dello stereotipo culturale dell’Asiatico. E sintomaticamente sono spesso le figure di «uomini egiziani» proprie ai testi letterari, piuttosto che a quelli teologici, ad essere state recepite dalla tradizione occidentale fin dai tempi di Erodoto: ricordiamo la sua descrizione della malvagità di Cheope (2, 124 sgg.), favorita di certo dalla sorpresa di un Greco di fronte alla maestosità architettonica delle piramidi, dietro le quali egli era inevitabilmente portato a riconoscere gli effetti di un forte centralismo autoritario, ma fondata altresì su una tradizione letteraria autoctona, che tendeva a riconoscere in Cheope il prototipo del re malvagio, come ci dimostrano i racconti del papiro Westcar, posteriori di circa un millennio all’epoca in cui si situa la narrazione; o alle figure di Ferone (2, 211), il «Faraone» per eccellenza (probabilmente Ramesse II) e Rampsinito (2, 121 sgg.) (da identificarsi probabilmente con Ramesse III), protagonisti di motivi folklorici ripresi in seguito da altre tradizioni letterarie del Vicino Oriente.

Lo schiavo e la letteratura

Già a questo punto emerge una singolare caratteristica dello schiavo rispetto ad altre figure di uomo egiziano: la sua esistenza è menzionata fin dai più antichi testi propriamente letterari della civiltà egiziana, come le Lamentazioni di Ipu-wer del Medio Regno, nelle quali l’evoluzione culturale che la società conobbe nel passaggio dallo Stato menfitico all’età feudale appare ideologicamente fissata in senso negativo attraverso una serie di opposizioni fra un aureo passato (quello dell’Antico Regno) ed un tragico presente (quello del Primo Periodo Intermedio): «Adesso perfino le schiave [ḥm.wt] parlano senza ritegno, / e quando la padrona dà un ordine, i servi [b3k.w] si dimostrano insofferenti» (Adm. 4, 13).
La condizione umana di questa figura (di ḥm o di b3k) non ci appare tuttavia mai narrata a livello letterario. La Satira dei mestieri, vero e proprio classico della letteratura del Medio Regno, conosciuto anche, per via del suo autore pseudoepigrafico, con il nome di Insegnamento di Khety, presenta i vantaggi della professione scribale rispetto a tutte le attività lavorative, che in Egitto tendono a corrispondere a condizioni specifiche dell’uomo, il quale si identifica qui più che altrove con il proprio mestiere. In tutte queste condizioni individuali e sociali lo scriba, che è il veicolo dei valori della classe dirigente del Medio Regno, dibattuta fra fedeltà alle istituzioni dello Stato, riassunte nella persona del sovrano, ed affermazione della propria individualità, catalizzata nel successo professionale, riconosce una dipendenza del singolo dal proprio l...

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  1. Lo schiavo