1.
Il cronista e lo scrittore
Premessa
Nella prima metà degli anni sessanta, Tom Wolfe (n. 1931), non ancora conosciuto come uno dei più originali scrittori americani, ma giovane giornalista fresco di laurea alla Yale University e in cerca di gloria nella Grande Mela, venne incaricato di scrivere una storia per «New York», supplemento domenicale dello «Herald Tribune», dove lavorava come redattore. La storia riguardava il carcere femminile del Greenwich Village, che sorgeva all’intersezione fra Greenwich Avenue e Avenue of the Americas. Le carcerate avevano l’abitudine di chiamare i ragazzi che vedevano passare per strada, usando tutti i nomi maschili che avevano a disposizione – «Bob! Bill! Joe! Jack!», e così via – finché qualcuno non si fermava e non guardava verso di loro. Quando accadeva, cominciavano a bombardarlo di pesanti apprezzamenti, descrivendo le sue fattezze e alludendo a sue prestazioni. Una notte Wolfe vede le donne catturare al volo l’attenzione di Harry, un giovane di circa vent’anni. Come ricorda nell’introduzione all’antologia The New Journalism (1973), iniziò l’articolo da questo episodio:
Hai-ai-ai-ai-ai-ai-ai-ai-ai-ai-ai-ai-ai-ai-ai-ai-ai-ai-ai-ai-ai-ai-ai-ai-ai-ai-ai-ai-ai-ai-ai-ai-ai-ai-ai-ai-ai-ai-ai-ai-ai-ai-ai-aireeeeeeeeeeeeeeeeeee!
Una lunga trascrizione del nome Harry come suona se urlato in inglese. «Guardai a ciò che avevo scritto – racconta Wolfe –. Mi piaceva. Decisi che mi sarei divertito a urlare io stesso al piccolo bastardo. Così cominciai a tempestarlo, anche nella frase seguente». Infatti Wolfe proseguì l’articolo immaginando un monologo del giovane Harry con se stesso:
O, caro dolce Harry, con il tuo ciuffo da gangster di film francese, con la maglia per sciatore dal collo alto e la camicia blu di jeans, presa allo spaccio dei militari, con i pantaloni di Bloomsbury di velluto a coste che hai visto nell’edizione airmail del «Manchester Guardian» e che hai ordinato per posta, e con la tua libido di furtivo intellettuale dall’andatura zompettante a zonzo in Greenwich Village – quella sirena chiama proprio te?
L’idea di Wolfe era di fare della letteratura giornalistica. Scrivere un articolo come si scrivono un racconto o un romanzo. L’ambizioso progetto finale era il ‘journalistic novel’ o il ‘non-fiction novel’, un tentativo di rivitalizzare la formula del romanzo, in un periodo in cui la critica ne aveva decretata la morte. «Non ho mai avuto la minima esitazione – ha scritto Wolfe in The New Journalism – nel tentare ogni trucco che avesse ragionevolmente il potere di tenermi aggrappato al lettore una manciata di secondi in più».
Non molto tempo dopo, fra il 1965 e il 1968, Goffredo Parise (1929-1986), scrittore già baciato dal successo, avendo pubblicato negli anni cinquanta i suoi romanzi più belli, da Il ragazzo morto e le comete a Il prete bello, sceglie la vita dell’inviato speciale, viaggiando in diversi paesi, Cina, Vietnam, Biafra, tra rivoluzioni, guerre, morte e carestie. Come grandi scrittori americani, che furono giornalisti, anche Parise si misura con un compito che è il cuore dell’attività giornalistica e ne riassume l’immagine romantica: andare, vedere e raccontare. Da questi viaggi nascono dei libri: Cara Cina (1966), Due o tre cose sul Vietnam (1967), Biafra (1968). Il caso di Parise è molto diverso da quello di Wolfe: non un giornalista che sfrutta gli espedienti letterari per creare un nuovo linguaggio con cui descrivere la realtà in maniera più aderente ai fatti e con toni più coinvolgenti per il lettore, ma uno scrittore che adatta la sua lingua sobria, elegante, lucida, sofferta, alle esigenze della notizia, alle regole della cronaca, come nei reportages dal Vietnam scritti per «L’Espresso» di Scalfari:
30 marzo 1967, ore 21.30
Questo è il mio primo giorno di guerra. Siamo al confine della zona smilitarizzata, immediatamente a sud del 17° parallelo, dove in questi giorni avvengono i combattimenti più duri. Qui non operano soltanto i vietcong ma unità regolari dell’esercito nordvietnamita che s’infiltrano verso sud. Camminano di notte, in territori che solo loro conoscono.
