Intervista sul potere
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Intervista sul potere

  1. 288 pagine
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Intervista sul potere

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Guerra e politica, Oriente e Occidente, religione e potere, libertà e giustizia: sono alcuni dei temi che troveremo in questa Intervista curata da Antonio Carioti. Partendo dall'esperienza del mondo classico per giungere fino all'attuale crisi delle cosiddette democrazie, Luciano Canfora mette in campo la sua competenza di conoscitore dell'antichità nonché la sua passione di intellettuale alieno dai luoghi comuni del pensiero unico. I suoi giudizi non risparmiano neanche ciò che un tempo si chiamava la sinistra e che dalla caduta del comunismo a oggi sembra smarrita al rimorchio di un'inquietante degenerazione oligarchica.

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Informazioni

Anno
2013
ISBN
9788858108949
Argomento
Economics

Capitolo 1. Tra Tucidide e Stalin

D. In una conversazione tenuta nel 1985, lei ricordava di essersi interessato di politica sin da ragazzo, anche per via dell’ambiente famigliare in cui era cresciuto. Suo padre Fabrizio era stato esponente del Partito d’Azione durante la guerra. Poi che evoluzione aveva avuto?
R. Apparteneva al movimento antifascista di Giustizia e Libertà. Dal 1943 in avanti militò nel Partito d’Azione e partecipò al congresso del Cln di Bari. Nel dopoguerra il Pd’A si divise: la parte guidata da Emilio Lussu confluì nel Partito socialista, mentre quella capeggiata da Ugo La Malfa aderì al Partito repubblicano. Mio padre fu tra coloro che si unirono ai socialisti. Erano gli anni del Fronte popolare, con un’alleanza tra Psi e Pci talmente stretta che si poteva ritenere più conseguente iscriversi al Partito comunista piuttosto che rimanere in una forza fiancheggiatrice. In realtà la situazione era più complicata, ma mio padre seguì quel tipo di percorso intellettuale e approdò nel Pci, senza peraltro divincolarsi mai da un impianto fortemente storicistico di matrice crociano-hegeliana, che solo fino a un certo punto poteva andare d’accordo con il materialismo dialettico professato dai comunisti di allora.
D. Fra l’altro sua madre era la sorella di Michele Cifarelli, un altro ex azionista, che però aveva seguito La Malfa nel Pri.
R. Sì, è una storia famigliare abbastanza interessante, perché riflette la tenuta dell’alleanza antifascista messa alla prova dalla guerra fredda e dallo scontro frontale, nelle elezioni del 1948, tra il Fronte popolare e la coalizione centrista a guida democristiana. Fu una grande frattura, che influì su molti percorsi individuali, ma in diversi casi non riuscì a spezzare rapporti di amicizia che si erano formati nel tempo. Pensiamo a La Malfa e al comunista Giorgio Amendola. Serbarono un rapporto dialettico, ma anche di cordialità, di franchezza e di stima reciproca, fra gli alti e bassi di una situazione concreta che era prevalentemente conflittuale. L’uno cercava di fare la lezione all’altro. E in questi casi è fortunato chi muore in tempo per non avere torto di fronte agli sviluppi della storia.
D. Oltre alla famiglia, immagino che anche la scuola abbia influenzato la sua formazione.
R. Frequentavo il liceo classico «Orazio» di Bari, che dai ministri democristiani era chiamato «il Cremlino» per la presenza di tre o quattro docenti comunisti, uno dei quali era mio padre, che avevano una certa influenza sugli allievi. Nel corso degli studi mi accadde di incontrare personalità notevoli. Per ragioni generazionali si trattava di docenti che si erano impegnati politicamente nel cruciale biennio 1943-45.
D. Per esempio?
