La via del lupo
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La via del lupo

Nella natura selvaggia dall'Appennino alle Alpi

  1. 208 pagine
  2. Italian
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La via del lupo

Nella natura selvaggia dall'Appennino alle Alpi

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Il lupo è tornato, riconquistando gli antichi territori. Se quarant'anni fa in Italia la specie sembrava prossima all'estinzione, oggi il vento ha cambiato il suo giro e i tempi difficili sono finiti. Quello scritto da Marco Albino Ferrari non è solo un sorprendente libro di etologia, ma anche un inedito diario di viaggio in luoghi marginali, misteriosi, affascinanti: il grande corridoio ecologico della nostra Penisola dove la natura riassorbe i vecchi sentieri, i terrazzamenti, gli antichi paesi abbandonati. Claudio Visentin, "Il Sole 24 Ore"Ferrari parte dai Monti Sibillini e risale mezza Italia, raccontando il cammino del lupo che dall'Umbria e dalle Marche arriva fino in Valle d'Aosta percorrendo la dorsale appenninica e le Alpi occidentali. Attraversando le Foreste Casentinesi, le zone dei Cento Laghi, le Alpi Marittime e la Valsavarenche, Ferrari incontra uomini e donne che per mestiere e con passione hanno seguito la storia del lupo in Italia per molti decenni. "L'Indice"

