Montecristo
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Montecristo

Dentro i segreti della natura selvaggia

  1. 200 pagine
  2. Italian
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Montecristo

Dentro i segreti della natura selvaggia

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Informazioni sul libro

L'isola più selvaggia e inaccessibile del Mediterraneo. Le parole di un grande narratore di natura e di viaggi.

«Le eriche, i rosmarini, i cisti selvatici ora sono immobili, spargono i loro profumi dolciastri nella bonaccia. Il mare è immoto, i gabbiani lanciano i loro gridi ripetuti. Poi, d'un tratto, da lontano, il mare cambia colore. Da una parte, vicino all'isola, rimane blu intenso; dall'altra, verso l'orizzonte, prende un tono biancastro, con riflessi d'acciaio. È l'effetto dell'incresparsi delle onde. Il maestrale investe l'isola, di colpo, con tutta la sua potenza: i marosi si infrangono sui liscioni a picco, gli ericeti si piegano sotto le raffiche. Tutta l'isola si gonfia, si scuote.»Per la prima volta dall'istituzione della Riserva di Montecristo (1971) è stato concesso a un 'osservatore' d'eccezione di vivere e muoversi liberamente sull'isola. Un'esperienza unica, fatta di silenzi e incontri inattesi. Osservando il suo tesoro naturale, Montecristo diventa l'occasione per riflettere sul rapporto tra l'uomo e l'ambiente ponendoci di fronte a temi che trascendono i suoi stessi confini fisici. Per trasportarci come su un'Arca di Noè in uno spazio universale.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788858122136