La posizione del nostro bivacco è all’estremità orientale di questa zona, a due o tre chilometri dal mare (golfo del Tonchino), tra ampie dune di sabbia disseminate di collinette cespugliose. È un cimitero, i marines hanno piazzato i mortai all’interno dei recinti a forma di arca insabbiata e dipinti di azzurro: sono tombe di famiglia e contengono tumuli piccoli o grandi a seconda dell’età.
Lo scatto creativo dello scrittore sapiente – con la metafora del piccolo cimitero ingoiato nel cimitero senza confini della guerra – arriva dopo una asciutta descrizione del posto da dove Parise scrive, secondo i canoni della cronaca giornalistica. La preoccupazione principale è informare i lettori. Quando riprende in mano questi articoli per una nuova raccolta (Guerre politiche, 1976), osserva con distacco: «Di questi scritti alcuni critici letterari hanno parlato con lode, e io li ringrazio ma rimango scettico. Sono scritti di giornale, dopo tutto, e, senza rinnegarli, hanno il valore della data che portano».
Sia Wolfe, il cronista che esplora le tecniche letterarie, sia Parise, lo scrittore che si misura con i problemi della cronaca, attingono alla letteratura per valorizzare l’informazione. Potremmo dire che usano la letteratura per fare informazione. Questo è il significato che l’incontro fra letteratura e giornalismo assume nelle pagine che seguono. I due casi delimitano il campo della nostra trattazione.
Moltissimi giornalisti hanno scritto, e continuano a scrivere, racconti e romanzi. Alcuni di essi sono diventati eccellenti scrittori. Pensiamo in Italia, nel secondo dopoguerra, a Romano Bilenchi (1909-1989), Dino Buzzati (1906-1972), Italo Calvino (1923-1985). Non è questo che ci interessa. Quando Wolfe scrive, per esempio, Il falò delle vanità (The Bonfire of the Vanities, 1988), si avvale delle esperienze giornalistiche per descrivere il mondo di Wall Street, ma resta un letterato e il libro è totalmente un’opera di invenzione senza rapporto con finalità giornalistiche (un ragionamento analogo si potrebbe fare per La giornata di uno scrutatore o La speculazione edilizia di Italo Calvino, entrambi del 1963). Il contrario accade con A sangue freddo (In Cold Blood, 1966), di Truman Capote (1924-1984), che nasce come inchiesta per il magazine «The New Yorker», pubblicata a puntate nell’autunno del 1965, dopo cinque anni di ricerche; anatomia del gratuito massacro d’una famiglia del Middle West da parte di due pregiudicati psicopatici, rappresenta il punto d’arrivo d’una sperimentazione interna al giornalismo. Il risultato finale è ancora giornalismo? Difficile rispondere. Sicuramente possiamo dire che è una straordinaria commistione di letteratura e giornalismo: lo leggiamo come un’opera letteraria ma non possiamo dimenticare che è l’elaborazione estrema di una notizia giornalistica. Il ‘non-fiction novel’, come lo aveva battezzato Capote, o il ‘journalistic novel’, come preferiva chiamarlo Wolfe, non è la trasposizione della realtà nei territori della narrativa, non è semplicemente letteratura applicata alla realtà invece che alla fantasia, piuttosto si tratta d’un genere giornalistico, che si sviluppa intrecciandosi con la capacità di scavare dentro i fatti, arrivando a catturare la vera notizia, quella che tocca la sfera dell’invisibile che spesso circonda un avvenimento o una storia. Questa è la chiave per analizzare un genere a cavallo fra giornalismo, narrazione e saggistica, del quale è un luminoso esempio un reportage come Imperium, pubblicato nel 1994 da Ryszard Kapuscinski (n. 1932), e con il quale si sono misurati anche i giornalisti italiani: pensiamo a Un uomo (1979) di Oriana Fallaci (n. 1929).