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858113011

1. La prima traccia

Soltanto l’occhio esperto riesce a riconoscere con certezza l’orma del lupo sulla neve. Il lupo ha quattro dita nelle zampe posteriori e cinque in quelle anteriori, di cui una, il pollice, sospesa verso l’alto. Nella parte inferiore, dove la zampa poggia a terra, si trova un cuscinetto plantare a forma triangolare, duro come un callo, al quale fanno da contorno i piccoli ovali delle dita. Ma non è dalla fisionomia dell’impronta, così simile a quella di un cane di grossa taglia, che si riscontra la presenza del lupo. È dall’andamento delle tracce, è dal modo in cui l’animale si è mosso nell’ambiente che arriva il messaggio. Non sull’orma bisogna concentrarsi, ma sul comportamento dell’animale. Per distinguere le tracce giuste – e in pochi lo sanno fare – bisogna insinuarsi nella mente del lupo.
Era una sera di fine febbraio, intorno alle quattro e mezza, quando per la prima volta trovai quelle orme. Si trattava di una traccia nella neve che, dal punto sullo spallone della montagna che avevo appena raggiunto, riuscivo a distinguere per almeno cento, centocin­quanta metri correre nel paesaggio imbiancato, prima di sparire oltre un’ondulazione del pendio. La traccia appariva come una successione di buchi profondi che filava dritta sul manto nevoso: un passo davanti all’altro, senza sbandamenti o esitazioni. Mi accovacciai per guardare meglio. Le orme non sembravano fresche. La neve non era più quel morbido e vaporoso ammasso di fiocchi appena caduti, quando anche una foglia, scivolando sulla superficie, avrebbe lasciato la sua traccia sottile. Era neve trasformata. Dopo giorni di tiepido sole, il manto nevoso si era sciolto sullo strato superiore durante le ore più calde, per poi gelare di nuovo la notte: così, per giorni. Ora si presentava ricoperto di una crosta ghiaccia­ta, compatta e resistente, che il peso di un animale certo non avrebbe potuto sfondare. Le orme, non c’era dubbio, dovevano risalire almeno a cinque o sei giorni prima. Ma l’aspetto più curioso – e allo stesso tempo più inquietante – stava proprio in quell’andamento costante della traccia, in quel passo deciso, sicuro e senza esitazioni che l’aveva disegnata. L’animale doveva aver conosciuto bene la sua destinazione. Era veramente il lupo ad averla lasciata?
Le mie scarse conoscenze, purtroppo, non potevano fornirmi una risposta certa.
Il giorno stava finendo. Ma la tentazione di vedere dove conducessero quelle tracce era troppo forte per tornare subito sui miei passi. Mi guardai intorno e decisi di continuare verso il Colle Tosto, a 1777 metri. Là puntavano le orme. Una mezz’ora, mi diedi. Poi, poco prima del tramonto, raggiunto o no l’obiettivo, sarei tornato con le ultime luci.
A differenza del cane, che in campo aperto spesso avanza come non avesse meta – sbanda, accelera, rallenta, torna sui suoi passi, devia dal senso di marcia, gira su se stesso per poi riprendere a camminare –, il lupo si sposta mantenendo una direzione costante, rigorosa, filante, seguendo un’ideale pista rettilinea sul terreno, per noi invisibile, ma per lui, evidentemente, certa. Il capobranco, insieme ai componenti della famiglia, conosce ogni minuta porzione del suo territorio e, quando si sposta, sa dove andare. Si sposta seguendo schemi a raggiera: nel centro del territorio è posto il rifugio principale e tutt’intorno le diverse zone di caccia e i rifugi secondari.
Il gruppo avanza silenzioso, al piccolo trotto. Tutti su una stessa linea. Il maschio dominante in testa, le spalle ondeggianti, le orecchie dritte, il muso rivolto al terreno, il fiato che esce dalle narici nell’aria gelida fino a infrangersi sulla superficie della neve. Il suo passo è leggero, flessuoso, elegante. Quando la coltre nevosa è alta, ognuno nel gruppo posa le zampe sulle impronte lasciate da chi lo precede, così da formare un’unica traccia, che non permette di capire quanti esemplari siano passati. Una traccia sola, come fosse lasciata da un solo quadrupede. Ma ci sono casi in cui la stessa traccia si può dividere. Ad esempio in prossimità di una curva imposta da un cambio di programma, da qualche ostacolo, un masso, un avvallamento. Chi segue, intuendo la nuova direzione presa dal capofila, taglia disegnando un arco più stretto per poi ricongiungersi alla linea principale. Oppure la scia può dividersi quando in testa al branco ci si dà il cambio per battere la traccia nella neve alta: le impronte allora si aprono formando un’asola, che poi si richiude fino a disegnare di nuovo una linea continua. Ed è proprio in queste occasioni, osservando le tracce aprirsi e chiudersi, virare all’improvviso e poi riunirsi, che si può provare a contare il numero minimo dei componenti del branco.
