Città senza cultura
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Città senza cultura

Intervista sull'urbanistica

  1. 198 pagine
  2. Italian
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Città senza cultura

Intervista sull'urbanistica

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L'Italia non gode di ottima salute. Se si volge lo sguardo alle città e al territorio nella sua interezza il brutto sembra prevalere sul bello e il disordine su un progetto riconoscibile. Cosa ha determinato tutto questo e in che modo è possibile affrontare e risolvere gradualmente i problemi e le criticità, sono i temi di questo libro-intervista. Con il suo straordinario bagaglio di esperienze di studioso e di amministratore pubblico, Campos Venuti ricostruisce – sollecitato dalle domande del suo allievo più vicino – quello che, in questi decenni, è stato fatto dalla politica, la cultura e la stessa urbanistica. E soprattutto quello che non è stato fatto e che si dovrebbe fare.Campos Venuti ospite del Programma Le Storie di Corrado Augias: guarda il video

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858113707

1. Quanto è brutta la città...

D. La prima domanda è molto semplice e corrisponde, probabilmente, a una questione che si pone l’opinione pubblica: perché la città italiana e il territorio che la circonda sono, in genere, così brutti? A questa domanda se ne aggiunge una seconda, che sviluppa la prima: perché la città e il territorio italiano funzionano così male, per quanto riguarda i servizi pubblici, senza che quelli privati siano capaci di far meglio?
R. Si può usare il termine «brutto» per definire la situazione insoddisfacente di città e territorio? Tutto sommato, sono d’accordo, perché questo è il modo sintetico con cui la società e l’opinione pubblica li definiscono, indicando le condizioni di vita e le capacità d’uso che in questi si creano. Naturalmente, il termine non va interpretato in modo estetico; brutto o bello, in questo caso, esprimono la qualità, l’efficienza, le prospettive che la città e il territorio possono offrire. Così fanno spesso i bambini, per i quali brutto vuol dire cattivo e bello significa buono. E allora, usiamo pure questa accezione di «brutto» e di «bello» partendo, se vuoi, dal bello.
Cos’è che l’opinione pubblica può considerare bello oggi, nel nostro caso? Certamente una parte di ciò che chiamiamo paesaggio, purtroppo non poco deturpato, ma spesso ancora bellissimo; senza dubbio, una buona porzione dei centri storici che si sono salvati, qualche quartiere periferico meglio riuscito, e una quota, non molto estesa, del territorio extraurbano preservato. Tutto il resto, invece, è brutto: a cominciare dalle case, cioè dalle architetture sorte negli ultimi cinquant’anni, che – non si può negarlo – sono il più delle volte davvero brutte.
A guardar meglio, è brutto il fatto che la città non eserciti oggi in Italia il ruolo per cui è nata millenni fa: un luogo in cui gli uomini potessero raccogliersi per soddisfare le proprie necessità, creando assistenza reciproca, servizi comuni, necessari per una società allora piccola, che poi si è trasformata diventando sempre più grande. E quando questi servizi pubblici e privati funzionano male come quelli italiani e non soddisfano più le esigenze dei cittadini, questi sono spinti a dire che la città è brutta, perché non funziona.
Lo stesso discorso si può fare per il territorio, perché anche il territorio deve svolgere una funzione, avere una propria ragion d’essere; quando questa funzione non è soddisfatta, quando cessa questa ragion d’essere, l’opinione pubblica può dire che, purtroppo, anche il territorio è brutto.
Questa bruttezza nasce, anche, dal fatto che leggi e piani esistenti non sono in grado di governare le città e il territorio in modo da soddisfare le esigenze dei cittadini. E il discorso si può allargare dal governo nazionale a quelli locali, incapaci di usare perfino quel che le leggi e i piani esistenti possono comunque offrire: non solo, infatti, sono incapaci di fare leggi e piani nuovi, ma anche di usare quelli disponibili, che consentirebbero di affrontare e risolvere, intanto – e per quanto è possibile –, i problemi delle città e del territorio.
Volendo parlare da riformista – perché, in fondo, da decenni, ostento la mia scelta riformista e uso il termine nella sua accezione storica, oggi completamente travisata – la definizione di brutto e di bello potrei usarla anche per spiegare l’incapacità della società e dei cittadini di essere riformisti. Anche a questo proposito, infatti, i cittadini sembrano preferire l’impossibile, e chiedono una soluzione perfetta, teorica, astratta: insomma, «vogliono la luna», come ha detto Pietro Ingrao, invece di chiedere un buon compromesso – certamente non un cedimento, per restare al gergo storico – che sia realizzabile in concreto. Il risultato di questa aspirazione sbagliata non è allora la perfezione, difficile perfino da immaginare, ma il contrario della perfezione, cioè la deregulation, la sregolatezza sistematica. E questo è il brutto.
