Felicità d'Italia
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Felicità d'Italia

Paesaggio, arte, musica, cibo

  1. 216 pagine
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Felicità d'Italia

Paesaggio, arte, musica, cibo

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Che cosa sono le felicità d'Italia? La musica, il cibo, la biodiversità agricola, il paesaggio, la tradizione artistica e culturale. Ovvero tutto ciò che rende il nostro Paese e i suoi costumi speciali agli occhi degli stranieri che vengono a visitarlo o di quelli che ne apprezzano e adottano lo stile di vita.

Ma perché queste 'felicità' hanno avuto origine proprio qui? Come mai la Penisola possiede una eredità tanto ricca e varia di questi tesori? Carlo Cattaneo sosteneva che la cultura e la felicità dei popoli non dipendano tanto dai mutamenti della 'superficie politica' quanto dall'influsso di alcune 'istituzioni' che agiscono inosservate nel fondo delle società. Sono creazioni del popolo (norme consuetudinarie, strutture organizzative, tradizioni culturali) che sono state elaborate dal basso e che contano più delle scelte dei governi per il progresso dell'umanità.

Il libro racconta la storia di quattro di queste 'felicità': l'alimentazione, dipendente dall'originalità storica e geografica dell'agricoltura italiana; le città, con il loro patrimonio di bellezza, che per secoli hanno costituito la forma più alta di organizzazione della vita sociale; la musica e la canzone napoletana, esempi della creazione di un immaginario poetico da parte di un popolo; la tradizione cooperativa, che ha dato un'impronta di egualitarismo sociale e di avanzato civismo.