R. Al liceo chi insegnava italiano e latino nella sezione che io frequentavo era un fine letterato, Michele D’Erasmo, che aveva operato alla Radio di Bari. Una emittente che, nei mesi del cosiddetto «governo di Brindisi» (dopo la fuga del re da Roma nel settembre 1943), era la più importante dell’Italia non occupata dai tedeschi. Del resto già a metà degli anni Trenta il fascismo, e per l’esattezza Galeazzo Ciano (ancora sottosegretario), aveva potenziato Radio Bari come emittente rivolta verso il mondo arabo. Gli Alleati controllavano ogni testo che veniva trasmesso da Radio Bari, esercitavano una censura soprattutto verso i partiti antifascisti, appena ricostituiti, ma ancora nel limbo. Chi leggeva i testi alla radio faceva allora la formativa esperienza di vedersela quotidianamente con la censura. Altra figura interessante di docente era l’insegnante di storia e filosofia, il quale, in quanto componente del Cln di Como, aveva avuto parte nella cattura e nell’esecuzione di Benito Mussolini il 27-28 aprile 1945. Era il fiorentino Renato Scionti, la cui formazione di militante aveva comportato anche una tappa negli Stati Uniti, prima della guerra. Notevole la sua capacità di dialogare alla pari con gli allievi: era quanto di più antiautoritario si possa immaginare, in tempi nei quali ciò non era proprio di moda nelle scuole.
D. E l’università?
R. Ho avuto la fortuna di frequentare la facoltà di Lettere e filosofia di Bari nel momento del suo massimo prestigio e quando era in atto, dopo gli incerti esordi del dopoguerra, un’opera di svecchiamento e di adeguamento alle realtà più avanzate. Penso alla presenza di Carlo Ferdinando Russo, giunto a Bari giovanissimo libero docente di Filologia classica, che aveva studiato a Pisa con il grande Giorgio Pasquali e a Colonia con Günther Jachmann, uno dei massimi filologi analitici. Russo portò a Bari una ventata di aria nuova. Tra l’altro, ha avuto il grande merito di salvare la rivista «Belfagor» nel 1961 alla morte del padre Luigi, studioso di grande prestigio, che l’aveva fondata nel 1946. L’editore D’Anna voleva chiudere, ma Russo la propose a Olschki e riuscì a creare un comitato direttivo composto di accademici illustri: Delio Cantimori, Eugenio Garin e Roberto Ridolfi. Così la rivista proseguì e Russo, che ne era l’anima, ne divenne più tardi direttore: l’ha guidata per oltre mezzo secolo e ha deciso di chiuderla con il numero del novembre 2012. Io stesso fui segretario di redazione di «Belfagor» dal 1967 al 1974.
D. Lei si laureò in Filologia?
R. No, in Storia antica: quello era il mio interesse principale. Ero del resto influenzato dal mito di Plinio Fraccaro, uno studioso dell’università di Pavia che era stato insegnante di mia madre: un antifascista, repubblicano storico.
D. Chi era il suo docente di Storia antica a Bari?
R. Ettore Lepore. Era stato allievo di Luigi Pareti, studioso valido e convinto fascista, autore di una enorme Storia di Roma e del mondo romano per la Utet. Lepore, libero docente come Russo, era un attento conoscitore delle correnti più moderne della storiografia, specie anglosassone. Da lui ho imparato l’interesse precipuo per la prosopografia, la consapevolezza dell’importanza che avevano i legami famigliari e di clan nelle società antiche. È un filone di ricerca che nasce a fine Ottocento e viene sviluppato ampiamente nella monumentale enciclopedia dell’antichità Pauly-Wissowa (iniziata nel 1893 e terminata dopo un secolo), per la quale Friedrich Münzer, un ebreo poi vittima della Shoah, scrisse le voci biografiche di innumerevoli personaggi della Roma repubblicana, un lavoro poi confluito nel suo libro Partiti nobiliari e famiglie nobiliari nella Repubblica romana.
D. Quali novità emergevano da quelle ricerche?
R. Il superamento della visione modernizzante dei partiti politici operanti nelle società antiche. Si sottolineava, viceversa, la loro natura di formazioni arcaiche, legate alle stirpi, alle grandi famiglie, ai clan. A tal proposito la documentazione romana è immensa. Ma studiosi inglesi come Raphael Sealey e Henry Theodore Wade-Gery hanno esteso questa lettura anche al mondo ateniese: una grande novità rispetto a certe rappresentazioni dei gruppi politici greci concepiti come partiti novecenteschi. Lepore teneva sull’argomento dei corsi molto belli, che mi influenzarono profondamente. Se posso avere l’ardire di diagnosticare me stesso, il mio interesse per l’elitismo e le sue implicazioni, dall’antichità al giorno d’oggi, nasce proprio allora, dall’insegnamento di Lepore. Non a caso, quando fondai la rivista «Quaderni di storia», nel 1974, aprimmo subito con una discussione sul tema «Storia antica e teoria delle élite».
D. Qual era l’argomento della sua tesi di laurea?