Camminavo dunque accanto alla traccia, posando il piede con leggerezza, nel tentativo di non sfondare la crosta. La neve ghiacciata in superficie sembrava tenere, anche se a ogni pochi passi, di colpo, cedeva inghiottendo la gamba fin quasi al ginocchio. Sulla sinistra, nella luce calante, le rampe innevate del Redentore chiudevano l’orizzonte a circa 2400 metri, e iniziavano a tingersi di rosa prendendo sfumature di differente gradazione nelle pieghe del pendio. Sulla destra si vedevano montagne tonde e bianche, di cui ignoravo il nome, sovrapporsi fitte una all’altra come schiene di un gregge. Il vento arrivava con raffiche leggere e improvvise, ma nessun suono, nessun fischio, lo annunciava. Non c’erano alberi, fili tesi o spigoli vivi della roccia che lo facessero fischiare. Il pendio morbido, ondulato, calvo, sembrava (e in parte lo era) levigato da quello stesso vento che da milioni di anni non smette di spirare.
Continuavo a camminare seguendo le misteriose tracce e ascoltavo il rumore come di vetri calpestati che il mio passo produceva sulla neve ghiacciata. La strada asfaltata che tagliava di netto il Gran Piano di Castelluccio di Norcia e i fitti boschetti di pino nero che punteggiavano i pendii, piantati negli anni Cinquanta lungo i fronti valanghiferi e nelle zone di sovrascorrimento d’acqua per implementare la tenuta del suolo, erano gli unici elementi del paesaggio che attestassero il nostro tempo. Su tutto il resto, lungo i canaloni che si staccavano dalle creste sommitali, negli orizzonti dell’Appennino imbiancato, non appariva segno lasciato dall’uomo.
Più avanti, raggiunto un ennesimo promontorio del pendio, vidi la traccia seguita fin lassù continuare rettilinea verso l’ignota meta. Ancora qualche centinaio di metri, mi dissi. E proseguii.
Con le mie modeste nozioni teoriche, quella sera di fine febbraio continuavo a chiedermi a quale animale appartenessero quelle orme. Se fossero state di lupo, quanti esemplari erano passati lungo quella traccia? Un branco? Una coppia? Un lupo solitario in dispersione? Sapevo bene soltanto una cosa: che imbattersi nelle tracce dei lupi non era un evento affatto eccezionale sui Monti Sibillini. Da quelle parti vivono circa dieci famiglie riproduttive che, specie durante la notte, si muovono in continuazione nei loro reciproci territori.
I Monti Sibillini – e in questo stava il motivo che mi aveva portato lassù quella sera – sono stati uno dei luoghi fondamentali nella storia del lupo in Italia: sono stati, negli anni Settanta, un caposaldo agli estremi dell’areale italiano. Il punto più a nord di tutto l’Appennino dove aveva resistito il Canis lupus italicus. Quarant’anni fa i lupi erano ormai prossimi all’estinzione, e proprio sui Sibillini, dalle parti di Castelluccio di Norcia, si trovavano gli ultimi esemplari. Del tutto scomparsi in Francia, in Svizzera, in Germania, in Austria e nell’Italia settentrionale (in Piemonte l’ultimo esemplare era stato abbattuto nel 1923, vicino a Mondovì), solo pochi branchi residui venivano segnalati tra la Sila e i Sibillini. Il lupo, ancora considerato secondo l’antico retaggio un animale pericoloso, era stato bandito dallo Stato. La caccia al lupo veniva incoraggiata. E persino nelle aree protette, come il Parco Nazionale d’Abruzzo, era regolarmente abbattuto dagli stessi guardaparco perché non cacciasse i camosci. Poi il vento cambiò.
Favorito dal progressivo spopolamento delle montagne, dal rilascio di animali a scopo venatorio e dall’entrata in vi­gore di una nuova legislazione di tutela, il lupo trovò le condizioni per riprodursi e rioccupare gli antichi territori. Il ritorno del lupo è stato dunque uno degli esiti collaterali dello sviluppo economico italiano. È da quel momento, ormai quarant’anni fa, che dai Sibillini si è messo in cammino verso nord. Generazione dopo generazione, ha intrapreso un lungo spostamento verso settentrione lungo la dorsale montuosa ripopolando progressivamente le foreste appenniniche e le Alpi occidentali. Oggi la sua traccia, la via del lupo, è una fascia di territorio larga qualche decina di chilometri che segue tutta la catena appenninica. Una via naturale attraverso luoghi ormai semiabbandonati.
