III. La censura di riforma e di inquisizione
L’Indice del 1564 accentuò il clima già suscitato da quello pubblicato dall’Inquisizione cinque anni prima. Per i lettori, esso significava che la lettura di tutti i testi posti nella lista dei libri proibiti era pericolosa e poteva essere condotta solo a proprio rischio. Per gli stampatori, significava che i libri in qualunque modo contemplati nell’Indice, anche quelli non espressamente menzionati ma solo sospettati di rientrare nei casi descritti dalle regole, divenivano un investimento rischioso. Il contrabbando certamente ci fu e produsse guadagni soprattutto nei campi della magia, dell’astrologia e della letteratura, che costituivano la parte meno pericolosa del commercio proibito, mentre si diffuse il fenomeno della copia a mano, particolarmente accentuato nel settore delle scritture magiche ma presente anche in materia di diritto, letteratura e filosofia. La magia, in effetti, si presentava come un sapere segreto trasmesso da Dio a saggi antichissimi quali Salomone o Ermete Trismegisto e dal fatto di essere vietata dalle autorità, di dover superare degli ostacoli e di arrivare in forma manoscritta traeva l’aura dalla quale derivava la sua autorità. Questo genere di libri fu dunque l’unico a risentire in maniera marginale del sistema di sorveglianza costruito alla metà del Cinquecento. Altra cosa divenne invece contrabbandare libri posti nella prima classe dell’Indice, i libri eretici che, oltre alle multe e alla scomunica, conducevano chi li possedeva a un processo dagli esiti incalcolabili. La situazione, a questo riguardo, è bene illustrata dal più importante caso di contrabbando avvenuto in questi anni: quello di Roberto Meietti, un libraio veneziano che trafficava attivamente libri proibiti importati dall’Europa settentrionale. Nel 1594 il Sant’Ufficio scoprì che la sua merce arrivava anche a Roma passando per Venezia, dove i frontespizi venivano sostituiti con altri dal titolo innocuo, e lo mise sotto sorveglianza facendo confiscare diversi carichi in tutte le parti d’Italia. Nel 1606, nel corso dell’Interdetto, egli fu impiegato dalle autorità veneziane per stampare “
” libri scritti in favore di Venezia e il Sant’Ufficio reagì scomunicandolo, vietando la sua intera produzione e dando incarico alle inquisizioni operanti sul territorio di confiscare qualsiasi libro proveniente dai suoi magazzini. Benché protetto dal governo della Serenissima, Meietti accusò il colpo e nel 1615 si riconciliò con Roma ottenendo l’assoluzione dalla scomunica. La sua attività non cessò del tutto ma risultò alla fine fortemente limitata.
Più consistente rimase invece il fenomeno dei libri stampati senza imprimatur. Anche a regime, l’istituzione del permesso di stampa fu lungi dal coprire la totalità delle stampe e lasciò sempre ampi varchi scoperti. Le ricognizioni effettuate finora sui frontespizi dei fondi antichi custoditi nelle biblioteche italiane segnalano un permesso di stampa presente nel 60% circa dei volumi ed è probabile che, nonostante l’esiguità del campione, il dato non sia lontano dai valori complessivi. Questa consistente elusione della censura preventiva tuttavia non è rivelatrice di stampe clandestine di libri posti all’Indice e tantomeno di stampe di libri eretici. Si tratta piuttosto di libri, spesso, ma non unicamente, di minor valore e poco prezzo, che non si sottoponevano alla trafila burocratica. Il mondo editoriale, infatti, che era sensibile alle opportunità economiche – spontanee o indotte dal potere poco importa – non solo non si arrischiava a stampare i libri messi all’Indice ma non pubblicava neppure quei libri che all’Indice sarebbero potuti stare. In effetti, se si compie il percorso inverso, se cioè si esaminano le edizioni di libri proibiti, si può constatare che le ristampe italiane cessarono con la messa all’Indice e gli autori eterodossi smisero di stampare o stamparono all’estero. I libri erasmiani di argomento religioso non furono più impressi a partire