Moscacieca
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Moscacieca

  1. 128 pagine
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Informazioni sul libro

Vivere significa progettare ciò che ancora non è e si vuole che sia. Sopravvivere significa dibattersi per non farsi sopraffare. Oggi la politica si è trasformata in una convulsa agitazione di tecnici della sopravvivenza. L'agitazione può dare l'impressione di voler dischiudere chissà quale futuro e, invece, somiglia tragicamente al gioco della moscacieca, dove il caos inghiotte la comprensione e la volontà si smarrisce.

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Informazioni

Anno
2017
ISBN
9788858128473

1.
Tempo impolitico:
neutralizzare, spoliticizzare

Parole seduttive, ma di per sé vuote, come “innovazione”, “riforme”, “modernizzazione”, “crescita”, “sviluppo”, ecc., sembrano parole di libertà ma, nel tempo impolitico, sono parole di necessità. La necessità non lascia spazio alla scelta del perché, ma solo del percome. Per rimanere nella metafora dell’onda, si tratta di affannarsi fino a dannarsi, per cercare di restare “sulla cresta dell’onda” e non affogare. Ma, tanto più ci si riesce, tanto più, dell’onda, si alimenta l’altezza e la forza e, con queste, si accresce il rischio, poi, d’esserne sommersi. Ciò che occorre fare per sopravvivere oggi, sarà superato da ciò che occorrerà fare domani. È una corsa in cui la meta si allontana, tanto più in quanto pare di avvicinarvisi. È il tragico paradosso del nostro tempo: per scampare dal pericolo, lo si accresce. Il successo di oggi aumenta le difficoltà di domani. Ma la ricerca di altre acque più tranquille per il futuro comporta il rischio di perire nell’immediato. Questa è la morte della politica, che trascina con sé anche la democrazia.
Il tempo impolitico annulla il discorso sui fini e si concentra sui soli mezzi. Ma concentrarsi sui soli mezzi significa assumere come dato indiscutibile ciò che c’è, l’esistente, il presente. C’è posto solo per il cieco dominio, che rifiuta d’interrogarsi sul senso del proprio esistere. Esistere per esistere è puro non-senso. Non c’è da stupirsi, allora, se quella che ancora insistiamo a chiamare politica sempre meno attragga la maggioranza dei cittadini e convinca, invece, che ci sono solo due cose da fare, entrambe non politiche: affidarsi ai tecnici o rifugiarsi nei propri egoismi. Suonano vuote, retoriche e ipocrite le invocazioni per un nuovo patto tra cittadini e politici, senza che si mettano minimamente in discussione le ragioni di quel divorzio, che è il declino della politica stessa come funzione del vivere comune.
A che cosa pensiamo quando diciamo “politica”? La parola è bastarda. Ha molti padri e madri e, a sua volta, è capace di generare figli dall’indole molto diversa, benefica e malefica.
Consideriamo la “politica” secondo gli Antichi, in paragone con la politica secondo i Moderni. Per gli Antichi, la politica o “l’arte regia”, come la definiva Platone, consisteva nel buon governo, cioè nel prendersi cura della città nel modo migliore, secondo la “virtù politica”. Il tessitore, il flautista, il ginnasta, il medico, il pastore del gregge erano le figure cui si rimandava per indicare il modello di uomo politico. In tutti questi casi, si trattava di esecutori della propria professione “a regola d’arte”. L’arte dell’uomo politico è simile a quella del kubernètes, il pilota, timoniere o nocchiero, il gubernator latino, colui che mantiene la barca in stabilità e sulla giusta rotta con colpi di timone (la cibernetica è una scienza che calcola le condizioni di autoregolazione dei sistemi di forze complesse, in vista della stabilità). Con spinte e controspinte, egli fa fronte alle forze ostili del mare e del vento, garantendo la giusta rotta e la disciplina dell’equipaggio. Il fine della politica non è in discussione, come non lo è quello di tutte le arti alle quali essa è assimilata. È l’ordine giusto, l’ordine ideale della pòlis, la politèia aristotelica in cui giustizia, verità e armonia della vita comune si tengono per mano.