Per i naturalisti, l’Appennino – proprio nei luoghi dove il lupo ha lasciato la sua traccia – rappresenta il grande corridoio­ ecologico della penisola italiana. È una spina dorsale con capacità di trasferimenti e di connettività unica in Europa.
Ma la cosa interessante è che per trovare ambienti ritornati selvatici lungo l’Appennino non si è costretti a salire in alto, tra praterie d’alta ­quota, ghiaioni e creste sommitali. Al contrario: è nella zona di media montagna, e addirittura lungo le fasce collinari, che si concentrano le aree di maggior valore naturalistico. A quelle altezze sta avanzando una nuova forma di selvatico, addirittura di “selvaggio”. Lo spopolamento ha lasciato spazio libero ai boschi di progredire e agli animali selvatici di tornare. La natura avanza come una marea, inglobando le tracce lasciate dall’uomo nel corso di secoli di vita contadina. Assorbe i vecchi sentieri, i terrazzamenti, gli antichi paesi abbandonati. I boschi di castagno, non più gestiti, diventano impenetrabili foreste ostruite dai rovi. Cinghiali cresciuti di numero a dismisura si aggirano tra le vie dei borghi dimenticati. I rampicanti ricoprono i muri delle case diroccate. Tra le commessure delle antiche vie acciottolate cresce l’erba. Le radici sollevano i lembi d’asfalto su strade ormai non più percorse. È una dimensione “selvaggia” che stiamo conoscendo solo oggi, archeologia della civiltà contadina che si nasconde tra i rovi, che lascia fluire l’opposizione tra natura e cultura, tra selva e orto, trovando nella fusione delle due la sua stessa sostanza.
La distribuzione delle aree protette in Italia occupa circa il 19 per cento dell’intera superficie. Copre prevalentemente pianure lungo i parchi fluviali, coste, porzioni di mare, montagne, ma pochissime fasce collinari. Eppure delle 57.000 specie animali presenti sulla penisola, la maggior parte si concentra proprio nelle colline e nella mezza montagna ai confini con i boschi. E sono queste, paradossalmente, le zone più ignorate persino dagli escursionisti e dagli amanti della natura. Sono zone ecotonali, cioè fasce di confine che sommano le biodiversità dei diversi ambienti limitrofi e hanno anche specie loro proprie. La biodiversità più ricca non si trova certo in alta montagna, negli ambienti estremi puri e sterili dei ghiacciai o delle morene; e neppure, come ovvio, nella pianura cementificata. Le grandi risorse ecologiche e la massima concentrazione di esseri viventi si trovano negli ambienti di mezzo, nei luoghi abbandonati della montagna meno celebrata. Lì è riunita la massima varietà di specie animali e vegetali. E lì, dove c’è esplosione di vita, il lupo è al vertice della catena alimentare.
Quella sera di fine febbraio continuavo a camminare seguendo la linea filante della traccia che, senza sbandamenti, puntava dritta verso il Colle Tosto. Ma era tardi. E iniziavo a sentire un po’ di apprensione. Non ero più convinto di riuscire a raggiungere il Colle Tosto e a capire dove conducesse la traccia che stavo seguendo. Rallentai il passo, ansimando. Quando, d’improvviso, arrivò un rumore sordo, come un brontolio sommesso, lontanissimo. Sulle prime mi parve un lamento, continuo e quasi impercettibile. Poi vidi. Nel lungo rettilineo che taglia di netto il Gran Piano di Castelluccio di Norcia stava passando qualcuno. Da lassù non sembrava niente più che un puntino indistinto che si muoveva lento sulla strada, nel mare di neve. Un’automobile, un camion? Troppo lontano per capire. Il puntino arrivò in fondo al mio campo visivo, aggirò un costone e sparì dietro una curva, lasciando nell’aria il suo debole suono: fin quando, dopo qualche secondo, anch’esso cessò riportando la montagna nel suo silenzio profondo. Mi sentii ancora più solo, lassù, davanti alla traccia che correva sicura nella neve. La guardai l’ultima volta, e mi girai.
Fui di ritorno a Castelluccio che era buio.
Quella sera di febbraio non riuscii a sapere dove le orme mi avrebbero condotto. A una tana? A un animale predato?
Avrei avuto fortuna più avanti, mi consolai. Perché la via del lupo partiva da quelle montagne.

