Disintegrazione
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Disintegrazione

Come salvare l'Europa dall'Unione europea

  1. 160 pagine
  2. Italian
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Come salvare l'Europa dall'Unione europea

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Bruxelles non pare capace di guidare l'Europa verso un futuro migliore. Berlino non sembra disposta a farlo. L'alternativa alla disintegrazione è un'Europa ricostruita dal basso.L'Unione Europea prometteva di assicurare la prosperità attraverso l'integrazione, ma è diventata simbolo di austerità, di conflitto, di perturbazioni sociali e politiche scaturite dalla crisi economica che non è riuscita ad arginare. Pensare un nuovo modello di integrazione che guardi oltre le regole di bilancio e i problemi di leadership è un'esigenza che non possiamo più rinviare. Se l'Unione Europea può fallire, l'integrazione deve proseguire. Zielonka ci incita a pensare con coraggio e creatività un'unità radicalmente diversa da quella attuale. La sua proposta è un nuovo modello di integrazione: funzionale, polifonico, democratico, efficace.Zielonka offre una nuova e rigenerante visione del futuro dell'Europa, in linea con il motto dell'Unione Europea: uniti nella diversità. Giuliano Amato

Un libro provocatorio, ricco di idee, che arriva nel momento cruciale per il futuro dell'integrazione europea. Lionel Barber, "Financial Times"

Un libro affascinante, che fa pensare. Cambierà la nostra visione dell'Unione Europea. Josef Joffe, "Die Zeit"

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788858123140

1.
Crisi

«Crisi» è la parola che abbiamo finito per associare all’Unione europea. Eppure l’origine, la natura e le implicazioni della crisi attuale sono estremamente controverse. Una cosa, tuttavia, è certa: non si tratta di una crisi normale e l’Ue non può gestirla come se fosse ordinaria amministrazione. Per citare le parole di Federico Rampini sul quotidiano «la Repubblica»: «Questa crisi assume dimensioni che nessuno riesce più a padroneggiare. Ci sono troppi incendi da spegnere contemporaneamente e in troppi luoghi diversi»1.
Già in passato l’Ue ha attraversato periodi di crisi. Nel 1965 il generale De Gaulle rifiutò di partecipare alle riunioni del Consiglio europeo, provocando la cosiddetta «crisi della sedia vuota», che durò sette mesi. Nel 1999 l’intero collegio dei commissari europei rassegnò le dimissioni in seguito ad accuse di corruzione ad alto livello. Nel 2005 gli elettori francesi e olandesi pronunciarono un verdetto negativo sul trattato costituzionale europeo. Ma non si è mai assistito a una crisi come quella cominciata nel 2008 e tuttora in corso. Questa crisi non riguarda soltanto gli affari interni dell’Ue. Anzi è stata scatenata da fatti lontanissimi da Bruxelles. Eppure il terremoto finanziario che ha scosso New York si è in breve tempo propagato raggiungendo vari ambiti della politica e della società europee. L’Ue ha tentato di fronteggiare la situazione in rapido mutamento, ma si è mossa in maniera discorde e impacciata.
Se esaminiamo la serie di eventi che hanno scosso l’Europa e l’Ue nel corso degli ultimi anni, capiamo che non si tratta di un’unica crisi, principalmente finanziaria, ma di una successione di crisi diverse, di ampiezza e durata diverse. La fine di un tipo di crisi può annunciare l’inizio di un’altra. Tutte queste crisi sono inoltre caratterizzate da una stretta interdipendenza, anche se asimmetrica. La crisi finanziaria ha messo in luce la debolezza di varie economie europee, e anche del difettoso assetto istituzionale dell’euro e della stessa Unione europea. Le difficoltà economiche non potevano che generare conseguenze politiche e sociali. A causa di queste crisi si è perso denaro, sono state distrutte carriere politiche e si sono incrinate verità ideologiche. Tuttavia i diversi Stati e gruppi sociali hanno vissuto le crisi in maniera differente. Alcuni hanno persino tratto vantaggi dallo scompaginamento dell’Europa. L’Ue però non figura tra i beneficiari. Si è dimostrata impreparata a navigare in acque tempestose e ha perso la fiducia dei cittadini d’Europa.
I funzionari europei amano sottolineare che in passato l’Unione europea è sempre uscita rafforzata dalle crisi, ma alla luce dei dati disponibili oggi questa storia a lieto fine ha scarse probabilità di ripetersi.

Crisi, quale crisi?