III.
Il luogo
della mente

~ 1 ~

Ci sono innumerevoli segni lasciati sulla Terra che parlano in modo inequivocabile di esistenze antiche scomparse per sempre. Tra queste ve n’è una nelle Dolomiti particolarmente sorprendente rimasta chiusa chissà da quando in una grotta a 2800 metri, nel Gruppo delle Conturines. Nel 1987 venne ritrovato nel buio di quell’antro lo scheletro di una creatura terribile, enorme, l’Ursus spelaeus, più grosso del grizzly, dell’orso Kodiak o dell’orso bruno della Kamčatka. Un animale fantastico, vissuto tra 240 mila e 39 mila anni fa e poi scomparso. Altri ritrovamenti simili avvenuti sulle Alpi secoli addietro avevano fatto credere che i draghi e gli animali mitologici fossero esistiti veramente, come testimonia la “Grotta del drago” nei pressi di Mixnitz nella Stiria, l’“Antro del drago” vicino a Vättis in Svizzera, la “Caverna dell’unicorno” nello Harz in Germania. In realtà si trattava del medesimo Ursus spelaeus, o orso delle caverne, che dopo essere stato uno degli animali più potenti delle Alpi se n’era andato per sempre. Così come si erano estinti i dinosauri, o i grandi mammiferi americani, o certi molluschi la cui memoria si trova ora eternata nei fossili. I ritrovamenti come quelli dei fossili o dell’orso nella grotta delle Conturines ci raccontano di esistenze svanite, di specie animali, di insetti e vertebrati, e di piante che oggi non esistono più se non in una vaga parvenza assorbita nella pietra.
Intere famiglie di esseri viventi si sono dileguate in un nulla incolmabile. E questa, lo si voglia o no, è la dinamica della vita. Non solo il singolo individuo nasce, cresce, invecchia, muore. Mondi interi appaiono e scompaiono. Ed è lo stesso destino che attende l’uomo. Ma se è vero che l’estinzione di ogni specie è un fatto congenito nella dinamica evolutiva del nostro sistema naturale, oggi, a seguito della soverchiante attività dell’uomo che interferisce sui diversi equilibri ecologici, la Terra sta conoscendo una perdita di biodiversità senza precedenti.
A darci le proporzioni del fenomeno ci sono a disposizione i dati forniti da due famosi ecologi americani, John Terborgh e Jared Diamond: dalla Terra scompaiono 27 mila specie all’anno, vale a dire qualcosa come 74 al giorno, tre all’ora. E si calcola che le specie attualmente viventi siano solo l’1 per cento di quelle vissute in passato: il 99 per cento è dunque scomparso. Sembrano cifre inverosimili, ma sono avallate da anni di ricerca. All’origine di questa perdita di vita troviamo l’introduzione di specie alloctone e gli spostamenti che compie l’uomo sul pianeta, e soprattutto i trasporti merci internazionali, che per l’85 per cento avvengono via mare. Spesso, quando una grande nave viaggia vuota per ritornare al porto di partenza, carica in apposite stive tonnellate d’acqua di zavorra utili a rendere stabile la navigazione. Fa il pieno d’acqua marina in un porto, per esempio, del Nord Europa, e si prende a bordo pesci, molluschi, alghe, spugne, tunicati, plancton. Tutta questa vita sarà riversata dall’altra parte del mondo, magari in Asia, ed entrerà in competizione con la vita autoctona, a volte prevalendo su di essa e cancellandola per sempre. Se questo meccanismo lo moltiplichiamo per migliaia di navi che ogni settimana fanno avanti e indietro sulle rotte del mondo avremo una vaga misura dell’immensità del rimescolamento continuo di ecosistemi e della conseguente dispersione di specie alloctone.
Ma non occorre procedere così in grande per destabilizzare un ecosistema, anche un solo episodio, un solo viaggio, potrebbe essere fatale: intorno agli anni Cinquanta dell’Ottocento, un uomo sversò nel Lago Vittoria un secchio pieno di pesci perca del Nilo, e quel singolo gesto, nel giro di pochi anni, scardinò l’intero ecosistema del lago più grande del mondo causando una vera catastrofe ambientale, con l’estinzione dei pesci Ciclidi e mettendo in ginocchio le popolazioni costiere della Tanzania, dell’Uganda e del Kenya che si sostentavano con la pesca.
Sono processi ormai incontrollabili e fuori portata. E a parte questioni di ordine etico con le quali dovremo pure fare i conti, dissipare la biodiversità ci pone di fronte a problemi che riguardano la nostra stessa sopravvivenza. La perdita di biodiversità non significa solo rendere un mondo più monotono e triste, ma renderlo più debole di fronte a eventi imprevisti. Perché è chiaro che la forza sta nella varietà, nella complessità. Lo sanno bene gli agricoltori che lavorano con le monocolture, che risultano del tutto impotenti di fronte all’arrivo di un nuovo patogeno. E di fronte a questo problema vitale, l’uomo, che pure ne è la causa, non riesce e non può trovare rimedio.