2. Nella mente del lupo

Un passaggio cruciale nel rapporto tra uomo e lupo ebbe luogo nei primi anni Settanta, in seguito al lavoro di un gruppo di giovani ricercatori impegnati a studiare con metodi sperimentali ciò che all’epoca veniva ancora rappresentato come il “misterioso animale delle foreste” o il “divoratore di bambini”. Fu quella una vicenda che aprì nuovi orientamenti di indagine sugli animali selvatici, e oggi è considerata dai lupologi uno degli atti fondativi della loro disciplina.
I protagonisti sono tre studiosi appena trentenni. Hanno un aspetto trasandato e un po’ hippie, e comunicano tra loro in una lingua ibrida, un mix di inglese, italiano e tedesco. Vivono in un totale e felice isolamento sulle montagne della Maiella. E si rifugiano ininterrottamente, stagione dopo stagione, in una capanna di tronchi d’albero, priva di luce, di gas, di telefono, vicina ai confini del bosco. Fanno parte del gruppo uno specialista di etologia del lupo, uno dei più ingegnosi radio-tracker del mondo e un biologo esperto di Appennino. Sono giovani, disagi e pericoli non li preoccupano, e grazie alla loro formazione, diversa e complementare, hanno messo su una squadra ideale per studiare il lupo nel suo stesso ambiente. E il lupo diventerà parte di loro.
Mai nessuno, in quei primi anni Settanta, aveva catturato un lupo in Europa con l’intento di sistemargli intorno al collo una radiotrasmittente. Quel tipo di ricerca non aveva precedenti nel Vecchio Continente: solo David McDonald, etologo di Oxford, aveva iniziato ad applicare il radiocollare proprio in quegli stessi mesi a esemplari di volpi dell’isola britannica. Per il resto, soprattutto in Italia, la zoologia si attestava in prevalenza sul tradizionale approccio classificatorio, era una scienza tutta libresca, nozionistica, imperniata su dogmi da imparare a memoria: la correlazione tra esperienza e conoscenza, il metodo empirico della verifica diretta, della presa di contatto sul campo, arriveranno più tardi, in parte anche grazie all’avventura di quei tre giovani ricercatori impegnati nello studio del lupo in Appennino centrale.
Secondo loro, i boschi, gli altipiani, le montagne stesse vanno considerati un laboratorio aperto, che consenta una visione unitaria della natura, una percezione della molteplicità dei fenomeni e del legame tra ambiente e vita. Solo sul campo, utilizzando tutti i sensi, si possono indagare i misteri della natura.
L’etologo, Erik Zimen, ha una trentina d’anni, ed è un tipo eccentrico e irascibile, al quale – così vuole un certo alone di leggenda che lo avvolge – è meglio non dare torto se non si vuole litigare. Per il suo carattere inflessibile, si è scontrato con i colleghi dell’università e se n’è andato sbattendo la porta. Più tardi, dopo la famosa esperienza sull’Appennino, avrebbe fatto parte del nucleo storico degli ambientalisti della prima ora, i fondatori del partito dei Grünen, i Verdi tedeschi, andati poi a occupare posizioni di governo in diversi Länder. Una fotografia di allora ci consegna Zimen con una folta barba rossiccia, i capelli alti sulla fronte e una coppia di incisivi prominenti che spuntano dal labbro superiore. È di origini svedesi ma ha vissuto in Germania, dove è entrato a far parte dei ricercatori del Max Planck Institut di Seewiesen, sotto la guida di uno dei padri dell’etologia, Konrad Lorenz. All’epoca dei fatti il giovane ricercatore ha già osservato da vicino i lupi, studiandone le fasi della vita e il comportamento all’interno delle rigide gerarchie del branco, ma lo ha fatto con animali chiusi nel recinto dell’Istituto, nel Wildpark, dove, secondo la concezione centro-europea, sono ospitati animali in condizioni di semilibertà. Adesso, le montagne italiane potrebbero rappresentare una svolta per Erik Zimen: la possibilità di osservare per la prima volta i lupi in natura!
Il secondo componente della squadra è David Mech, chiamato Dave, che con i suoi 35 anni è considerato il vecchietto del gruppo. È un lupologo americano che ha seguito numerosi branchi sulle Montagne Rocciose, mettendo a punto tecniche e metodi all’avanguardia nell’applicazione della radiotelemetria, e soprattutto affinando una certa perizia nella cattura degli animali selvatici. La sua specifica formazione è stata favorita dallo studio sul campo che le università statunitensi abitualmente promuovevano e finanziavano durante i corsi di laurea. Ma Mech può contare, e ciò si rivelerà cruciale per le sorti del gruppo in Appennino, su un’abilità tutta particolare nel costruire trappole, in parte attinta dalla tradizione dei vecchi trapper del West e dei cacciatori di pellicce. Dopo l’esperienza sulle montagne italiane, diventerà uno dei massimi esperti mondiali di trapping per scopi scientifici e catturerà, con favolose azioni da film, animali come caribù, leoni, leopardi, giaguari, elefanti.
L’ultimo dei tre, l’uomo chiave dell’intera operazione, è il romano Luigi Boitani. A 24 anni si laurea in Biologia con una tesi sulla libellula, proprio mentre intorno a lui il mondo universitario viene investito dalla protesta del Sessantotto. È nell’occhio del ciclone quando, da Parigi a Berkeley a Roma, il contagio attecchisce ovunque nella fraternità quasi magica degli studenti di quella fine anni Sessanta. Alla Sapienza vengono montate le barricate, occupate le aule. Dopo la liberalizzazione dell’accesso agli studi universitari, a Roma il numero degli iscritti alle facoltà è cresciuto a dismisura, fino a 6...

Indice dei contenuti

  1. 1. La prima traccia
  2. 2. Nella mente del lupo
  3. 3. Sui Monti Sibillini
  4. 4. Nelle Foreste Casentinesi
  5. 5. Tra i Cento Laghi
  6. 6. Sulle Alpi Marittime
  7. 7. In Valsavarenche
  8. 8. L’abbraccio naturale
  9. Decreti, leggi, convenzioni e direttive europee per proteggere il lupo
  10. Glossario
  11. Ringraziamenti