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Informazioni

Anno
2017
ISBN
9788858128572

III.
La città, bene pubblico
e comune

Un’incomparabile eredità

Occorre ritornare a Cattaneo, la fonte originaria che ispira il progetto del nostro viaggio tra le istituzioni italiane. Nel celebre saggio La città considerata come principio ideale delle istorie italiane, del 1858, lo scrittore lombardo individuava nella continuità e preminenza delle realtà urbane lungo il territorio della Penisola l’elemento originale che annodava la nostra storia in uno svolgimento unitario e coerente. «Senza questo filo ideale – egli scriveva – la memoria si smarrisce nel labirinto delle conquiste, delle fazioni, delle guerre civili e dell’assidua composizione e scomposizione degli stati». Le città che resistono a tante convulse e disordinate vicende sono in grado di offrirci un elemento intangibile di continuità. E genialmente scorgeva la matrice originale della nostra storia urbana: «Fin dai primordi la città è altra cosa in Italia da ciò ch’ella è nell’oriente o nel settentrione. L’impero romano comincia entro una città, è il governo d’una città dilatato a comprendere tutte le nazioni che circondano il Mediterraneo»169. Cattaneo, che aveva una visione vasta e lunga della nostra storia, individuava soprattutto nella istituzione del municipio l’elemento profondo di aggregazione che aveva resistito nel tempo e che aveva reso possibile la costruzione e la sopravvivenza delle città prima e dopo Roma. Il municipio, vale a dire un nucleo di aggregazione politica, di governo del territorio, principio ispiratore, aggiungiamo noi, della città come progetto di organizzazione sociale dello spazio. Tale istituzione, che si era legata indissolubilmente al territorio circostante, aveva fatto sì che nessun contadino, ancora nell’Ottocento, si definisse lombardo, ma appartenente alla città più vicina. Il pastore di Val Camonica si definiva bresciano, quello di Val Sassina si faceva chiamare bergamasco, «mentre nessun agricoltore si chiama parigino, nemmen quasi a vista di Parigi»170. Per la verità non crediamo che una tale regola potesse applicarsi interamente in tutto il territorio italiano, anche se a Cattaneo non sfuggiva certo la diversa storia che avevano percorso le città del Sud, organizzate all’interno di un regno a partire dalle invasioni normanne.
Ma quel che qui interessa è riprendere il filo attualissimo della riflessione dello scrittore, che scorgeva nella Roma antica, repubblicana e imperiale, un centro generatore di città, un potere che si dilatava territorialmente attraverso presidi urbani. E in effetti oggi appare evidente che per comprendere le origini profonde di questa geniale invenzione della civiltà umana, questa forma di organizzazione della vita in comune, nel momento in cui essa viene aggredita e sconvolta da un ritorno di inaudita barbarie, occorre ritornare brevemente alle sue origini romane171. E non senza sorprese. Come ha mostrato – e in parte ricordato e confermato – una valente studiosa italiana, Annapaola Zaccaria Ruggiu, la fondazione delle città nella Roma antica assumeva la forma di un intervento fondativo nel territorio del sacro. Era in senso proprio una funzione religiosa. Si interveniva in un’area spopolata, dominio della natura e dunque, secondo i Romani, del caos e la si configurava secondo un ordine che la sacralizzava. Perché «Lo spazio è così intimamente legato con le attività essenziali della vita e con la realtà e la natura della comunità da essere visto come direttamente radicato nel sacro ed espressione di esso»172. Del resto, com’è stato sottolineato da un grande conoscitore del diritto romano, Yan Thomas, «Il diritto romano attesta di una vicinanza giuridica costante tra il pubblico e il sacro, termini che qualificano comunemente i luoghi e le cose sottratte al dominio individuale». Una concezione che Roma condivideva con la vicina Grecia173.
Com’è noto i Romani ordinavano il nascente spazio urbano secondo due assi che si intersecavano, il cardo, tracciato in direzione del polo, e il decumano, che seguiva la direzione del sole, da oriente a occidente. Ai lati di questi assi, che diventavano le strade principali della città, si disponevano i templi e gli edifici pubblici, il foro, le case private e scorrevano le vie minori, con i loro vari nomi (platea, via, angiportus, callis, actus, limes, strata, clivus ecc.)174. Una geometria che è essa stessa bellezza delle forme e che ancora oggi possiamo ammirare in contrasto con gli informi agglomerati delle città musulmane – che somigliano a tante nostre odierne periferie – in città come Jerash in Giordania, Volubilis in Marocco, Leptis Magna o Sabratha in Libia. Una geometria e un ordine che erano il frutto di un disegno, di un piano, di un progetto di organizzazione e di edificazione dello spazio coincidente con un progetto di società. Le città non nascevano come occupazione caotica di frammenti sparsi di territori da parte di singole famiglie o gruppi o, per dirla ancora con Cattaneo, da parte di tribù guerriere che vi ammassavano il proprio bottino di guerra. Esse costituivano un progetto di comunità. Al loro ordine organizzativo si dovevano subordinare gli interessi privati, considerati certo legittimi, ma incapaci da sé di produrre comunità, e visti anzi come antagonisti all’interesse collettivo. Lo «stesso diritto di proprietà privata – ha ricordato la Zaccaria Ruggiu – attinge la propria legittimazione a partire dal “pubblico”. Sul terreno più propriamente urbanistico, per il diritto romano la proprietà non può mai essere tale da contraddire la dimensione comunitaria e pubblica della città come intero. Gli stessi singoli edifici sono momenti e articolazioni del “pubblico”, e questo indipendentemente dal fatto che essi si trovino in aree pubbliche o private»175. Naturalmente va ricordato, come fa opportunamente l’autrice, che il concetto di privato qui utilizzato è moderno, perché non esiste nelle società precapitalistiche una originarietà del suo presente significato. Ma quel che qui importa sottolineare è questo coincidere della dimensione pubblica con la città e del suo prevalere sugli interessi singoli per una precisa volontà progettuale della politica. Come ha ricordato ancora Yan Thomas a proposito delle strade, spazio per eccellenza dell’accesso di tutti: «Non era la natura stessa delle cose a parlare. Era un magistrato che definiva i limiti e i servizi di quei luoghi perpetuamente inalienabili. Nel caso delle strade, un passaggio del Digesto lo mostra chiaramente: “Il suolo della via pubblica è pubblico, lasciato all’uso pubblico da colui il quale ha diritto di rendere pubblico il suolo, secondo un tracciato compreso entro certi limiti in larghezza, perché vi si possa circolare e viaggiare pubblicamente”»176.
Come vedremo, questi elementi fondativi della città saranno confermati e arricchiti dalla successiva storia urbana dell’Italia, al punto da farne un carattere eminente di originalità incomparabile con altri paesi d’Europa e del mondo. Cattaneo non li ha compresi esplicitamente tra le sue “istituzioni”, ma lo facciamo noi, convinti di non forzare più di tanto il suo pensiero. Certo, nel trattare brevemente dello sviluppo della dimensione urbana si affrontano temi ed esperienze che non sono esclusivi della storia d’Italia. Non solo perché da un certo momento in poi questa forma di organizzazione spaziale e sociale si è affermata soprattutto in Europa e poi in tutto il mondo. Ma anche e più specificamente per il fatto che, nel resto d’Europa, l’impronta romana sui territori dei rispettivi paesi è stata rilevantissima. Ancora oggi la geografia storica può mostrare come nuclei urbani e grandi assi viari tuttora vivi e in uso coincidono, più o meno perfettamente, con i tracciati e i presidi della colonizzazione romana. È «davvero sorprendente – ha osservato una geografa inglese – il grado di dipendenza delle città europee, sia medievali sia moderne, da località e fondazioni romane»177.
D’altra parte, anche in epoca più tarda, l’influenza della nostra cultura urbana sui grandi paesi del Vecchio Continente è stata tale da fare dell’evoluzione delle forme della città per tanti aspetti, e per un lungo tratto, una comune storia europea. Durante il nostro Rinascimento non solo la città italiana ha fatto da modello per gli architetti degli altri paesi, ma, come ha ricordato Leonardo Benevolo, i suoi ideatori e realizzatori sono andati a proporla direttamente nei vari Stati europei: «Gli artisti trasportano, durante le loro peregrinazioni, un carico culturale esplosivo, che dovunque è in grado di produrre rilevanti trasformazioni. Il loro campo di lavoro è ormai l’Europa intera, non solo l’Italia. Aristotele Fioravanti è chiamato in Inghilterra nel ’67 [del 1400] e in Russia nel ’75, Lorenzo de’ Medici nel ’92 presenta Andrea Sansovino al re del Portogallo; nel ’96 il cardinale della Rovere invia Giuliano da San Gallo presso il re di Francia a Lione»178.
E tuttavia, pure in questa comune area europea, il percorso urbano dell’Italia conserva la sua singolarità e per tanti aspetti unicità, almeno per una lunga fase storica. Innanzi tutto per il numero, le dimensioni, il rilievo che le città e le strutture urbane hanno nel suo territorio. Alcuni storici dell’urbanistica romana hanno affermato, non senza buone ragioni, che l’“Italia delle cento città” nasce molto precocemente, intorno al II e al I secolo a.C., grazie all’espansione agricola che avviene nella tarda età repubblicana. Le maggiori facilitazioni concesse dal potere di Roma ai coloni che si insediano lu...

Indice dei contenuti

  1. I. A passeggio con Carlo Cattaneo
  2. II. Agricoltura e cucina
  3. III. La città, bene pubblico e comune
  4. IV. Napoli, la città che si canta
  5. V. La politica in comune. Associazionismo e cooperazione in Emilia Romagna
  6. Conclusioni programmatiche