L’Ufficio territoriale per la biodiversità di Follonica guidato da Stefano Vagniluca si occupa, come dice il suo stesso nome, proprio di arginare questo fenomeno. E naturalmente lo fa nei limiti dati dai suoi mezzi irrisori, e su una piccolissima porzione di mondo. Montecristo è una punta di spillo nell’enormità degli orizzonti terrestri. Eppure spendiamo energie, risorse, ci accapigliamo, difendiamo posizioni, soffriamo, gioiamo per questa piccola terra emersa che vorremmo intatta, così come lo era prima del nostro arrivo distruttore. Montecristo, insignificante scoglio congenitamente povero di biodiversità, appare pur sempre ai nostri occhi come un’Arca di Noè pronta a salvarci, anche se non ci potremo mai mettere piede. È la nostra arca idealizzata, che ci fa sentire meno inerti di fronte alla distruzione che stiamo provocando nel pianeta. L’Isola di Montecristo – ormai lo stavo capendo, e ciò era il nodo centrale della mia esperienza – poteva essere considerata come una parte per il tutto: osservando gli sforzi per tutelare quella piccola terra emersa, potevo cogliere l’aspirazione dell’uomo a salvare il pianeta e se stesso. Ma ancora di più, osservando l’isola, potevo capire che dietro a quegli sforzi, a quella passione per preservare uno spicchio di Terra, in fondo emergeva un pur importante miraggio consolatorio. E mi ammoniva di quanto sia grande il mondo, e di quanto sia grande ormai la nostra impotenza.
È mattina presto quando lascio la Casa del bosco e mi avvio verso sudovest, cercando nella montagna la valletta stretta e ripida che una grande “esse” porta al Collo dei Lecci.
Dopo una settimana di attesa il momento è arrivato. Rimarrò fuori a dormire, sulla cresta spartiacque, e proverò a scendere nel lato meridionale dell’isola, il lato selvaggio, dove nessuno mette piede. Lo attendevo quest’istante che segnerà l’apice del mio viaggio, ma ci volevo arrivare per gradi.
Parto sotto un cielo blu perfetto, lucido come uno smalto, perché ripulito dai venti in quota. Le “secche di gennaio” resistono ancora alternando stellate infinite a cieli di un blu elettrico inverosimile e senza nemmeno una nuvola sciolta. Persino gli aerei che volano altissimi non lasciano la loro scia. Ogni tanto li vedo, piccoli insetti che procedono dritti e lenti, luccicando a tratti nel sole.
Oggi lo zaino pesa ben più del solito. Dentro c’è tenda, materassino, sacco a pelo, fornello a gas, viveri, luce frontale, radiotrasmittente, vestiti di ricambio per la notte, che so essere fredda lassù in questa stagione. Poi un binocolo, la macchina fotografica, il taccuino per gli appunti, una corda da sei millimetri per la discesa in qualche canale. Mi aggiusto gli spallacci. Ed esco chiudendomi la porta di casa alle spalle, naturalmente non a chiave (a Montecristo non esistono chiavi).
Inizio a procedere con passo cauto, un po’ intimorito per il viaggio e allo stesso tempo impaziente di scoprire cosa mi stia attendendo, mentre la voce lontana del mare si affievolisce fino a sparire.
In teoria trovare la strada non deve essere particolarmente difficile. Basterebbe – così mi ha spiegato Giorgio – seguire la direzione del corso d’acqua, ora in secca, al fondo della valletta; e salire un po’ di qua e un po’ di là dal greto, che a volte si impenna tra roccioni arrotondati o forma grandi vasche scavate nella roccia. Si dovrebbero trovare anche vaghe tracce del vecchio sentiero di caccia del re, ormai semicancellato dalla violentissima alluvione del 1992 che ha scombinato l’aspetto di buona parte di questo versante. La furia dell’acqua ha arato il terreno, sradicato alcuni lecci secolari, divelto massi, fin giù a Cala Maestra, dove si è formata l’attuale spiaggetta. «Guarda queste vecchie foto», mi ha detto Luciana una sera, «ecco, vedi, così era Cala Maestra prima dell’alluvione del ’92: una stretta striscia di ciottoli. È solo da allora che c’è la spiaggia. Incredibile, eh!?».
In effetti, ho pensato osservando quelle vecchie foto, è quantomeno strano che un singolo evento naturale abbia potuto trasformare radicalmente l’aspetto della baia. È evidente che l’alluvione sia stata di tale violenza da riuscire a portare a mare un’importante quantità di detriti che si sono accumulati oltre la battigia dando poi vita con l’erosione marina a una caratteristica forma di sedimentazione a semicerchio, detta dai geologi “spiaggia di fondo di baia”.