dal 1555. Il dispositivo relativo alla lettura della Bibbia in volgare contenuto nella IV regola dell’Indice tridentino – permesso di leggere una versione in volgare solo a persone fedeli e pie dietro autorizzazione dell’inquisitore e attestato del parroco – produsse due stampe seguite alla fine del concilio e poi il silenzio. Il messaggio arrivato a coloro i quali nella stampa dovevano investire i propri capitali fu che la spesa per un libro di così complicato smercio costituiva un investimento rischioso e sgradito. Di Petrarca figurava all’Indice solo un’edizione, allestita da Vergerio, di alcune rime anticlericali tratte dal Canzoniere. L’edizione di Vergerio tuttavia ebbe l’effetto di segnalare i sonetti antipapali del Canzoniere inducendo gli inquisitori a negare l’imprimatur alle edizioni che li contenevano e ad avere in sospetto tutta la raccolta di rime. Il risultato fu che del Canzoniere, che non era all’Indice, furono stampate solo tre edizioni contenenti i sonetti pubblicati da Vergerio, l’ultima nel 1573, mentre tutte le altre apparvero private delle tre rime. Anche così espurgato, il Canzoniere divenne un testo sospetto e, mentre nel Cinquecento ne furono tirate 157 edizioni, nel Seicento ne apparvero solo 17. Di fatto, per leggere Petrarca nel Seicento si richiedeva spesso il permesso alla congregazione dell’Indice o del Sant’Ufficio. Un destino analogo conobbe il Morgante e, con esso, molti testi letterari investiti dal biasimo delle autorità che entrarono nel campo della sorveglianza pastorale.
I libri condannati o sospetti vennero pubblicati all’estero. Le Rime di Petrarca furono stampate a Basilea nel 1582; le Novelle di Bandello vennero ristampate nel 1573 a Lione e nel 1740 a Londra; il Novellino di Masuccio Salernitano fu ripubblicato nel 1765 a Ginevra; le Facezie di Poggio Bracciolini riapparvero nel 1792 ad Amsterdam; le opere di Machiavelli furono stampate a Londra nel 1584 da John Wolf con la falsa data di Palermo. Del De vero et falso bono di Lorenzo Valla venne stampata un’edizione a Lovanio nel 1483, poi una a Parigi nel 1512, una a Basilea nel 1519 e poi di nuovo un’altra a Basilea nel 1543. Il suo De libero arbitrio fu stampato a Lovanio nel 1483, quindi ne furono tratte successive stampe a Basilea nel 1518, a Strasburgo nel 1522 e ancora a Basilea nel 1526. Dello stesso Valla, il De professione religiosorum fu pubblicato per la prima volta nel 1869 mentre il suo De falsa et ementita Donatione Constantini venne stampato per la prima volta da Ulrich von Hutten nel 1517 con una provocatoria lettera di dedica a Leone X. Il testo fu tradotto in tedesco nel 1520, in francese nel 1522 e in inglese nel 1525, ma fu tenuto accuratamente lontano dall’Italia. Roberto Bellarmino coronò il processo già sancito dalle stampe dando di Valla lo stesso giudizio riservato a Erasmo, giudicandolo cioè come un battistrada della Riforma. Dopo la stampa semilegale del De immortalitate animae condotta a Bologna nel 1516 e bruciata in piazza San Marco nel 1520, Pomponazzi pubblicò in Italia solo scritti di carattere strettamente tecnico, come il trattato De nutritione e un libro di argomenti meteorologici, ristampato al di qua delle Alpi nel 1563. Un trattato relativo a materie rilevanti sul piano religioso come il De incantationibus fu invece pubblicato postumo a Basilea nel 1556: poi tutto si spostò a Basilea e Parigi. Girolamo Cardano stampò a Venezia il Pronostico nel 1534 e il De malo usu medendi nel 1536: poi le sue stampe si spostarono a Basilea, Norimberga, Parigi e Lione. I grandi dialoghi filosofici di Bruno furono stampati a Londra e pure a Londra apparve nel 1619 la Istoria del Concilio tridentino di Sarpi, che per tutto il Seicento non poté essere ristampata neppure a Venezia, città di cui pure egli era consultore giuridico. In patria poté essere pubblicato solo il 6% delle sue opere, mentre un consulto ufficiale come Sopra l’ufficio dell’Inquisizione vi dovette apparire nel 1638 con falsa data di stampa.