R. La creazione della provincia di Siria da parte di Pompeo. Il punto interessante della vicenda era la fragilità della ellenizzazione di un’area che aveva subito la conquista macedone di Alessandro Magno: c’è una dialettica tra la società indigena, a cui appartenevano anche gli Ebrei, e lo strato greco-macedone, di cui i Romani si fanno protettori. Ma la struttura che creano è fragile, tanto più che è insidiata dalla pressione del vicino regno dei Parti, che trova rispondenza nella popolazione siriaca. Erano i temi studiati da Karl Julius Beloch, che aveva letto le conquiste di Alessandro alla luce del colonialismo moderno, specie britannico. Un colonialismo che crea un ceto superiore dominante, anche illuminato, ma che non riesce a fonderlo con le popolazioni sottomesse: una crosta che prima o poi si sgretola. Un’idea che a me sembrava feconda nello studio della Siria romana.
D. Come si avviò alla carriera accademica?
R. Terminata la tesi, frequentai i corsi di Filologia classica che teneva Russo. A volte si trattava di seminari ristretti, cui partecipava una decina di persone. Potei così avvicinarmi a un metodo d’indagine, quello della critica testuale, che avevo sempre considerato con grande deferenza, ma che praticato nel vivo era un’altra cosa. Ciò m’indusse a imprimere una svolta ai miei studi. Dovevo diventare assistente di Storia antica e invece lasciai perdere quel posto. Andai per qualche tempo alla Scuola Normale di Pisa, poi tornai a Bari e divenni assistente di Greco. Quindi vinsi la libera docenza e insegnai varie discipline, a cominciare dalla Papirologia, fino ad approdare alla Filologia classica.
D. Tra i professori di Lettere a Bari c’era anche Ambrogio Donini, storico delle religioni e importante dirigente comunista.
R. Era un libero docente. Non ebbe mai una cattedra, anche perché non aveva avuto il tempo di vincere un concorso. Poco prima dell’esilio, giovanissimo, aveva ottenuto la libera docenza in Storia del cristianesimo antico. Donini era stato allievo di Ernesto Buonaiuti, ex sacerdote e figura eminente del modernismo italiano: nelle sue memorie Donini ricorda che andò a trovarlo, quando fu a Roma in missione politica clandestina per conto del Pcd’I, e il maestro, impaurito, gli disse di non farsi vedere più, perché temeva che frequentare un sovversivo ricercato avrebbe peggiorato la sua già difficile situazione. Comunque Donini, nato nel 1903, era una sorta di enfant prodige, tanto che gli fu concesso di presentarsi alla libera docenza e vincerla nel 1926, subito dopo la laurea, senza aspettare i cinque anni che di regola dovevano trascorrere. Ma il suo impegno politico lo portò presto all’estero, dove fu un dirigente comunista di altissimo livello.
D. Eppure di solito non viene considerato tra le figure di maggior peso.
R. Più studio le vicende degli anni Trenta e più mi rendo conto che Donini fa parte, con Palmiro Togliatti e Ruggero Grieco, del trio che guida il centro estero del Pcd’I. Egli è un punto di riferimento anche per Piero Sraffa, il grande economista di Cambridge amico personale di Antonio Gramsci: in una sua lettera del 1937 si vede che Sraffa mette Donini e Grieco sullo stesso piano. Quando scoppia la guerra, nel 1939, sono Donini e Giuseppe Berti che ricevono la direttiva di andare negli Stati Uniti e non a Mosca. A New York Donini venne anche arrestato per immigrazione clandestina e nelle sue memorie racconta che fu liberato per intercessione di Eleanor Roosevelt, mentre Gaetano Salvemini si rifiutò d’intervenire in suo favore, perché nella Mazzini Society salveminiana c’era una forte componente di anarchici, molto ostili ai comunisti dopo lo scontro cruento di Barcellona nel 1937. I conflitti tra i diversi gruppi antifascisti erano talmente acri che non mi pare ci sia motivo di dubitare di questa notizia.
D. Che attività svolge Donini negli Stati Uniti?
R. Riprende le pubblicazioni della rivista teorica del Pcd’I, «Lo Stato Operaio», e s’inventa «L’Unità del Popolo», un settimanale italo-americano fiancheggiatore dei comunisti, scritto un po’ in italiano e un po’ in inglese, diretto formalmente da un personaggio dimenticato che si chiamava Gino Bardi, ma di fatto confezionato da lui e da Berti.
D. Quando torna Donini in Italia?