Il sottobosco sul quale cammino è ora un tappeto morbido composto da strati di corteccia di eucalipto staccatisi dai tronchi in lunghe strisce sottili, andate poi sparpagliandosi, grazie al vento, tutt’intorno agli alberi. Quello degli eucalipti è un legno impregnato di profumo e di olii, ottimo per accendere il fuoco nella stufa, come ho sperimentato le sere precedenti. Basta accostare un fiammifero acceso a una striscia di corteccia, e si innesca un fuoco allegro, vigoroso, dal quale partono tutt’intorno piccole scintille scoppiettanti.
Al fondo della ristretta area pianeggiante di Cala Maestra, il bosco piantato da Taylor un secolo e mezzo fa termina di colpo, e con un passo ci si lascia alle spalle i dominii dell’uomo, facendo subito ingresso nella ripida valletta che sale al Collo dei Lecci.
Già dopo pochi metri sulle pietre instabili del fiume mi rendo conto di quanto pesi il mio zaino. Avrei dovuto stare attento a risparmiare energie per la lunga marcia. I bastoncini da trekking sarebbero ottimi per aiutare l’equilibrio sotto grossi carichi, ma su questo terreno usarli risulta quasi impossibile. L’ho sperimentato nei giorni passati. Troppo sconnessa la superficie d’appoggio, in più i fitti arbusti, oltre a nascondere il suolo sottostante, non permettono alla punta di correre via in avanti appena sgravata dal carico; così facendo, per estrarli dal rovo, diventa necessario compiere un ampio gesto dal basso all’alto. Fatica inutile e dispendiosa se protratta per ore. Inoltre, per passare tra i grossi massi o per issarsi lungo un passaggio più scosceso sarebbe meglio avere le mani libere. Dunque niente bastoncini.
Per prima cosa, appena arrivato al torrente, cerco dove possa essere la benedetta traccia del sentiero. Guardo attentamente a terra e rallento il passo fino a fermarmi. Sono convinto che vicino alla zona abitata il sentiero sia più facile da trovare, e se non il sentiero, almeno un segno, qualche orma che mi indichi la via. Niente. L’alveo sabbioso risultava compatto: sabbia secca e chiara disposta in lunghe scie disegnate dall’ultima pioggia che ha colmato il torrente. Nessuna orma. E sui lati del greto, placche compatte di granito.
Cammino sul fondo prosciugato ancora per un centinaio di metri in leggera salita, fin quando mi trovo di fronte a una barriera apparentemente invalicabile: un cumulo di grossi massi rotondi, come enormi biglie incastrate nel centro del torrente in secca. Dal bordo inferiore del masso centrale, un filo d’acqua cola per un paio di metri, fino a sparire nella sabbia chiara alla base del greto. Così dunque si è ridotto il torrente dopo giorni di bel tempo! Sembra un rubinetto che non chiude bene. Tutt’intorno al filo d’acqua si è formato un rado stillicidio: gocce che colano da fili verdi, forse alghe di fiume, come minuscole e morbide stalattiti. E tale è il silenzio che si riesce a sentire il ticchettio delle gocce sulla sabbia.
No, di lì non si passa. Controllo su entrambi i lati se ci sono punti più deboli dove salire. Meglio quello destro, sembra meno scosceso. Afferro la radice di un rosmarino, e con una serie di brevi passi rapidi mi isso sul labbro superiore. Sono fuori dal torrente.
Da qui, la vista riesce a spingersi oltre il primo salto roccioso: si può intuire la grande “esse” disegnata dalla valle solcando il lato della montagna. Alte pareti di roccia alternate a fasce orizzontali ricoperte di vegetazioni si susseguono per centinaia­ di metri nell’ombra, fino alla montagna orlata di sole. Qui sul lato nordovest il sole arriverà solo nel pomeriggio. Mentre sul crinale un leccio lontanissimo già brilla in controluce.
Mi fermo qualche minuto a studiare il percorso. Poi prendo a camminare in salita, tenendo il torrente sulla sinistra. Poco più in alto, ritto su una roccia, sta immobile un caprone dalle lunghe corna a scimitarra. Mi seguirà a distanza?
«Guardati sempre intorno, se sei attento dovresti vedere sempre un punto buono dove passare, magari a destra o a sinistra del torrente. E poi non dimenticarti il sentiero. Il sentiero c’è. È nascosto, a volte è cancellato, ma risale la valle con una propria logica, se la capisci lo troverai, ogni tanto lo percorro con gli uomini della Forestale. Quando poi arriverai sulla parte alta, tieniti decisamente sulla sinistra. Lì iniziano i primi lecci. Poi il pendio si attenua e un lungo falsopiano ti porta al colle. Se stai attento non sbagli», mi ha spiegato Giorgio.
La salita copre un dislivello di seicento metri, niente di che se paragonata a un’escursione alpina: eppure so che impiegherò ore faticando nella ricerca d...

Indice dei contenuti

  1. I. L’incontro
  2. II.Il paradiso delle illusioni
  3. III. Il luogo della mente
  4. Bibliografia. Per uno scaffale dedicato alla natura selvaggia, alla sua storia e ai suoi problemi
  5. Ringraziamenti