Tratteggiare quest’ordine è compito dei filosofi, mentre dei governanti è propria esclusivamente la tecnica esecutiva, come per il flautista o il medico. I filosofi sono alla ricerca del fine, ma ne ignorano i mezzi, per i quali occorrono gli uomini politici. I buoni politici sono coloro che possiedono e praticano la “virtù regia”, sanno usare bene i mezzi della loro arte, ma non disputano sui fini. L’arte politica è, dunque, custodia della vita buona della città e la difesa da ciarlatani o sofisti che la volessero mettere in discussione. La discussione sui fini ecciterebbe gli animi e alimenterebbe il caos delle opinioni, il conflitto, la stasis e, alla fine, la guerra civile. La quintessenza della buona politica è rappresentata dai “custodi” della pòlis, di cui diffusamente tratta Platone nelle Leggi (XII, 961-962).
“Il prodigioso spettacolo di iniziare interamente daccapo e dal pensiero la costituzione di un grande Stato effettivo, [...] un avvenimento assai terribile e crudo”. Il commento di Hegel (Lineamenti di filosofia del diritto, § 258) agli eventi della Rivoluzione in Francia rende, in poche parole, cosa vuol dire pensare la politica secondo i Moderni. L’idea moderna è che la società non abbia una natura, ma che siamo noi a potergliela dare. La politica diventa, anzitutto, scelta dei fini e, secondariamente, la predisposizione dei mezzi.
Come scriveva John Adams a Thomas Jefferson, al tempo della Rivoluzione americana, “Tu ed io, caro amico, siamo stati inviati al mondo in un tempo in cui avrebbero voluto vivere i grandi legislatori dell’antichità. Ben pochi della razza umana hanno mai avuto l’opportunità di scegliere un governo per sé e per i figli, più di quanta ne abbiano avuto di scegliersi l’aria, il suolo o il clima”. Dunque, la politica e i politici possono governare le condizioni d’esistenza delle società con il potere di stabilirne i caratteri, la cui determinazione è rimessa alla volontà politica.
In breve: per gli Antichi, la politica era dettata dalla conoscenza; per i Moderni, è dettata da una scelta. Per gli Antichi, la buona politica era una sola, quella conforme alla natura propria della società; per i Moderni, non esiste una politica buona in assoluto, ma esistono politiche in relativo, conformi alle valutazioni proprie degli uomini politici, buone o cattive che siano, a seconda dei punti di vista. Per gli Antichi, l’attività politica era mossa essenzialmente dal pensiero risolvente questioni pratiche presenti; per i Moderni, dal pensiero progettante assetti sociali possibili. Conoscenza del vero e scelta tra le possibilità sono cose profondamente diverse; rappresentano modi opposti di affrontare il problema proprio della politica: il reggimento delle società umane.
Siamo oggi in un tempo politico? E se sì, in quale significato: in quello antico o in quello moderno?
Può sembrare paradossale mettere in dubbio la sopravvivenza della politica nel nostro tempo, quando di tutto si dice che è politica. Già nel 1948, in Writers and Leviathan George Orwell denunciava l’abuso della parola “politica” come equivalente di qualsiasi esibizione di potere, fosse anche sopraffazione: “viviamo in un tempo politico. Guerra, fascismo, campi di concentrazione, manganelli, bombe atomiche sono le cose di cui scriviamo a proposito di politica, anche quando non le nominiamo apertamente così”.