Moltissimi letterati – romanzieri, poeti, critici, saggisti – hanno scritto e continuano a scrivere sulle pagine dei giornali. Ma il fenomeno ci interessa in questa sede solo se la collaborazione assume le forme dell’attività giornalistica, come quando i grandi giornali americani affidavano corrispondenze di guerra a scrittori quali Ernest Hemingway (1899-1961), John Dos Passos (1896-1970) o John Steinbeck (1902-1968). La stampa italiana vanta una tradizione unica per quanto riguarda la presenza di letterati sui giornali: la ‘terza pagina’, la cui origine si fa risalire al «Giornale d’Italia» del 10 dicembre del 1901, in occasione della prima rappresentazione della tragedia dannunziana Francesca da Rimini, con Eleonora Duse. Le potenzialità d’una pagina dedicata agli avvenimenti e agli interessi del mondo letterario e artistico furono sviluppate da un altro giornale, il «Corriere della Sera» di Luigi Albertini, che si assicurò la collaborazione di letterati come Gabriele D’Annunzio, Luigi Pirandello, Giovanni Verga, Luigi Capuana, Federico De Roberto, Grazia Deledda. La terza pagina è stata un’istituzione dei quotidiani italiani, abbandonata solo negli anni novanta. Nella maggior parte dei casi ha avuto la funzione di uno spazio appaltato ai gruppi intellettuali che facevano capo a una testata, territorio neutrale, rispetto alle esigenze della cronaca e dell’informazione, luogo privilegiato – come ha scritto lo storico della letteratura Alberto Asor Rosa – di una soggezione del giornalismo alle belle lettere, della quale era un simbolo l’elzeviro, articolo di apertura riservato a interventi di letterati senza nessi con l’informazione, che prendeva il nome dall’elegante carattere tipografico in cui veniva composto. L’operazione che ha affrancato l’intellettuale che collaborava alla terza pagina dalle tecniche della notizia non occupa lo spazio della nostra indagine. Ci occuperemo invece di quelle collaborazioni che hanno visto personaggi della letteratura – fra i quali ricordiamo Alberto Moravia (1907-1990), con i reportages di viaggio per il «Corriere della Sera», Giovanni Arpino (1927-1987), cronista sportivo alla «Stampa» e al «Giornale», Manlio Cancogni (n. 1916), collaboratore e corrispondente per «Il Mondo» e «L’Espresso», Alberto Arbasino (n. 1930), viaggiatore di cultura per «L’Espresso» e «La Repubblica», oltre a Parise – diventare giornalisti, adattando e commisurando la cultura, la sensibilità e lo stile alle esigenze della notizia.
La ‘penny press’
Che cos’è il giornalismo? che cosa lo distingue? È cultura della notizia e tecnica della notizia. Cercando un momento nella storia dei giornali in cui nasce questa identità, culturale e tecnica, con caratteri specifici, bisogna risalire fino agli anni trenta del secolo scorso, segnati negli Stati Uniti dal fenomeno della penny press.
Nel periodo in cui Alexis de Tocqueville visitò l’America, i giornali quotidiani erano soprattutto bollettini di informazioni, e avvisi pubblicitari, per gli uomini d’affari, oppure erano giornali di partito. I lettori appartenevano alle élites finanziarie, industriali e politiche. D’altronde l’americano medio non avrebbe potuto permettersi l’acquisto del quotidiano, venduto a sei cents in un’epoca in cui un ope...