Il linguaggio
eBook - ePub

Il linguaggio

Storia delle teorie

  1. 216 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Il linguaggio

Storia delle teorie

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

Con un intreccio di teoria e storia, dai primordi della riflessione greca sul linguaggio fino ai dibattiti in corso, in una nuova formula didatticamente più agile, il volume ricostruisce la tradizione occidentale della filosofia del linguaggio nella duplice prospettiva antropologica e cognitiva.Bibliografia online

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Il linguaggio di Lia Formigari in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Filosofia e Lingua in filosofia. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788858121566

Capitolo quinto.
La filosofia delle lingue
dall’Umanesimo all’Illuminismo

5.1. Unità del linguaggio, pluralità delle lingue

Le parole di Agostino (§ 3.1), sulla felicità che si prova nella conoscenza delle lingue, esprimono il sentimento di appartenenza che nasce dall’uso di un idioma comune. Tale è la forza di questo sentimento che un uomo, dice ancora Agostino (De civ. Dei, XIX, 7), preferisce stare col suo cane piuttosto che con persone con cui non può parlare. È un buon avvio, questo, per interrogarci sull’autocoscienza linguistica degli intellettuali nel Medioevo latino.
Nel mondo antico e medievale è praticamente inesistente un’idea positiva della varietà linguistica. Il racconto della maledizione babelica non contribuiva certo a promuoverla. Anche l’invito di Agostino a studiare il senso delle parole sconosciute e impadronirsi di tutte le lingue può esser letto alla luce dell’ideale di ricomposizione dell’originaria unità del genere umano. Pure, per un buon millennio, prima e dopo l’anno mille, la civiltà europea è una civiltà multilingue in cui le relazioni tra volgari e latino sono molto complesse, e in cui il bilinguismo è la condizione naturale di ogni persona scolarizzata. Lingue d’uso erano anche il greco e l’ebraico, elencate accanto al latino come lingue sacre: parlata la prima negli insediamenti greci in Italia, la seconda da rilevanti minoranze nelle città d’Europa. Si pensi infine all’importanza delle opere filosofiche e scientifiche tradotte dall’arabo o dei testi greci ritradotti attraverso l’arabo: questa fondamentale lingua di cultura era anche una lingua viva negli scambi commerciali del Mediterraneo, e lingua di un mondo considerato obbiettivo di evangelizzazione anche forzata.
Non è difficile immaginare che una rete di rapporti interlinguistici fosse prodotta dalla contiguità geografica, dai traffici, dalle missioni diplomatiche, dalle vicende militari e religiose. Nell’Opus majus Roger Bacon raccomanda lo studio delle lingue proprio a fini pratici: per l’utilità negli scambi commerciali, nelle controversie giuridiche in paesi stranieri, per la stipula di trattati, per la pratica dell’evangelizzazione. Quanto alla competenza teorica, asserisce lo stesso Bacon che fra tutti i Latini che parlano lingue straniere ben pochi ne conoscono la grammatica e sono in grado di insegnarla. Gli stessi parlanti nativi non sanno spiegare «le ragioni e cause» della loro lingua (Opus tertium, X, 33-34). Un confronto tra lingue doveva tuttavia imporsi almeno nella pratica delle traduzioni. Come desumiamo ancora da Bacon, non mancano le osservazioni su quanto le lingue altre abbiano di irriducibile al criterio della latinitas: la proprietas d’una lingua (la sua specifica impronta, lessicale e prosodica) non vale per altre, ci dice (1897, I, p. 66). Autore fra l’altro di una grammatica greca, egli condivide però l’idea che la grammatica sia «una sola sostanzialmente in tutte le lingue, anche se varia accidentalmente» (Roger Bacon 1902, p. 27) e nelle analisi empiriche cerca conferma dell’unità di dialetti diversi nella «sostanza» di una sola lingua su cui concordano clerici et litterati (Roger Bacon 1902, p. 126). A Bacon dobbiamo anche una formulazione dei princìpi dell’arte etimologica, intesi a distinguere l’etimologia diacronica (derivatio) dalle etimologie speculative d’ispirazione isidoriana, che cercavano la ‘causa’ del nome. La pratica dell’etimologia è un altro campo in cui il confronto tra le lingue doveva imporsi.