È bensì vero che la parola “politica” ha invaso ogni angolo della nostra vita, pubblica e privata, non appena vi sia esercizio di potere: politica interna ed estera, economica e industriale, finanziaria e tributaria, ambientale, demografica, energetica, familiare, scolastica, culturale, sanitaria, spaziale, geopolitica, ecc. La democrazia, poi, quando segua la vocazione all’omnipervasività, è particolarmente ben disposta a invadere di politica anche le sfere più intime dell’esistenza, invasione che sarcasticamente – sbeffeggiando l’idea di comunanza di uomini e donne della Repubblica di Platone – Aristofane dipinge con l’irresistibile dialogo tra la vecchia ripugnante e il giovinetto innamorato in Le donne in assemblea (Ecclesiazouse, vv. 946-947): la vecchia pretende l’amore del ragazzo come condizione preliminare dell’amore di questi con la bella, oggetto delle sue brame: “bisogna far come vuol la legge / questa è la democrazia”. Ciononostante, il dubbio circa il carattere politico del nostro tempo è legittimo.
Di certo non ne parliamo nel senso antico, perché ci stupiremmo se si volessero risuscitare la virtù politica, l’arte regia, l’ordine ideale o altre cose del medesimo genere che appartengono all’idea utopica, conoscibile filosoficamente o metafisicamente, di società vera, giusta, buona e bella. Ma non ne parliamo neppure nel senso moderno, perché visibilmente mancano progetti tra cui sia possibile la “scelta politica”. Non conoscenza, né scelta, ma necessità. La necessità non è né vera né falsa né, tantomeno, è oggetto di scelta. È una gabbia, semplicemente: neutra, grigia, debilitante, soffocante. Questa è la nostra condizione. Nella gabbia il posto in cui tutti sono è quello che è. Qualcuno può stare bene, qualcun altro male, a seconda dei posti che occupa. Le idee progettanti sono escluse, e comunque non contano nulla.
Siamo di fronte a una cosa non nuova. Già nel secolo scorso si era trattato della fine della politica, profetizzando l’avvento di un’“epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni”. La profezia fu allora pronunciata occhieggiando ambiguamente alla restaurazione di qualche forma di “teologia politica”: non avrebbe poi detto Heidegger che “solo da un dio può venire la salvezza”?
La causa della crisi era indicata nella forza materiale e spirituale, dirompente e autosufficiente, del progresso tecnico. Si sarebbe trattato, in questa visione, dell’esito di una marcia trionfale di quelle che si chiamano scienze della natura e delle loro applicazioni pratiche. Si sarebbe trattato della sconfitta del mondo morale, il mondo della cultura, della libertà e della politica.
Anche oggi, è questo il mondo che deve registrare la sua temporanea sconfitta. Ma è cambiata la forza determinante: non la tecnica, ma la finanza senza altro scopo che sé stessa, la quale si avvale della tecnica posta al suo servizio. Ogni altra energia sociale, tecnica compresa, è come polarizzata dalle esigenze di sviluppo della potenza finanziaria. Poiché questo sviluppo è costantemente a rischio – a differenza di quanto potevano credere i fautori ingenui delle sorti progressive della tecnica – non si tratta di una marcia trionfale, ma di un cammino affannoso. Le colonne portanti sono sotto ricorrenti minacce e devono perciò essere continuamente rafforzate. I nemici sono la cultura, la libertà e la politica. Non esistono esiti scontati in anticipo. Né la catastrofe senza speranza, né il deus ex machina d’una forza salvatrice: le nostre società, noi in loro, sono in ballo. La prima cosa importante è cercare di capire qual è la musica.

