La guerra di Spartaco
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La guerra di Spartaco

Barry Strauss, Lorenzo Argentieri

  1. 272 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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La guerra di Spartaco

Barry Strauss, Lorenzo Argentieri

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La guerra di Spartaco ha tutta la suspense di un thriller e nessuna licenza poetica. Il racconto di cosa significa essere un gladiatore, delle tattiche per essere vincenti e dell'agonia della disfatta è adrenalinico. La morte di Spartaco – non su una croce, come nel film di Stanley Kubrick, ma per mano di un generale romano – arriva con un climax degno di un poema epico."The Washington Post"

Come il generale Marcello, bramava di uccidere. Come Cicerone, era un oratore. Come Catone, era un uomo di gusti semplici. Come i Gracchi, credeva nell'idea di dividere la ricchezza. Come Bruto, lottava per la libertà. Era Spartaco. Piccolo, indomabile e veloce contro una Roma grande, potente e lenta. Ma Roma era vecchia e attaccata alle proprie tradizioni e Spartaco era un innovatore. Ci volle la fame per prenderlo.

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Informazioni

Anno
2017
ISBN
9788858131435
Argomento
Histoire

Vendetta

3.
I pretori

Nel 73 a.C., 681 anni dopo la fondazione della città di Roma, durante il consolato di Lucullo (Marco Terenzio Varrone Lucullo) e Cassio (Caio Cassio Longino), la repubblica stava combattendo una guerra a entrambe le estremità del Mediterraneo. In Spagna, Pompeo annientava il generale romano ribelle Sartorio espugnando le sue fortezze una dopo l’altra. In Asia Minore, Lucio Licinio Lucullo, fratello del console, cominciava l’invasione del regno di Mitridate, che aveva combattuto Roma a fasi alterne per quindici anni. Nei Balcani, Caio Scribonio Curione fu il primo generale romano, insieme alla sua legione, a vedere il Danubio. A Creta, Antonio si preparava a fare vela contro i pirati che attaccavano la flotta romana.
Dato il quadro generale, la rivolta dei gladiatori doveva sembrare di minore importanza. Capua aveva già visto una rivolta servile, nel 104 a.C., per schiacciare la quale erano bastati più o meno i soldati di una legione (4000 fanti e 400 cavalieri, per un totale di 4400 uomini) guidati da un pretore, un magistrato romano di alto livello. Perciò la soluzione ovvia nel 73 a.C. fu: mandiamo il pretore.
A Roma, il Senato stabiliva la politica pubblica. I senatori erano tutti uomini ricchi e quasi tutti membri di poche famiglie privilegiate; diventavano senatori automaticamente, senza essere eletti, dopo aver ricoperto una carica pubblica, e restavano in carica a vita. Erano l’oligarchia che governava Roma, tranne nelle occasioni in cui furono sfidati da generali come Mario e Silla. Questi sfidanti, un tempo rari, erano diventati più frequenti, ma nel 73 a.C. il Senato godeva di un periodo di potere indiscusso.
I senatori scelsero di mandare contro Spartaco Caio Claudio Glabro, uno degli otto pretori di quell’anno, tutti di almeno 39 anni di età ed eletti annualmente. Erano uomini dalle grandi speranze, perché la pretura era la seconda carica più importante tra quelle elette annualmente a Roma: solo i due consoli erano superiori. Chi era Glabro? Ne sappiamo poco: non arrivò mai al consolato e non conosciamo i suoi discendenti; era un plebeo che probabilmente aveva al massimo una lontana parentela con i più famosi membri della famiglia Claudia. La sua scarsa fama dimostrava ancora una volta quanto poco i Romani badassero a Spartaco.
Glabro guidò una forza di poco inferiore a quella inviata contro i ribelli del 104 a.C.: 3000 uomini invece di 4400 e senza cavalleria, per quanto ne sappiamo. Ma la prima rivolta era stata guidata da un cittadino romano che era addirittura un cavaliere, mentre questa ribellione era opera di barbari e schiavi. Evidentemente i Romani si sentivano più sicuri nel 73 che nel 104 a.C.