R. Nel 1945 inoltrato. E nel 1947 viene nominato ambasciatore in Polonia, dove rimane circa un anno. Inoltre fa valere la sua libera docenza e ricomincia a insegnare alla Sapienza di Roma, con incarichi da rinnovare ogni anno. Non ha mai avuto una cattedra stabile. E nel 1960, la facoltà di Lettere di Roma decise di non rinnovargli l’incarico, forse per motivi politici, visto che era stato in prima fila nei moti contro il governo Tambroni del luglio di quell’anno. Portava un occhio di vetro e durante gli scontri di Porta San Paolo gli era caduto a terra, ma lo aveva recuperato e se lo era rimesso nell’orbita con assoluta freddezza: il poliziotto che era davanti a lui quasi svenne per l’impressione. È un episodio che raccontava spesso.
D. Dunque fu vittima di una rappresaglia politica?
R. È probabile, perché tra l’altro era stato il primo direttore dell’Istituto Gramsci. Ma c’era anche un altro problema. La produzione postbellica di Donini, dopo un enorme intervallo di militanza politica in cui aveva inevitabilmente trascurato gli studi, era di carattere per lo più divulgativo. I suoi Lineamenti di storia delle religioni sono una sintesi interessante, ma niente di più. Davanti a un’accademia non benevola, quella del divulgatore è una posizione vulnerabile. Per giunta, a molti appariva inaccettabile che un non clericale, anzi un ateo materialista, insegnasse Storia del cristianesimo. E così lo esclusero.
D. Come arrivò Donini a Bari?
R. Merito di Mario Sansone, il nostro preside. Professore di Letteratura italiana, socialista ma molto legato all’insegnamento di Croce, faceva di tutto per rafforzare la facoltà portando a Bari docenti di valore. All’incarico a Donini si oppose però in modo ferreo il latinista Virgilio Paladini, studioso di buon livello e fervente cattolico, che gli rimproverava di non conoscere il dogma dell’Immacolata Concezione. Non so dove, in effetti, il povero Donini aveva collegato quel dogma alla maternità virginale di Maria, mentre esso si riferisce al fatto che la stessa Maria era stata concepita dai suoi genitori senza peccato originale. Si era indubbiamente sbagliato, anche se in fondo lui insegnava Storia del cristianesimo antico e poteva anche avere le idee un po’ confuse su un dogma proclamato nel 1854. Sta di fatto che Paladini piantò una grana tremenda: ci volle una battaglia memorabile in Consiglio di facoltà per dare l’incarico a Donini. E i guai non erano finiti.
D. Che cos’altro accadde?
R. Il Movimento sociale di Bari ritenne che Donini venisse a inquinare una facoltà in cui l’insegnamento di Storia del cristianesimo era sempre stato mutuato dalla facoltà di Magistero, dominata dai clericali. In effetti fino a quel momento il docente era stato padre Giuseppe Ricciotti, un marcantonio con una grande chioma bianca, autore di una ponderosa Vita di Gesù pienamente in linea con il credo cattolico. Il Msi dichiarò che bisognava impedire all’ateo Donini d’insegnare a Bari e fece capire che avrebbe mobilitato i suoi attivisti contro di lui. A loro volta i comunisti baresi si misero in allarme. E la prima lezione di Donini, cui assistetti personalmente perché volevo frequentare quel corso, si svolse in un’aula stracolma di nerboruti militanti del Pci, incaricati d’intervenire se qualcuno avesse disturbato. Fu una lezione efficace, che si svolse in un’atmosfera tesa e con un pubblico che Croce avrebbe definito «allotrio». Poi la vicenda si sdrammatizzò e Donini proseguì nel suo insegnamento senza problemi.
D. Com’era considerato dagli studenti?
R. Bene, perché portò una ventata innovativa rispetto alla visione apologetica di Ricciotti e mostrò sempre una grande dedizione all’insegnamento, svolgendo frequenti esercitazioni sui testi greci della Bibbia. Trovai le sue lezioni molto interessanti. Ogni tanto, dato che la disciplina era Storia del cristianesimo (l’aggettivo «antico» restava sottinteso), faceva corsi anche su vicende recenti, come i movimenti messianici dell’Ottocento e in particolare la figura carismatica di Davide Lazzaretti. C’è da d...

Indice dei contenuti

  1. Capitolo 1. Tra Tucidide e Stalin
  2. Capitolo 2. Cittadini e guerrieri
  3. Capitolo 3. Oriente e Occidente
  4. Capitolo 4. Monoteisti e pagani
  5. Capitolo 5. Istruzione e libertà
  6. Capitolo 6. La ricchezza e il numero
  7. Capitolo 7. Élite e popolo
  8. Bibliografia
  9. Gli Autori