Quanto di bello è rimasto – per esempio, i centri storici ben conservati – sappiamo perché si è conservato: a questo proposito, ho spesso parlato di «fortunata disgrazia», ricordando il ritardo con cui nel nostro paese si sono realizzati l’Unità nazionale e lo sviluppo capitalistico moderno rispetto al resto d’Europa. È proprio quel ritardo che non ci ha consentito di avere la capacità finanziaria di fare quanto, ad esempio, hanno fatto i francesi, i quali, nel 1853, affidarono il governo di Parigi ad Haussmann, che in pochi anni rase praticamente al suolo la città medioevale e inventò una città nuova, oggi considerata storica perché ha centocinquanta anni di vita. La Parigi ottocentesca non conserva quasi più le tracce del Medioevo e delle epoche successive, mentre le città italiane, da Mantova a Ferrara, da Roma a Milano, per «fortunata disgrazia», quelle tracce le hanno in buona parte conservate.
Questi centri storici, però, pur avendoli preservati, li abbiamo trattati in modo perverso e irragionevole. Abbiamo salvato gli edifici, ma li abbiamo sommersi con un traffico automobilistico che ne compromette perfino l’aspetto estetico e che è esiziale per gli antichi tessuti. Una volta il tessuto dei centri storici era articolato per funzioni: l’abitazione e il commercio di prossimità, l’assistenza agli anziani e l’istruzione ai bambini, l’artigiano di servizio e la produzione dei beni più popolari. Permettendo che il centro storico – il luogo di massimo valore immobiliare – si riempisse di uffici e si svuotasse di residenze, lo abbiamo compromesso irreparabilmente, azzerando la funzione articolata del complesso sistema urbano. Così il centro della città si riempie di giorno e si vuota la notte, salvo le poche zone dedicate allo svago, che però disturba i residenti rimasti. Dal centro storico sono scomparsi i negozi di prima necessità – che erano disposti lungo le strade e servivano gli inquilini dei piani superiori –, sostituiti ora da «vetrine», strumenti di pubblicità delle multinazionali, la cui economicità non dipende dal mercato locale di quartiere, ma da quello mondiale. E le vetrine hanno raggiunto fitti strepitosi, pagati tranquillamente dalle multinazionali, perché non dipendono dall’economia del posto.
Infine, da un centro storico così trasformato, è scomparsa la sicurezza. La città, al contrario, nasce per garantire sicurezza ai propri cittadini: le mura che la cingevano la proteggevano all’esterno e, all’interno, la sicurezza era garantita dalla costante presenza dei residenti.
Quanto ai quartieri periferici della città consolidata, questi sono spesso definiti, giustamente, quartieri-dormitorio: cioè luoghi dove i cittadini che lavorano o studiano altrove tornano solo la notte e dove, di giorno, restano quasi soltanto i vecchi e le casalinghe, sebbene la multifunzionalità dei quartieri sia molto aumentata negli ultimi anni. Le periferie sono cresciute in modo congestionato, sotto la spinta della rendita urbana, in genere povere di servizi e quasi sempre sprovviste di verde. Si aggiunga l’assenza di parcheggi, carenza tipica delle città italiane, che trasforma le strade in veri e propri parcheggi, sempre intasate dal traffico delle auto, mentre gli autobus e i pochi tram offrono una assai modesta mobilità.
Il territorio extraurbano è stato largamente manomesso e impera lo sprawl, termine inglese che sembra creato apposta per l’Italia e che definisce bene la situazione di «dispersione urbana» che la caratterizza. E così, anche del territorio si deve dire che è brutto. In Italia, insomma, il problema non è tanto l’aver costruito più che altrove, ma che abbiamo disperso le costruzioni nella campagna, disseminandola di insediamenti residenziali e produttivi. In Francia, Germania o Inghilterra il territorio è costellato dai piccoli centri, separati gli uni dagli altri: e così la campagna si è salvata. In Francia, per esempio, ci sono 35.000 Comuni, contro gli 8.000 italiani, ma fuori dai piccoli centri il territorio ha mantenuto la sua funzione produttiva, resta destinato all’agricoltura o al sistema naturale, svolgendo in tal modo anche il suo ruolo paesistico.
Non si può dimenticare tuttavia che l’agricoltura, oggetto principale del territorio extraurbano dal punto di vista funzionale, è trattata in Italia come peggio non si potrebbe. È quindi sbagliato considerare l’uso agricolo del suolo una condizione comunque valida. Nella Valle Padana, l’area più ricca del territorio agricolo produttivo italiano, l’agricoltura è gestita molto male: utilizza colture idroesigenti, che consumano il 60% dell’acqua disponibile, ed è condizionata da una strategia della politica agricola comunitaria quanto meno discutibile. La cattiva gestione del territorio agricolo non deve quindi suggerire la destinazione ottimale del suolo per i valori produttivi e naturali, ambientali e paesaggistici. E questo ci spinge a dire che anche il territorio extraurbano è brutto.