È praticamente impossibile fare congetture sul futuro dell’Unione europea senza entrare nel vivo della crisi che attanaglia l’istituzione. In altri termini, la cura di un paziente comincia con una diagnosi corretta. L’opinione prevalente è che la crisi ruoti intorno all’euro, alla Grecia e al debito sovrano. A mio parere, invece, si è trattato e continua a trattarsi soprattutto di una crisi di coesione, immaginazione e fiducia. Questa seconda crisi è ovviamente più difficile da affrontare della prima. Il buco nel bilancio greco è relativamente modesto in termini aggregati di eurozona e si potrebbe coprire con facilità. La Grecia però non è l’unico paese in difficoltà finanziarie, pochi credono che la cancellazione del debito indurrà i greci a comportarsi come i tedeschi e non esistono soluzioni credibili per appianare i problemi complessi della Grecia. Ciò che sappiamo è che le soluzioni adottate finora dall’Ue si sono rivelate inefficaci. Quella che in apparenza era una semplice questione finanziaria si è trasformata in un problema di ordine sociale, politico, culturale e persino ideologico, che investe l’intero continente e non soltanto una «pecora nera». Permettetemi di spiegare perché.
L’euro è tuttora in difficoltà e la causa è attribuita agli shock finanziari esterni e a politiche fiscali comuni poco avvedute, se non del tutto assenti. Il discorso finanziario ha assunto così tanta preminenza che la maggior parte degli europei conosce il significato di espressioni e termini apparentemente astrusi, come stretta creditizia, quantitative easing, spread, adeguamenti strutturali ed Eurobond. Ma nell’area dell’euro soltanto alcune economie hanno mostrato un andamento negativo, mentre altre prosperano e non hanno dovuto far fronte ad aumenti della pressione fiscale. Come si possono fare affermazioni generali sulla crisi dell’euro in una situazione del genere? Peraltro, non è affatto ovvio che la politica fiscale sia idonea ad affrontare alle radici i problemi economici che affliggono la Grecia, Cipro, il Portogallo, la Spagna, l’Irlanda e forse anche l’Italia. La cultura del clientelismo e della meritocrazia non si può certo contrastare limitandosi a semplici adeguamenti strutturali macroeconomici e al controllo del bilancio. Inoltre le politiche fiscali da sole non sono in grado di spronare le economie più deboli a mettersi in pari con quelle più forti nell’ambito di un’unione monetaria. Un più attento esame della situazione greca illustra questo problema.
La Grecia era un prototipo di contabilità disastrosa: un disavanzo insostenibile delle partite correnti, un debito pubblico ed estero enorme, una base imponibile ristretta, un settore pubblico in fortissima espansione e inefficiente, e oneri derivanti da pensioni e indennità di disoccupazione impossibili da sostenere2. Tuttavia i problemi del paese solo in parte possono essere ricondotti alla mancanza cronica di disciplina di bilancio. Vanno considerati anche la debolezza dello Stato greco e delle sue strutture amministrative, la politica clientelare praticata dai due partiti che hanno governato il paese dopo la caduta dell’autocrazia e gli squilibri economici e politici interni al sistema dell’eurozona. È probabile che i normali cittadini greci abbiano vissuto per un certo periodo al di sopra delle loro possibilità reali ma, contrariamente all’immagine che di loro presentano numerosi quotidiani europei, non sono pigri, egoisti, privi di istruzione, evasori fiscali e «contrari ad abbracciare il cambiamento»3. Alcuni esponenti politici greci hanno imbrogliato i colleghi a Berlino, Parigi e l’Aia, ma hanno ingannato anche i cittadini greci, dei quali hanno poi perso la fiducia4. Prima della crisi, il paese consumava troppo e investiva troppo poco, ma la Grecia non è l’artefice di tutti i suoi guai attuali. C’erano la Germania e la Francia, non la Grecia, dietro al progetto lacunoso dell’Unione economica e monetaria europea, che ha previsto una moneta comune senza alcuno strumento atto ad aiutare i paesi più deboli dell’area dell’euro ad allinearsi a quelli più forti. Né sono state le banche elleniche e i loro organismi di regolamentazione a causare il tracollo finanziario globale del 2008, che ha reso insostenibile l’onere del debito sovrano e ha trasformato la Grecia in una preda appetitosa per gli speculatori. Sin dall’inizio della crisi dell’euro, la Grecia non ha più avuto pieno controllo delle proprie politiche, perciò è difficile attribuire ad Atene la responsabilità delle disastrose ripercussioni sociali e politiche provocate dall’austerità e dalla svalutazione interna. In realtà, quando nell’ottobre 2011 il primo ministro greco, George Papandreou, annunciò la sua intenzione di indire un referendum sull’accettazione delle condizioni previste dall’accordo di salvataggio dell’eurozona, fu costretto a dimettersi a causa delle pressioni esercitate dalla Germania e da altri Stati creditori. Le tragedie della Grecia classica mostrano come il personaggio chiave possa essere contemporaneamente carnefice e vittima, e questa è la situazione della Grecia moderna nella crisi attuale.
Le vicende dell’Irlanda, del Portogallo e della Spagna confermano che le sventure economiche della Grecia sono in parte il prodotto delle sue scelte e in parte il risultato di politiche e processi al di fuori del suo controllo. Questi quattro Stati hanno richiesto assistenza finanziaria all’Unione europea e al Fondo monetario internazionale (Fmi) e negli ambienti finanziari sono stati riuniti nell’acronimo dispregiativo Pigs [maiali]: Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna. (Alcuni analisti usano la formulazione Piigs per includervi anche l’Italia, noto debitore d’Europa.) Tuttavia, i motivi delle difficoltà finanziarie dei Pigs non erano del tutto identici. Nel 2007 soltanto la Grecia presentava un livello allarmante di debito pubblico lordo: 94,5 per cento del Pil, rispetto al 25,4 per cento del Pil in Irlanda e al 36,2 per cento del Pil in Spagna. A titolo di paragone, il debito lordo del Regno Unito nel 2007 ammontava al 43,8 per cento del Pil5. Il dissesto economico in Spagna e in Irlanda era primariamente dovuto a una bolla immobiliare, un problema che non era presente in Portogallo e in Grecia. Anche le banche si trovavano in cattive acque in Spagna e in Irlanda. Quest’ultima è entrata in recessione nel 2008, dopo che il governo ha iniettato sette miliardi di euro nelle due maggiori banche del paese, Allied Irish Banks e Bank of Ireland. In Portogallo e in Grecia le banche locali insolventi non erano il problema centrale. I Pigs erano anelli deboli nella catena mal congegnata dell’euro. Quando la spinta dei mercati finanziari si è intensificata, i Pigs sono caduti dalla catena.

