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La disoccupazione in Italia dall'Unità a oggi

  1. 232 pagine
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La disoccupazione in Italia dall'Unità a oggi

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Al momento dell'Unità il lavoro era molto spesso un'esperienza discontinua. Ci si adattava trovando fonti alternative di sostentamento, esercitando diverse attività o spostandosi alla ricerca di un'occupazione. A fine Ottocento nasce una nuova consapevolezza: la mancanza di lavoro è una forma di ingiustizia contro cui occorre lottare. Chi non ha lavoro, e non per sua volontà, non tollera più di essere additato come ozioso o vagabondo. Più tardi il fascismo favorirà il mantenimento di bassi salari e la lotta alla disoccupazione diventerà poco più che uno slogan propagandistico. Sarà solo dopo il disastro della seconda guerra mondiale, in un'Italia con milioni di disoccupati, che l'intero ordinamento giuridico del paese verrà rifondato sul principio del diritto al lavoro, in vista dell'obiettivo quasi sempre disatteso della piena occupazione.Il libro incrocia dati economici, sociali, politici e culturali, proponendo un'analisi originale e completa del fenomeno che da sempre rappresenta una piaga per il nostro paese.

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Informazioni

Anno
2016
ISBN
9788858124727
Argomento
Storia

III.
La disoccupazione
in una repubblica «fondata sul lavoro»

1. Lavoro e disoccupazione: uno sguardo d’insieme

Forse le generazioni che dopo la seconda guerra mondiale salutarono con fiducia l’avvento dell’Italia democratica e repubblicana non avrebbero immaginato che settant’anni più tardi la disoccupazione e la precarietà del lavoro sarebbero stati ancora tra i temi di maggiore attualità. La nascita della Repubblica italiana «fondata sul lavoro», come recita il primo articolo della Costituzione del 1948, tracciò infatti un orizzonte in cui la disoccupazione sarebbe dovuta diventare un fenomeno residuale.
La storia dell’Italia repubblicana si aprì in un contesto di gravissima disoccupazione. Oggi il fenomeno torna a essere centrale, nonostante sia mutato per quantità e qualità. I senza lavoro di oggi sono tendenzialmente al riparo dalla miseria ancora diffusa nel dopoguerra, per diverse ragioni: rispetto ad allora sono aumentati i cosiddetti «ammortizzatori sociali», sono cresciuti notevolmente sia il livello di benessere sia il reddito delle famiglie. I disoccupati, però, sono perfino aumentati rispetto al dopoguerra. Anche la precarietà del lavoro assume oggi dimensioni crescenti, pur essendo profondamente mutata rispetto al passato.
Negli ultimi settant’anni la fisionomia della disoccupazione è cambiata innanzi tutto in relazione al variare delle forme del lavoro. Tra i mutamenti più macroscopici vi è stata senz’altro la drastica riduzione dell’occupazione agricola. Dopo la guerra gli italiani erano ancora in maggioranza contadini; oggi – stando ai dati dell’ultimo censimento del 2011 – chi lavora la terra costituisce soltanto il 4% della popolazione attiva. Questo non significa che in determinati momenti e in certi contesti non possa essersi verificato un temporaneo aumento dell’occupazione agricola, molte volte come esito dell’espulsione di lavoratori da altri settori produttivi.
Dalla fine degli anni Cinquanta in poi la disoccupazione e la sottoccupazione in agricoltura (insieme alla stagionalità tipica di questo settore) sono diventate sempre più residuali. Con il tempo si è affermata una disoccupazione di tipo urbano, legata al settore industriale e a quello dei servizi, con un peso crescente dei giovani in cerca di prima occupazione e dei sottoccupati in attività precarie. Si è progressivamente esaurito il bracciantato, categoria sociale protagonista della disoccupazione agricola fino alle soglie del «boom economico»295. La pluriattività, tradizionalmente molto diffusa in agricoltura, si è ridimensionata ma non è venuta meno. Si sono anzi sviluppate nuove forme di attività plurime, anche al di fuori del settore agricolo. Fra queste vi è il cosiddetto «doppio lavoro», messo a fuoco dai sociologi a partire dalla fine degli anni Settanta e successivamente oggetto di rilevazione anche da parte dell’Istat. Dagli anni Novanta a oggi il secondo lavoro ha riguardato circa un terzo dei lavoratori italiani, configurandosi solo in misura limitata come un’occupazione giuridicamente irregolare296.
Nel lungo periodo anche il comparto industriale ha subito profondi mutamenti qualitativi e quantitativi. Il settore industriale continuò la sua crescita di lungo periodo tra il dopoguerra e i primi anni Settanta, quando giunse ad assorbire più del 44% degli attivi. Nello stesso periodo vi fu un’espansione dell’occupazione nella grande fabbrica taylorista e un crescente protagonismo dell’operaio-massa. Crebbe pertanto anche la disoccupazione operaia «classica», cioè tipica di quella fascia di lavoratori relativamente più garantiti per i quali la perdita del lavoro costituisce un «incidente di percorso» all’interno della carriera lavorativa. In Italia come altrove, comunque, l’occupazione operaia taylorista ha sempre riguardato solo una minoranza di lavoratori, anche nell’epoca culminate del fordismo. Lo stesso si può dire della disoccupazione operaia che abbiamo definito «classica».