L’idea dell’uso come criterio della lingua, che dominerà poi nella teoria e nella pratica degli umanisti, si affaccia già nel De grammatico di Anselmo con la distinzione tra linguaggio scientifico e linguaggio ordinario, semantica logica e semantica dell’uso. Nel De signis attribuito a Roger Bacon, l’uso è una modalità specifica di impositio, detta accidentale, diversa dall’imposizione espressa, con cui ad esempio si dà il nome nel battesimo o si delibera di chiamare una certa cosa in un certo modo. L’imposizione espressa è consapevole, e pertiene ai sapienti, «periti nell’arte dell’imporre». L’imposizione accidentale è tacita e sfugge all’attenzione dell’impositore stesso e degli astanti (De signis, 161, 1978, p. 132). L’imposizione accidentale coincide con l’atto stesso dell’enunciazione, estende e trasforma continuamente il lessico originario della lingua, assoggetta le parole a una continua transumptio, uno slittamento semantico grazie al quale «creiamo e rinnoviamo continuamente i significati delle parole» (ivi, 155, p. 130).
Caso eminente di imposizione espressa sono le lingue artificiali, per la cui costruzione Bacon espone le regole. Si parte da un numero di radici monosillabiche; da queste si deriva l’intero lessico imponendo le «voci primarie alle cose primarie e le secondarie, cioè derivate, alle cose secondarie annesse alle prime» (ivi, 156, p. 131). La ricetta è in buona sostanza la stessa che verrà proposta dall’enciclopedismo tardo-rinascimentale: una ramificazione di segni che rispecchia la ramificazione dei concetti (§ 5.1). Bacon elabora una rudimentale tipologia linguistica, e il latino risulta essere lingua tutt’altro che razionale, lontana com’è dal modello ‘artificialista’ («lingua latina valde deficit ab hac arte») cui si avvicina invece l’antica lingua anglosassone, più semplice «quanto al criterio di composizione». Anche i successivi progetti di lingue ‘filosofiche’ porranno la semplicità morfosintattica fra i criteri di perfezione.
L’idea di imposizione come intervento del locutore sulla lingua è molto importante. La corrente di studi semantico-grammaticali, rappresentata da autori più o meno contemporanei della prima generazione modista come Robert Kilwardby e appunto Roger Bacon (oltre che da molti anonimi maestri delle arti del trivio), si concentra infatti sugli aspetti pragmatici dell’enunciazione: sull’intenzione del locutore, sulla specificità semantica delle espressioni figurate, in breve su tutti i dispositivi interni e condizioni esterne degli atti di produzione e ricezione degli enunciati. Questioni di pertinenza della retorica vengono così introdotte nell’analisi grammaticale, che si trova a fare i conti con fattori prammatici pertinenti ai normali dispositivi della comunicazione, problemi posti dalle pratiche linguistiche della liturgia sacramentale, interrogativi circa l’efficacia dei segni magici e astrologici.
Tutto ciò deve farci diffidare delle nette dicotomie che si insinuano nelle ricostruzioni storiografiche a caratterizzare periodi, scuole o tendenze che si vogliano, peraltro legittimamente, distinguere (qui: logica/retorica; norma/uso; universalismo/storicità delle lingue, a rappresentare antagonisticamente la riflessione linguistica medievale e quella successiva, umanistico-rinascimentale). Si può tuttavia pensare che la dottrina dell’unità del linguaggio e dell’universalità della grammatica offrisse in generale un principio forte di spiegazione. L’accidentale varietà delle lingue non toglieva la loro unità sostanziale, assicurata, al di là del consenso dei dotti cui si riferisce Bacon, anche e soprattutto dalla struttura categoriale delle parti del discorso, presenti in ogni lingua secondo uno dei capisaldi della grammatica speculativa, e dal radicamento ontologico dei modi di significare. Che in una prospettiva del genere l’idea dell’unità linguistica potesse convivere con una descrizione naturalistica delle origini umane è attestato, fra i Modisti, da Boezio di Dacia. Questi dichiara di essersi occupato della questione della pluralità degli idiomi in uno scritto De animalibus; ma dovremo contentarci degli indizi offerti nella questione 16 del trattato sui modi di significare, dove si chiede se la grammatica sia innata. Come ogni altra specie animale, l’uomo è dotato di un proprio sistema espressivo. Anche uomini segregati in un deserto imparerebbero a comunicare, perché la loquela – quella loquela, sostenuta da quella struttura logico-grammaticale – è loro connaturata, così come altre lo sono per altre specie animali. Gli idiomi non possono dunque differenziarsi se non accidentalmente, cioè per quanto in essi è frutto di apprendimento, non