Le notizie da Capua furono raccolte, analizzate e classificate. Per citare Cesare, era un tumultus di schiavi1, ovvero un’esplosione improvvisa di violenza che richiedeva una risposta d’emergenza. Era una questione seria, ma non una guerra organizzata (in latino bellum).
I Romani disprezzavano gli schiavi. La loro natura servile, dice un contemporaneo, li rendeva crudeli, avidi, violenti e fanatici, e impediva loro di essere nobili o generosi d’animo. Per gli schiavi comportarsi generosamente era contro natura. L’unica occasione in cui si potevano comportare come uomini liberi erano i Saturnalia2, una festività annuale che prevedeva il rovesciamento dei ruoli, come osservò disgustato un ufficiale romano quando i suoi uomini dovettero combattere contro schiavi liberati. Nelle rivolte gli schiavi erano un fastidio, ma non un problema importante; o almeno, questo è ciò che i Romani si raccontavano, anche se l’ostinata resistenza degli schiavi siciliani nelle due rivolte (135-132 e 104-100 a.C.) avrebbe dovuto metterli in guardia.
E poi c’erano i gladiatori e il loro capo. L’atteggiamento romano verso Spartaco cammina costantemente su un doppio binario: paura e disprezzo, odio e ammirazione, indifferenza e ossessione, tutti insieme. Per i Romani, i gladiatori dovevano essere nutriti, addestrati, applauditi, adorati, desiderati, portati a letto, seppelliti e qualche volta persino liberati, ma mai, mai trattati come pari.
In quanto schiavo e barbaro trace, Spartaco era spregevole per i Romani; in quanto soldato ex alleato, era patetico. Dal loro punto di vista, i Romani gli avevano offerto la mano della civiltà accogliendolo nelle unità ausiliarie del loro esercito, e poi, per cattivo comportamento o per cattiva sorte, aveva finito col diventare schiavo: aveva perso l’occasione che l’esercito gli aveva dato (ovviamente, sempre dal punto di vista romano). Ma nella loro clemenza, per quanto riguardava i Romani, gli avevano dato un’altra possibilità: gli avevano dato il gladius, la spada.
Per i Romani un gladiatore non era soltanto un atleta e neanche un guerriero: era sacro e affascinante. Ogni volta che andavano ai giochi, i Romani volevano sentire i brividi lungo la schiena. Si aspettavano che le bestie ruggissero, perché questo rendeva migliore lo spettacolo. Ma Spartaco faceva più che ruggire: come molti atleti professionisti, era temuto per lo stesso motivo per cui era adorato: perché era pericoloso. Eppure, una volta fuori dall’arena, un gladiatore sembrava quasi innocuo, anche se aveva impugnato le armi per rivoltarsi.
Se questo può sembrare difficile da capire, si pensi a Spartaco come a un atleta che rifiutò l’amore dei suoi ammiratori. Possiamo perdonare un atleta che si comporta male, ma non uno che ci ignora. Una volta che Spartaco e i suoi 73 compagni lasciarono le loro celle, non furono più gladiatori, ma gladiatori fuggitivi. Agli occhi dei Romani, si erano ritirati da un combattimento, perciò erano dei reietti morali: codardi, effeminati e degenerati. Avevano fuggito la gloria dell’arena e scelto la vergogna del banditismo. Spartaco avrebbe potuto essere l’orgoglio di Roma, invece, a quanto pareva, era tornato quello che era all’inizio: un barbaro. Dal punto di vista romano i suoi uomini non erano soldati, ma schiavi fuggitivi (fugitivi). Non stupisce che il Senato avesse poca paura di lui, all’inizio.
È probabile che altri due fattori abbiamo frenato i Romani dall’intervenire più pesantemente contro Spartaco: l’ambizione e l’avidità. La gloria era l’ossigeno della politica romana, ma in un’operazione di polizia contro dei criminali c’era poco da guadagnare. Una guerra di schiavi, dice un romano, è «vile e non degna»3. Ci si poteva consolare con il saccheggio, ma in questo caso era impensabile: tutti gli Italiani a sud della Pianura Padana erano cittadini romani, e i soldati romani non potevano saccheggiare il loro stesso paese.
Poiché stavano rispondendo a un tumultus (emergenza), i Romani non fecero una leva ordinaria di truppe nel Campo Marzio (Campo di Marte) fuori dalla città: probabilmente dissero a Glabro di fare ciò che i comandanti romani erano soliti fare in un’emergenza, cioè reclutare truppe per strada mentre marciavano verso sud.