2.
Tempo esecutivo:
garantire ciò che c’è
rispetto
a ciò che potrebbe esserci

Da quando in Italia, nel 2011, è stato posto in essere un “governo dei tecnici”, grazie anche alla svolta propiziata nientemeno che dal presidente della Repubblica, sembra essersi affermata un’ideologia che, come tutte le ideologie, non solo chiede che ci si schieri pro o contro, ma contiene pretese di ortodossia. Non era così, all’inizio, quando si poteva pensare – com’era accaduto per brevi periodi anche in passato – a un passaggio, necessario ma temporaneo, a una parentesi per superare difficoltà, a una fase di decantazione dei conflitti paralizzanti la vita politica. Oggi l’eccezionalità sembra, per così dire, essersi normalizzata, nell’impotenza dei partiti. I partiti impotenti si affidano, nelle posizioni-chiave, a “tecnici” non eletti provenienti dallo stesso mondo del nichilismo politico, facendo da sostegno.
Poteva sembrare una supplenza. Si sta dimostrando una sostituzione, per di più accompagnata da un plusvalore ideologico: la politica è inconcludente, la tecnica sa il fatto suo; i politici sono spesso grossolani e ignoranti, i tecnici sono educati e masterizzati. Quando poi sembra che i tecnici abbiano portato a termine il loro lavoro, allora si può ritornare ai politici. Tecnica e politica s’intrecciano, nel senso della continuità: normalizzazione a opera dei tecnici, normalità a opera dei politici. La sostituzione dei politici da parte dei tecnici sembra un’eccezione. In realtà, caduti i discorsi sui fini, è una possibilità che rientra nella norma.
Tuttavia, quando si parla di “tecnici” nella conduzione delle società umane, si usa in realtà una parola ingannevole e disonesta. Di tecnica si può parlare solo a condizione che esistano regole codificate e riconosciute, strumentali al raggiungimento di uno scopo predeterminato; solo se esistono “manuali”, prontuari, protocolli cui attenersi. Non è, ovviamente, il caso del reggimento delle società umane. Quando si parla di tecnica in questo ambito, si dice in realtà una cosa diversa. Si sta a dire, senza dirlo in chiaro, che si vuole che le persone chiamate a questo compito siano selezionate per ragioni, qualità e meriti diversi da quelli richiesti dalle normali procedure di selezione democratica: le elezioni. Non sono “politici”, perché non nascono dalla politica, quale secoli di lotte per il costituzionalismo hanno contribuito a definire. Nel mondo e nel tempo nichilistico del denaro come mezzo e come fine (infra, pp. 21 sgg.), si tratta di procedure interne a questo mondo che assicurano fidelizzazione e competenza a garanzia della sua stessa stabilità.
Non si rivela nulla che non sia facilmente visibile nelle compagini dei governi: vi si entra per promozione ottenuta dai “mercati”, dal mondo finanziario e dalle sue istituzioni formali e più spesso informali, visibili e più spesso invisibili. La “fiducia” che viene da lì è di gran lunga più importante della fiducia che può venire dai parlamenti e dai cittadini elettori e che a loro viene indotta o imposta. Chiamiamo tecnici coloro che sono messi lì, al timone delle società, per eseguire prestazioni per conto di altri che, non infrequentemente, all’inizio non si sa chi siano.
Il loro mandato è la salvezza nelle difficoltà, cioè nelle situazioni in cui barcollano i rapporti su cui si reggono gli equilibri del potere. In realtà, si parla di salvezza o di “salvataggi” come equivalenti della garanzia di ciò che c’è, rispetto a ciò che potrebbe esserci. I tecnici armeggiano come sanno e come possono, commettono errori, si dividono tra di loro sui mezzi migliori da mettere in campo, ma sempre avendo in comune il compito di preservare, consolidare e difendere lo status quo al servizio del quale sono stati chiamati al lavoro. Possono questionare sui mezzi, ma concordano sul fine.
Status quo: infatti, la tecnica è in sé, per sua natura, conservatrice. Può essere riparatrice o, eventualmente, amplificatrice dell’esistente, ma non modificatrice o trasformatrice. Quando si richiede l’intervento di un tecnico su un manufatto, è per ripararlo in caso di guasto o per potenziarne le possibilità, non certo per cambiarlo. La stessa cosa accade per la tecnica che prende il posto della politica. Infatti, i governi tecnici sono quelli che affrontano i problemi del reggimento della società con lo sguardo rivolto ai guasti e alle difficoltà che si determinano nei rapporti sociali, agli inceppamenti nei meccanismi, agli scompensi che minano la stabilità del sistema sociale. La tecnica, inevitabilmente e per la natura della cosa, è neutralizzazione forzata del governo, portando in sé il germe dell’inevitabilità e dell’oggettività, in contrasto con la disputabilità delle scelte che è propria della politica. Dai non tecnici, agli occhi d...

Indice dei contenuti

  1. Prologo
  2. 1. Tempo impolitico: neutralizzare, spoliticizzare
  3. 2. Tempo esecutivo: garantire ciò che c’è rispetto a ciò che potrebbe esserci
  4. 3. Tempo nichilista: il mezzo e lo scopo coincidono
  5. 4. Un processo cieco
  6. 5. Lo Stato può fallire, la sovranità è dei creditori
  7. 6. La costruzione di un nuovo regime
  8. 7. Governabilità e plebiscito del mercato
  9. 8. Spostamenti costituzionali I: troppe “discussioni” e troppo poche “decisioni”
  10. 9. Spostamenti costituzionali II: elezione e investitura
  11. 10. Spostamenti costituzionali III: prendere o lasciare
  12. 11. Spostamenti costituzionali IV: ugualizzazione
  13. 12. La piramide rovesciata
  14. 13. Negli spazi pieni la felicità è la pretesa dei forti
  15. 14. Dignità in pericolo
  16. Epilogo