per quanto è preordinato dalla natura. Le varianti idiomatiche sono il risultato della progressiva articolazione della materia fonica, di per sé «libera e indifferente alla significazione di qualsiasi concetto della mente» (q. 114, 85-86). Una prima impositio genera la voce significante, una seconda ne determina i modi di significare. Alla necessità naturale del sostrato materiale di ogni lingua (i suoni, connaturati all’uomo e in quanto tale eterni) subentra l’accidentalità dell’articolazione che genera la varietà delle lingue. Così ad esempio avviene che il genere dei nomi differisca in greco e in latino, che una lingua possieda l’articolo e l’altra no (ivi, 98-104).
Dante Alighieri nel De vulgari eloquentia dichiara di essere il primo a occuparsi del principio di variazione delle lingue. Certo il suo scritto è la prima sistematica descrizione di un volgare e un primo abbozzo di teoria dei volgari. Occuparsi di lingue locali significava porsi il problema teorico della variabilità delle lingue. Nella ricognizione dei dialetti italiani, Dante sottolinea non solo le differenze regionali, ma le varianti intraregionali, le differenze da una città all’altra e tra quartieri d’una stessa città. Queste varianti, spiega, sono causate da variazioni che si producono nel tempo in modo così impercettibile da non essere neppure registrate dai parlanti. La causa remota è indicata, com’era consuetudine, nella maledizione babelica. Per secoli questa sarà chiamata in causa ogni qual volta si descrive la diversità delle stirpi, la varietà di lingue e religioni e costumi, quando ci si propone insomma di sciogliere l’enigma antropologico dell’unità-nella-diversità del genere umano. Certo in molti casi si tratta di rinvii di prammatica. Tuttavia si può ben dire che nella filosofia della storia di tradizione giudaico-cristiana Babele non è intesa come facile principio di spiegazione empirica, ma piuttosto assunta a evento fondatore della storia profana, discrimine fra questa e la storia sacra, evento dunque a partire dal quale è lecita e plausibile una spiegazione empirica dei fatti umani. Anche Dante spiega la confusione degli idiomi come dimenticanza della lingua primigenia. Non essendo le lingue fondate nella natura, ma subordinate al generale consenso e ad accordi locali, l’uomo opera su di esse con l’instabilità e mutevolezza che è nella sua natura. Tutte le lingue condividono tuttavia una forma locutionis concreata nell’anima.
Il De vulgari eloquentia è un compendio delle coeve conoscenze di storia delle lingue. Si postula un idioma comune degli antichi popoli d’Europa, da cui si sarebbero sviluppati tre gruppi: le lingue germaniche, il greco, e quelle che oggi chiamiamo lingue romanze. Loro fonte comune è forse un volgare di cui il latino letterario è la forma grammaticalmente codificata. Il problema centrale dello scritto, come si sa, è di ricavare dalla molteplicità dei dialetti un ‘volgare illustre’. Per questo l’opera sta in qualche modo all’origine della cosiddetta ‘questione della lingua’, cioè del secolare dibattito sull’identificazione o formazione d’una lingua sovraregionale comune destinata alla comunicazione letteraria e scientifica: lingua aulica e curiale, cioè consacrata dall’uso della corte e dell’amministrazione. Questo rapporto di causa-effetto tra potere politico centralizzato e costituzione di una lingua di cultura è tuttora una chiave di lettura della storia dei volgari.
Lingua volgare è quella che spontaneamente impariamo dalla nostra nutrice. Accanto ad essa ci può essere una lingua secondaria, come il Latino, che si dice grammatica: lingua dotta, più stabile, acquisita (ma non da tutti), che accompagna (ma non in tutte le culture) la lingua naturale. Quanto al volgare illustre, non lo si può identificare con nessuno dei dialetti italiani, ma in tutti è presente: come la pantera, che non si riesce a localizzare pur avvertendone ovunque l’odore. Si tratta di costruirlo con l’opera di magistero cosciente dei doctores illustres. Dante civetta qua e là con la terminologia dialettica del tempo. Tutto ciò che è molteplice può essere ridotto all’unità di un genere. Così i volgari dovranno essere ridotti all’unità di un volgare illustre, che si realizza in ciascuno di essi dal più al meno, come Dio si manifesta dal più al meno nell’uomo o nell’animale o nel vegetale o nel minerale, ecc. e in nessuno si trova mai nella sua interezza. Nella cornice platonica Dante introduce una nozione antropologica destinata a una lunga storia: che ci siano per ogni comunità specifici elementi di identificazione, nei costumi, nelle leggi, nelle abitudini come negli idiomi (il ‘genio delle nazioni’, come si dirà con un’espressione divenuta luogo comune fra Sei e Settecento, il ‘genio della lingua’).