Successivamente, all’incirca all’inizio degli anni Settanta, iniziò un processo di ristrutturazione produttiva nell’industria – sollecitato dal rallentamento economico e reso possibile dall’evoluzione tecnologica degli impianti – che vide la crescente espulsione di forza lavoro dalle grandi fabbriche a vantaggio delle realtà produttive più piccole e delle occupazioni terziarie. L’automazione flessibile e la «produzione snella» presero gradualmente il posto della vecchia industria taylorista. Fu a partire da allora che crebbe inoltre il lavoro sommerso, per definizione meno tutelato e difficilmente controllabile. Nonostante la sua lieve contrazione negli ultimi anni, la rilevanza del lavoro nero, specialmente al Sud Italia, pone tutt’oggi un problema relativo al reale significato delle stime sull’occupazione e la disoccupazione297.
La crescita dell’occupazione nel terziario è stato un processo graduale che, iniziato sin dall’Unità d’Italia, è continuato fino a oggi: attualmente lavorano in questo settore quasi il 70% degli italiani attivi. L’aumento dell’occupazione nel settore dei servizi è stato alimentato anche dall’espansione del pubblico impiego, il quale – almeno a partire dagli anni Cinquanta – ha offerto un lavoro stabile a quote crescenti di popolazione.
Anche l’organizzazione del lavoro ha subito profondi mutamenti nel corso del tempo. Dal dopoguerra agli anni Ottanta vi è stata una riduzione del lavoro autonomo e un accrescimento del lavoro dipendente. È all’interno di questa dinamica che si è collocata la crescita della classe operaia, sia dal punto di vista numerico sia sotto il profilo del suo peso politico. Negli ultimi decenni si è invece assistito al processo inverso, anche se, come è stato notato, negli anni più recenti l’accresciuto lavoro autonomo ha spesso mascherato forme di lavoro salariato, favorendo una riduzione delle tutele dei lavoratori e rendendo meno visibile l’eventuale condizione di disoccupazione298.
Il rapido processo di creazione e distruzione di posti di lavoro sembra oggi confermarsi come un tratto di lungo periodo della storia del lavoro in Italia: diversi studi di carattere quantitativo hanno evidenziato come negli ultimi decenni la piccola dimensione delle imprese italiane sia stata all’origine di un livello di rotazione e mobilità del personale più elevato che altrove, a dispetto dello stereotipo della rigidità del mercato del lavoro italiano299.
Individuati questi grandi mutamenti di fondo, proviamo ora a delineare le caratteristiche e l’evoluzione della disoccupazione nell’Italia repubblicana. Sebbene dalla fine degli anni Cinquanta in poi l’andamento di lungo periodo della disoccupazione italiana abbia seguito per grandi linee le tendenze generali registrate nei paesi capitalistici occidentali (in particolare il passaggio da una situazione di quasi piena occupazione fra anni Cinquanta e Sessanta al riemergere della disoccupazione di massa a partire dalla metà del decennio successivo)300, gli studi sociologici hanno identificato un «modello italiano» di disoccupazione, le cui specificità emergono sia in rapporto ad altri paesi europei sia in relazione alle precedenti fasi della storia italiana. Come risulta da tutte le cifre disponibili, nell’Italia repubblicana la disoccupazione ha in effetti penalizzato maggiormente tre gruppi di cittadini: le donne, i giovani e gli abitanti del Sud. In relazione a questa tendenza di fondo, un altro elemento tipico del contesto italiano può essere considerato il prevalere di una disoccupazione di lunga durata301.
Fino alla prima metà del Novecento, come abbiamo visto, le poche fonti statistiche disponibili avevano sottostimato fortemente il numero di donne disoccupate. A partire dagli anni Cinquanta, invece, le indagini campionarie dell’Istat sulle forze di lavoro hanno cominciato a rivelare, almeno in parte, che le donne non solo tendono a essere meno occupate degli uomini, ma fanno anche più fatica di loro nel trovare un lavoro. Questo risultato statistico è sempre dipeso sia dalle dinamiche reali del mercato del lavoro, sia dai criteri di misurazione adottati. Non a caso sul significato da dare a queste cifre, come vedremo, si sviluppò presto un ampio dibattito.
Contrariamente ad alcune previsioni ottimistiche sulla crescita dell’occupazione femminile, come quelle formulate all’inizio degli anni Sessanta dalla statistica Nora Federici302, negli anni del boom economico e fino al 1973 vi fu una notevole fuoriuscita delle donne adulte dal mercato del lavoro «ufficiale», tradottasi nel calo del tasso di attività femminile. Da un lato vi fu una tendenza delle donne, anche appartenenti alla classe operaia, a divenire casalinghe dopo il matrimonio o il primo figlio, in molti casi perseguendo questo obiettivo come elevamento di status sociale. Dall’altro molte donne si diressero verso forme di attività informali, difficilmente osservabili con le lenti della statistica. Dopo l’esaurimento del «miracolo economico» e fino alla metà gli anni Settanta, in un contesto di calo dell’occupazione femminile, la crescita del tasso di disoccupazione interessò essenzialmente le donne, come si può osservare nella Figura 7. Contribuirono a questo risultato sia il calo delle occupate sia, in misura minore, l’aumento delle donne in cerca di lavoro (ricordiamo che il tasso di disoccupazione è il rapporto fra le persone in cerca di occupazione e la somma di occupati e disoccupati).
A partire dalla metà degli anni Settanta, invece, la crescita della disoccupazione femminile derivò soprattutto da un sensibile aumento delle donne in cerca di lavoro, in uno scenario – valido per l’Italia come per altri paesi occidentali – segnato dal processo di emancipazione femminile e dall’aumento della pa...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. I. La «scoperta» della disoccupazione nell’Italia liberale
  3. II. Tra due guerre
  4. III. La disoccupazione in una repubblica «fondata sul lavoro»
  5. Immagini