Coesione, immaginazione, fiducia

L’obiettivo ufficiale dell’Unione europea è la creazione di «un’unione sempre più stretta» e i progressi dell’integrazione europea sono sempre stati misurati in base al successo dell’Ue nel promuovere una maggiore coesione. Nel discorso dell’Ue, i concetti di fusione, convergenza, coesione e integrazione sono spesso usati come sinonimi. Durante gli ultimi anni, tuttavia, è diventato evidente che «un’unione sempre più stretta» è un mito e l’Ue è ora alle prese con una profonda crisi di coesione. Per esempio, dieci anni fa la Germania e la Spagna avevano un livello di disoccupazione analogo. Oggi il tasso di disoccupazione in Spagna è cinque volte superiore a quello tedesco. Al di fuori dell’eurozona, la Polonia dal 2008 non conosce recessione, mentre l’economia lettone ha subìto una contrazione del 25 per cento nel 2008-2009 (sebbene in Lettonia, a differenza che in Grecia, la ripresa sia stata relativamente rapida). Risulta inoltre più che mai evidente come nell’Ue ci siano policy-makers e policy-takers, cioè chi fa le politiche e chi le subisce, rappresentati rispettivamente dagli Stati creditori e dagli Stati debitori. Anche il divario tra i paesi che fanno parte dell’eurozona e quelli che ne sono fuori si sta ampliando, e quelli che sono fuori hanno scarse possibilità di intervenire nel processo decisionale che incide sui loro interessi economici.
Nessuno sa davvero come colmare la distanza tra il centro dell’Europa, ricco e potente, e le sue periferie impoverite. Assoggettare tutti i paesi allo stesso insieme di regole e normative chiaramente non basta. La redistribuzione economica a livello centrale è controversa per motivi pratici e ideologici. La creazione del mercato unico fu accompagnata dalla definizione di una politica di coesione destinata ad aiutare le regioni più povere a tenere testa alla concorrenza economica di quelle più ricche, ma i fondi stanziati erano relativamente modesti e il loro uso (e abuso) è stato ampiamente criticato. Con la creazione della moneta unica non furono predisposti analoghi fondi di coesione. C’era la convinzione che il mercato si sarebbe occupato di attenuare le disparità tra i soggetti economici deboli e forti all’interno dell’eurozona. Ora sappiamo che era un’aspettativa illusoria. La situazione attuale fa venire alla mente una battuta che circolava in epoca comunista: lo Stato finge di pagare i dipendenti e i dipendenti fingono di lavorare. Nell’Unione europea odierna gli Stati creditori fingono di sovvenzionare severe riforme strutturali e gli Stati debitori fingono di seguire le direttive impartite, per quanto impopolari dal punto di vista elettorale e controproducenti sotto il profilo economico. Nessuno sembra credere che un approccio del genere potrà mai funzionare, ma nessuno ha una soluzione plausibile da proporre in risposta al problema. In fin dei conti, gli Stati membri non sono riusciti a colmare i divari presenti tra le loro stesse regioni ricche e povere, pur disponendo di dotazioni di bilancio che l’Ue non ha mai potuto sognare6. I paesi relativamente ricchi, come l’Italia, ne sono l’esempio più eclatante.
Questo ci porta all’altra grande crisi che colpisce attualmente l’Ue: la crisi di immaginazione. Il denaro da solo non può fare uscire l’Europa da questa crisi. L’Europa deve inventare un nuovo modo di investire e di di...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione all’edizione italiana
  2. Introduzione
  3. 1. Crisi
  4. 2. Disintegrazione
  5. 3. Reintegrazione
  6. 4. Visione
  7. 5. Esercizi di polifonia
  8. 6. Marciare sul posto
  9. Bibliografia
  10. Ringraziamenti