L'autunno della sinistra in Europa
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L'autunno della sinistra in Europa

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L'autunno della sinistra in Europa

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Proprio quando avremmo avuto estremo bisogno di provvedimenti realistici ed efficaci, la sinistra è rimasta per lo più ancorata a schemi tradizionali.

Dall'inizio degli anni Novanta l'Occidente vive una concatenazione di grandi eventi politici, di mutazioni economiche e di cambiamenti strutturali. La formazione di un universo multipolare insieme a una reviviscenza di nazionalismi e di conservatorismi autoritari; la rivoluzione tecnologica del digitale e le conseguenze di una lunga recessione; una massiccia immigrazione verso il Vecchio Continente e l'irruzione del terrorismo islamista. In questo contesto, segnato da svolte epocali, la sinistra europea avrebbe dovuto dar vita a una nuova cultura politica e progettuale, capace di incanalare le innovazioni emerse su ogni versante in funzione dell'interesse collettivo e dell'inclusione sociale. Invece essa, oltre a subire una trafila di sconfitte elettorali, dà l'impressione di aver smarrito la bussola, cosicché i 'perdenti' e i 'marginalizzati' dai drastici mutamenti di scenario vengono attratti dal populismo.

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Informazioni

Anno
2017
ISBN
9788858130926
Argomento
Economia

capitolo primo.
All’origine di dilemmi ineludibili

1. Al volgere del Novecento molte cose stavano cambiando, in Europa, nella vita economica e sociale e nella sfera di quella pubblica. Ma non si pensava che sarebbe stata soprattutto la sinistra a non essere più capace di orientarsi adeguatamente dinanzi alle trasformazioni in corso. E invece aveva già cominciato ad arrancare, dando l’impressione di aver smarrito una bussola che le servisse da guida per agire con discernimento alla luce delle dinamiche e delle nuove sfide che s’erano delineate all’orizzonte.
Eppure, agli esordi del Ventunesimo secolo, la sinistra era saldamente insediata al timone dei principali paesi europei, con il socialista Lionel Jospin in Francia, il socialdemocratico Gerhard Schröder in Germania, il laburista Tony Blair in Gran Bretagna, l’ex comunista Massimo D’Alema in Italia, il leader del Partito del lavoro Wim Kok in Olanda. E altri esponenti della galassia socialista avrebbero continuato a occupare la ribalta politica.
Ma soprattutto la sinistra era sicura di poter tracciare le «regole del gioco» con cui gestire i mutamenti di scenario manifestatisi in seguito a una rivoluzione tecnologica che stava imponendo nuovi modi di produrre e lavorare, a una globalizzazione dei mercati su più versanti, alla formazione di un universo politico multipolare, non più segnato da una preminenza incontrastata degli Stati Uniti, nonché a fenomeni di grande impatto come il prolungamento dell’aspettativa di vita e il surriscaldamento climatico.
Questa sua certezza era dovuta a un’intima convinzione. Ossia che nessun’altra compagine politica in Europa possedesse i suoi stessi requisiti e la sua stessa vocazione pedagogica, per affrontare nel modo migliore le questioni di fondo emerse sul proscenio, con un’impostazione coerente e lungimirante. Poiché non sarebbe stato più possibile limitarsi ad amministrare l’esistente o ad apportarvi qualche ritocco, ma sarebbe stato necessario governare i cambiamenti con una visione progressista costruendo il Nuovo in sintonia con determinati contenuti valoriali. Altrimenti le istituzioni rappresentative avrebbero corso il pericolo di venire insidiate da un’avanzata delle tecnocrazie, la speculazione finanziaria avrebbe preso il sopravvento sull’economia reale e la globalizzazione si sarebbe risolta in un processo di mercificazione anarchica anziché in un complesso di maggiori opportunità di sviluppo e di benessere per tutti.
Stando così le cose, il compito della sinistra era perciò quello di elaborare una cultura politica e di governo che avesse per riferimento nuovi programmi e orizzonti e creare un insieme di condizioni e garanzie tali da incanalare le innovazioni di ordine strutturale in funzione dell’interesse collettivo e dell’inclusione sociale. Insomma, essa avrebbe dovuto agire allo stesso modo di quanto i partiti d’ispirazione socialdemocratica avevano saputo fare con successo dal secondo dopoguerra in poi, in base a un indirizzo riformista volto a rendere possibile sia una più ampia partecipazione dei cittadini alla vita pubblica, sia una redistribuzione più equa dei frutti dello sviluppo economico capitalistico. Un indirizzo, questo, che adesso, dopo l’eclisse del «socialismo reale» e la scomparsa di una diversa alternativa sistemica, anche la sinistra post-comunista aveva finito per abbracciare. Ma adottando naturalmente alcune appropriate varianti rispetto al passato: così da corrispondere efficacemente alle rilevanti novità su più fronti maturate negli ultimi tempi.