Probabilmente le truppe di Glabro non erano neanche vagamente le migliori di cui Roma disponesse: quelle stavano già combattendo in Spagna e in Oriente, dove c’era bottino a iosa, allori da mietere e grandi generali alla testa degli uomini. Certo, l’Italia non era stata privata dei suoi migliori soldati: i veterani di Silla, per esempio, rappresentavano un contingente esperto, e si potevano trovare, tra l’altro, a Pompei come ad Abella o fuori Capua. Ma probabilmente non si sarebbero arruolati per aiutare uno sconosciuto a riportare degli schiavi in catene. Glabro doveva accontentarsi di quello che poteva trovare.
Perciò l’esercito di Glabro probabilmente non era più di una milizia territoriale. Tuttavia nessun esercito romano in marcia passava inosservato: il luccichio delle armature di maglia e del bronzo o degli elmi di ferro catturava l’attenzione quando i soldati passavano in fila. Lo sferragliare dei carri di rifornimenti e il muggito dei buoi che li tiravano riempiva l’aria. E poi c’erano i singoli soldati.
Un alfiere, circondato da trombettieri, portava il simbolo della legione, un’aquila d’argento su uno stendardo (ovvero un’asta). Anche ogni centuria (un’unità di 80 uomini) aveva il proprio stendardo, una lancia decorata con dischi e corone, portato da un alfiere vestito in modo pittoresco: il suo elmo era decorato con una pelle animale.
Davanti al littore, poi, marciavano sei uomini chiamati littori, che avevano il ruolo di assistenti di tutti i più alti ufficiali di Roma. Erano uomini forti: ognuno portava i fasces, un fascio di canne legate con nastri che simboleggiava il potere di comandare. Fuori dai confini della città di Roma, i fasci erano legati attorno a un’ascia, che significava il potere di vita e di morte.
E così il pretore e i suoi uomini marciarono, seguendo i ribelli fino al Vesuvio, e si accamparono, probabilmente ai piedi della montagna. Glabro decise di non attaccare il nemico, che era sulla cima. Questo potrebbe sembrare un eccesso di prudenza, ma il terreno favoriva i difensori. Solo una strada portava in cima al monte ed era troppo aspra e stretta per poter schierare una legione. Non c’era un luogo dove collaudare il nuovo esercito; Glabro preferì chiudere il nemico e prenderlo per fame, mettendo delle guardie sulla strada per impedire una sortita.
Non era un piano particolarmente fantasioso o sicuro, ma avrebbe potuto funzionare, se solo i Romani avessero tenuto alta la guardia. E invece lasciarono l’iniziativa a Spartaco, che decise di attaccare l’accampamento romano. Come ogni buon comandante, Spartaco attinse alla propria esperienza per ideare un piano di battaglia. Questa esperienza, ricca e complessa, gli sarebbe tornata molto utile, lì sul Vesuvio e anche in seguito.
In quanto trace, Spartaco aveva ricevuto in eredità l’arte della guerra. In particolare, la Tracia era specializzata in fanteria leggera, cavalleria, stratagemmi e guerra non convenzionale. Omero la considerava una nazione di cavalieri4, Tucidide rispettava i loro pugnali5, i Romani temevano le loro armi lunghe. La Tracia aveva inventato i peltasti, i rapidi e mobili fanti armati alla leggera che combattevano da vicino con un pugnale o da lontano con un giavellotto. Erano maestri nell’attaccare o difendere colline usando tattiche mordi e fuggi, tendendo imboscate, accendendo o spegnendo i fuochi degli accampamenti, facendo scorrerie al momento giusto contro formazioni di fanteria pesante, serrandosi in formazioni difensive contro la cavalleria. Nel loro manuale di guerra c’erano capitoli su finte, astuzie, trucchi e stratagemmi, e il saccheggio era un’abitudine nazionale.
Spartaco era nato e cresciuto nell’arte tracia della guerra, ma da adulto aggiun...

Indice dei contenuti

  1. Nota dell’autore
  2. Tavola cronologica
  3. Introduzione
  4. Evasione
  5. Vendetta
  6. Ritirata
  7. Fino alla morte
  8. Nota sulle fonti
  9. I personaggi principali
  10. Ringraziamenti