D. Anche per i servizi il brutto prevale sul bello?
R. I servizi, pubblici o privati che siano, rappresentano una funzione chiave della città e dei suoi valori su tutto il territorio, e si identificano, in fondo, con la presenza dello Stato, che, fin dalla sua ritardata unificazione, è stato poco presente, se non come figura autoritaria emersa clamorosamente con il fascismo. Nell’ultimo dopoguerra, questo difetto originario è stato solo parzialmente corretto. Una politica nazionale di interventi a servizio della comunità c’è stata, finché c’è stata, quasi esclusivamente per le case popolari – l’Ina Casa – e le autostrade. Lo Stato centrale ha dimenticato le ferrovie, il sistema idraulico e quello dello smaltimento dei rifiuti, si è occupato di elettricità solo per nazionalizzare quella di origine idrica privata, trascurando per anni quella prodotta da idrocarburi, che poteva nascere pubblica con l’Eni di Mattei.
I vecchi Municipi sono rimasti quale centro identitario dei servizi pubblici, con l’assistenzialismo socialdemocratico, fino al fascismo, che li ha sterilizzati affidandoli ai podestà. La loro faticosa ripresa, con la repubblica democratica, è stata mortificata dal grave errore compiuto con la soppressione dell’autonomia fiscale comunale; fino a quando, negli ultimi anni, la destra, generalmente meno presente nelle istituzioni decentrate, ha praticato una politica sistematica di svuotamento delle autonomie locali, riducendo i finanziamenti ad esse destinati, ma non le competenze. Si è arrivati al non senso di dirottare alle spese generali dei bilanci comunali gli oneri di urbanizzazione pagati dagli imprenditori privati per realizzare le opere pubbliche locali.
Quanto ai servizi privati destinati alle persone, in Italia sono diffusi soltanto quelli legati alle attività ricreative e del tempo libero, spesso efficienti e fonte di occupazione e di reddito; ma nei settori della sanità e dei trasporti quei servizi difficilmente sopravviverebbero senza un cospicuo sostegno di finanziamenti pubblici. Complessivamente, dunque, anche per i servizi il brutto la vince sul bello.
D. In questa situazione, che è evidentemente insoddisfacente, clamorosamente insoddisfacente, di chi sono le responsabilità? Dei politici? Degli operatori economici? Dei privati? Dei proprietari delle aree? Dei costruttori? Degli architetti? Degli urbanisti che progettano e pianificano?
R. Di tutti, le responsabilità sono di tutti: dei politici, degli operatori immobiliari, dei tecnici, ma anche dei cittadini, di tutti i cittadini. A me non sembra logico pensare che, anche per la città e il territorio, la responsabilità possa essere attribuita a poche categorie, ai politici definiti qualunquisticamente tutti uguali, agli operatori immobiliari visti da sinistra, ai tecnici visti da destra. Credo, invece, che tutti i cittadini siano responsabili di questo stato di cose, con il proprio comportamento quotidiano di individui singoli che mal sopportano le regole.
Con questa affermazione non voglio certo assolvere tutti accusando tutti, ma, piuttosto, attribuire una corresponsabilità alla cultura della società nel suo insieme. E ciò mi fa pensare che è questa cultura che dobbiamo cambiare. Certo, architetti e urbanisti hanno la propria parte di responsabilità. Cito due casi emblematici, scelti appositamente fra i miei amici – uno scomparso, l’altro in ottima salute e ancora impegnato in prestigiose attività – perché la mia valutazione possa considerarsi non polemica. Penso a due architetti che hanno progettato due importanti pezzi di città, i quali, mal realizzati, contribuiscono a far giudicare brutta la città nel suo insieme. Parlo del Corviale1 romano, progettato da Mario Fiorentino, e del quartiere Zen2 palermitano, progettato da Vittorio Gregotti. Il problema è che i due progetti sono stati affrontati con un approccio molto ambizioso ma sottovalutando l’incapacità della società italiana di realizzare interamente un disegno così complesso, e di questa sottovalutazione i progettisti sono indubbiamente responsabili.
D. E quale errore è stato commesso?
R. Proprio quello di non aver tenuto conto che la società italiana non era pronta all’attuazione di progetti tanto ambiziosi e complessi, sicché la loro realizzazione ha creato una cattedrale architettonica nel deserto urbano. Una più realistica e severa riflessione avrebbe dovuto suggerire un progetto ben diverso. Se non avesse sottov...

Indice dei contenuti

  1. Una premessa
  2. 1. Quanto è brutta la città...
  3. 2. In principio era la rendita urbana
  4. 3. La società non ama l’urbanistica
  5. 4. Siamo alla quarta generazione dell’urbanistica
  6. 5. Arriverà la riforma nazionale?
  7. 6. Ambiente e paesaggio, meglio territorio
  8. 7. Conoscere per governare
  9. Un poscritto