Occorreva quindi ridefinire il ruolo dello Stato senza cancellarne le prerogative, declinare i principi della solidarietà senza cadere nell’assistenzialismo, far leva sui vantaggi che potevano derivare da un sistema di mercato più competitivo ma non al punto da soggiacere ai suoi intrinseci automatismi, agevolare tanto un prosieguo della crescita nei paesi avanzati quanto il riscatto di quelli più poveri ed emarginati.
Sarebbero stati dunque, in prima linea, i partiti, i sindacati e i movimenti d’opinione che si riconoscevano nei motivi ideali e politici della sinistra a dover dare una risposta valida e confacente agli interrogativi sul futuro che erano comparsi all’alba del nuovo secolo. Tanto più essi confidavano nella loro capacità di adempiere a questo compito, in quanto avevano acquisito un ruolo preminente ai piani alti dei principali paesi dell’Unione Europea. Perciò non erano più costretti a giocare di rimessa, come negli anni Ottanta, cercando di pagare meno dazi possibile nei confronti delle tesi ultraliberiste propagate dalla «Nuova destra» americana.
Adesso dovevano però prendere atto, innanzitutto, che non si potevano più esorcizzare le conseguenze di una dilatazione della spesa pubblica. Nel 1990 quest’ultima era giunta in Svezia a incidere con una quota del 60 per cento sul prodotto interno lordo; in Italia e nei Paesi Bassi si aggirava intorno al 54 per cento; in Francia rappresentava quasi la metà del Pil, in Germania era pari al 45 per cento; e continuava a espandersi. Era quindi necessario intervenire per arrestare questa spirale, senza usare l’accetta ma stabilendo quali fossero gli obiettivi irrinunciabili nella gestione della spesa statale e quali le modalità meno onerose a livello sociale per ridimensionarne l’entità.
Del resto, il fatto che non soffiasse più con tanta irruenza il vento del neo-conservatorismo, come ai tempi dell’America reaganiana e dell’Inghilterra thatcheriana, non esimeva la sinistra dall’esigenza di misurarsi con una realtà in via di rapida trasformazione su percorsi per lo più inediti. In seguito ai cambiamenti del paradigma tecnologico s’erano infatti aperte larghe brecce nelle vecchie roccaforti del lavoro dipendente; mentre la crescita di quello autonomo di fascia più alta non era tale da bilanciare la perdita di posti di lavoro nelle fabbriche. Inoltre, mentre non s’era ancora presa debita consapevolezza del passaggio (innescato negli Stati Uniti) da un capitalismo di proprietari-imprenditori a quello di finanzieri-manager, si stentava ancora a cogliere tutte le implicazioni della liberalizzazione dei mercati e quindi di una competizione sempre più serrata fra i produttori, che, se da un lato avrebbe generato adeguati benefici per i consumatori in materia di prezzi e di qualità, dall’altro imponeva lo smantellamento di monopoli pubblici nei servizi, la messa al bando di certe franchigie corporative nel settore agricolo e una revisione di determinate prassi socialprotezioniste invalse a livello nazionale. D’altronde, dopo che le porte dei singoli paesi dell’Ue non erano più chiuse a doppia mandata o quasi come in passato ma stavano infine aprendosi in un mercato globale, le imprese non potevano più scaricare sui prezzi parte dei ragguardevoli contributi sociali a cui erano soggette, o le conseguenze dei ritardi nella riorganizzazione del mercato del lavoro per riqualificare le maestranze in un contesto strutturalmente mutevole.
In uno scenario segnato da queste e altre novità di fondo, la sinistra avrebbe dovuto quindi stabilire quali elementi del proprio patrimonio identitario e quali strumenti della sua tradizionale strategia fossero dei punti fermi e intangibili e quali invece fossero ormai caduchi e si dovessero pertanto modificare.
Una riforma del welfare era diventata inderogabile anche a causa dell’invecchiamento della popolazione, che aveva reso più costosi la sanità e il sistema previdenziale. Mentre la revisione dell’interventismo economico pubblico era imposta dalle norme fissate nel febbraio 1992 dal trattato di Maastricht e dalle successive prescrizioni varate da Bruxelles. Peraltro non erano solo questi gli unici nodi da sciogliere. C’era quello, non meno spinoso, che riguardava l’atteggiamento da assumere di fronte agli sviluppi della globalizzazione che evocavano, da un lato, la minaccia di una finanziarizzazione dell’economia trainata dai principali trust d’Oltreatlantico; e, dall’altro, il pericolo di una concorrenza insostenibile dei paesi emergenti per via dell’inferiorità abissale dei loro costi del lavoro rispetto a quelli europei e del dumping fiscale.