E con la fine delle ristampe, i libri proibiti uscirono di scena anche quando ne sopravvisse qualche copia ben nascosta nel cassetto di qualche casa. Il vento che soffiò a partire dalla metà del Cinquecento riguardò solo in parte i libri protestanti. Come abbiamo visto, infatti, nell’Italia del XVI secolo la censura ecclesiastica acquistò anche la funzione di promuovere una riforma della cultura. Essa fu perseguita allora come parte di quella riforma dei costumi da tante parti invocata e posta a compito del concilio convocato a Trento.
Verso gli individui
La censura divenne così una parte della riforma della Chiesa promossa dal concilio di Trento. Per intendere tutta la portata di questo ruolo occorre tenere conto del fatto che, come era stata configurata nel tempo dalle istituzioni ecclesiastiche, la censura era un’attività dotata di effetti non soltanto sui libri ma anche sulle persone e ciò nel senso più stretto del termine: la disciplina dell’Indice si presentava cioè come una disciplina etica, dotata di conseguenze prima morali e poi penali sulle persone degli autori, dei lettori e degli stampatori. Entrambe le principali categorie maneggiate dalla censura ecclesiastica, la “censura” e l’“espurgazione”, mantenevano infatti una connessione con la morale e il diritto. Nel diritto canonico, la “censura” era una pena spirituale di foro esterno volta a correggere il peccatore. Essa era “medicina spirituale” che risanava la coscienza mediante un atto di pentimento. E come abbiamo visto, la più comune tra le censure, la scomunica, era la pena irrogata ai lettori di libri eretici e, di conseguenza, l’effetto prodotto dalla loro lettura. I decreti ecclesiastici di questi anni e il linguaggio corrente degli uomini di Chiesa continuarono infatti per lungo tempo a impiegare il termine “censura” nel senso della conseguenza penale prodotta dall’atto di scrivere o leggere un libro eretico. La scrittura o la lettura di un libro proibito producevano quindi, in coloro che lo scrivevano o lo leggevano, uno stato di peccato che veniva risanato mediante la confessione e l’assoluzione dalla scomunica. Di conseguenza, la censura libraria, l’opera di correggere il testo dai suoi errori per mezzo della penna, produceva lo stesso effetto ottenuto dalla censura penale o dalla penitenza, rimuovendo dal libro quella macchia e quell’errore che, letti, avrebbero generato colpa mortale o scomunica. I casi più importanti descritti dalle regole dell’Indice, l’eresia, la magia e il sortilegio, erano infatti i primi casi di scomunica riservata al papa dalla bolla In Coena Domini, ma anche gli altri casi contenuti nelle regole – divinazione, astrologia, falso, violazione della libertà ecclesiastica – erano peccata maiora, riservati di solito alla competenza del vescovo e oggetto di censura penale.
Anche l’“espurgazione” possedeva significati morali e giuridici. L’expurgatio era innanzitutto un rito canonico volto a lavare un certo imputato da un sospetto non provato e tuttavia infamante. Essa veniva decisa al termine dell’inquisitio, quando l’esame dei testimoni conduceva a una prova incerta, e consisteva in un giuramento eseguito dal sospetto di fronte al giudice e ai testimoni compurgatori, di solito tre, chiamati a garantire la veridicità dell’atto. Dal giuridico, il rito era trascorso nel morale dove l’expurgatio indicava l’atto di espiare e annullare i peccati, inducendo così i canonisti a distinguere tra peccati mortali, destinati alla pena definitiva dell’inferno, e peccati “veniali” o “quotidiani” oppure confessati e pentiti, destinat...