Tutto ciò appare tanto più importante se si guarda allo stadio di grammatizzazione all’epoca raggiunto dai volgari. Quando Dante scrive il suo trattato, la sola lingua finitima e affine ai volgari italiani che fosse stata oggetto di descrizione grammaticale era il provenzale. Solo a partire dalle grammatiche umanistiche dell’italiano e dello spagnolo ha inizio la produzione di grammatiche, lessici, manuali d’ortografia delle lingue moderne d’Europa, destinata a intensificarsi a partire dal Cinquecento. È l’avvio di un processo che coinvolge via via anche le lingue d’altri continenti, specie le lingue amerindie, descritte in numero sempre maggiore da missionari specialmente spagnoli. Baggioni (1997) data al Quattro-Cinquecento la prima «rivoluzione ecolinguistica»: una redistribuzione territoriale delle lingue dovuta alla sempre maggiore concorrenza dei volgari rispetto al latino nell’amministrazione, nella letteratura bellettristica e scientifica, nella comunicazione religiosa soprattutto a partire dalla Riforma protestante, e poi alla diffusione della stampa (la seconda rivoluzione ecolinguistica essendo quella con cui nell’Ottocento gli Stati tendono a omogeneizzare anche linguisticamente il territorio nazionale con la scolarizzazione di massa e la creazione di un’omogenea struttura amministrativa). L’acquisita coscienza della varietà linguistica non toglie peraltro la tendenza, diffusa nella filologia rinascimentale e tardo-rinascimentale, a postulare o ricercare l’unità originaria delle lingue. In questa tendenza ideologica (nostalgia della condizione edenica, ricordo del miracolo pentecostale, riscoperta della lingua-madre), paradossalmente, sono da ricercare alcune fra le radici del comparatismo che si proclamerà poi scientifico.
L’immagine di una radicale rottura tra la linguistica ottocentesca (‘scientifica’) e la tradizione di studi precedenti (‘prescientifici’), accreditata dai comparatisti, è oggi posta in dubbio. Gli studiosi hanno prodotto una quantità di dati che inducono a pensare piuttosto a una trasformazione interna di quella tradizione. Molti princìpi sviluppati dal comparatismo sono già tra i punti fermi della filologia dal tardo Rinascimento al secolo XVIII: l’esistenza di una protolingua da cui sarebbero derivati i principali gruppi linguistici dell’Europa e dell’Asia; lo sviluppo delle lingue in dialetti e di questi in lingue indipendenti; l’idea che, per accertare la parentela delle lingue, il confronto delle strutture grammaticali sia più importante della comparazione lessicale; l’idea che la validità di un’etimologia debba essere confermata da una qualche regolarità (‘analogia’) nella variazione fonetica. Filologia sacra e profana contribuiscono entrambe alla definizione di questi temi. Nella cultura umanistica si delinea, con Valla, la figura dell’interprete dei testi sacri come tecnico cui compete il restauro della lettera, la sua liberazione dalle superfetazioni posteriori. Nella Germania riformata come nella pubblicistica cattolica, la parte della lettera e dello spirito nella lettura dei testi sacri è oggetto di accese controversie. La critica biblica afferma che il testo sacro va sottoposto allo stesso metodo esegetico di ogni altro oggetto di filologia. Chi studia la Bibbia si trova a interpretare le più antiche testimonianze della storia: non sorprende dunque che opere come l’Histoire critique du Vieux Testament del francese Richard Simon (1680) si occupino dell’antropologia delle origini e avanzino ipotesi glottogenetiche.
Nel viluppo di osservazioni, riflessioni, speculazioni che è la storia della filologia dal tardo Medioevo fino ai primi dell’Ottocento pesa la tradizione teol...

Indice dei contenuti

  1. Istruzioni per l’uso
  2. Capitolo primo. Una mappa del territorio
  3. Capitolo secondo. Essere, pensiero, linguaggio
  4. Capitolo terzo. Storia naturale della parola
  5. Capitolo quarto. La filosofia del linguaggio da Boezio a Locke
  6. Capitolo quinto. La filosofia delle lingue dall’Umanesimo all’Illuminismo
  7. Capitolo sesto. Lingue, popoli, nazioni
  8. Capitolo settimo. Linguaggio e filosofia tra Otto e Novecento
  9. Capitolo ottavo. Lavori in corso