Per giunta, bisognava tener conto di un’ulteriore circostanza: ossia del fatto che la partita decisiva per procedere sulla via dell’integrazione europea si giocava soprattutto su una stabilizzazione ed estensione dell’Eurozona. Il raggiungimento di un traguardo come la moneta unica – considerato un requisito fondamentale per l’unificazione politica della Comunità europea su basi federali – non solo prescriveva l’allineamento dei conti pubblici ai parametri stabiliti col trattato di Maastricht, ma comportava anche l’obbligo, per i paesi membri di Eurolandia e per quelli che vi sarebbero entrati, di uniformare il più possibile sia il quadro normativo sia l’assetto istituzionale delle loro economie sulla scorta di precise direttive finalizzate a un’omogeneizzazione del sistema fiscale e di quello bancario.
Era però evidente come, di fronte alla necessità di staccarsi da certi ormeggi rassicuranti del passato, nonché dai tabù ideologici degli ex partiti comunisti confluiti in maggioranza nell’Internazionale socialista, la sinistra riformista avrebbe incontrato una barriera di ostacoli e resistenze, in quanto si sarebbero rifatti vivi i retaggi di un radicalismo utopico e massimalista mai del tutto dissoltosi fra i propri militanti. D’altronde i partiti socialisti avevano avuto la meglio, nelle ultime tornate elettorali, anche perché sospinti da un’ondata istintiva di rigetto della loro base nei confronti di una sterzata rispetto alla rotta sino ad allora battuta. Perciò s’erano poi trovati, una volta investiti di responsabilità dirette di governo in quasi tutti i paesi della Comunità europea (salvo che in Spagna e in Irlanda), a dover porre mano a una revisione sia dei meccanismi dello «Stato sociale» sia di alcune misure di matrice keynesiana. E quindi dinanzi al rischio di perdere parte dei consensi del proprio «zoccolo duro».
Senonché, dato che i problemi sul tappeto erano ormai ineludibili, spettava ai loro dirigenti, tornati a occupare la «stanza dei bottoni» o riconfermati alla tolda di comando, da soli o alleati con varie forze di centro-sinistra, il compito di intraprendere quello che per tanto tempo avevano considerato un compito ingrato: ossia, da un lato, sfrondare molti rami dello Stato proprietario, ormai secchi; e, dall’altro, ridisegnare le strutture del welfare se volevano preservarne le fondamenta rispetto alle logiche e alle geometrie d’un tempo.
Dopo i «gloriosi trent’anni» susseguitisi dal secondo dopoguerra, l’era delle «aspettative crescenti» era finita o pressoché agli sgoccioli. Un lungo ciclo storico di espansione quasi ininterrotta era giunto all’epilogo, e di questo i leader della sinistra erano certamente consapevoli; ma ora si trattava di valutare tutte le implicazioni di questa svolta e di saper agire di conseguenza. D’altra parte, se non badavano a dar corso per tempo a determinate riforme strutturali, per quanto scabrose o impopolari fossero, avrebbero finito per cedere il campo alla destra, col risultato che sarebbero state assai più amare le medicine da ingoiare e più a fondo avrebbero inciso, nel corpo dello «Stato sociale», le operazioni di chirurgia finanziaria.
Si trattava perciò di passare da una protezione sociale generalista a forme di tutela commisurate alle diverse condizioni dei beneficiari; di elevare l’età pensionabile per le categorie non soggette ad attività usuranti, in modo da contenere una spesa previdenziale altrimenti esorbitante rispetto alle tendenze demografiche; di adottare, in caso di mobilità di quanti erano occupati, nuove politiche attive della formazione e del lavoro. D’altro canto i partiti di sinistra avrebbero corso il rischio, qualora fossero rimasti ostaggio delle loro fazioni interne arroccate su vecchie posizioni, di perdere il contatto sia con una massa di giovani per i quali il posto fisso era già da tempo un’astrazione, e che erano perciò esclusi dal sistema vigente delle garanzie sociali, sia con una miriade di nuove figure del mondo del lavoro, fuori dal perimetro d’azione dei sindacati, operanti nell’area delle professioni, dei mestieri e delle microattività autonome.
A sua volta la transizione post-fordista stava determinando una sostanziale modifica delle politiche di sviluppo praticate in passato, rivolte soprattutto a un’espansione quantitativa della produzione imperniata in funzione delle cadenze precipue dei grandi stabilimenti industriali e, come tale, caratterizzata da un’organizzazione di tipo verticale, per lo più rigida e non flessibile. Adesso l’economia reale era divenuta più mobile e ubiqua, risultante da tendenze continuamente mutevoli e da scelte operative individualizzanti.
Nel frattempo l’avvento, a partire dal gennaio 2002, della moneta unica aveva imposto ai paesi aderenti all’Eurozona vincoli imprescindibili nell’impostazione dei loro bilanci, in materia di deficit e di indebitamento. Ciò che era risultato ben chiaro al momento della sottoscrizione nel 1992 del trattato di Maastricht, ma che per un certo periodo non tutti i partner avevano preso alla lettera. Perciò la sinistra, se non voleva restare spiazzata, rispetto a una destra liberal-moderata in genere più osservante, doveva relegare d’un canto anche su questo versante la cassetta di certi suoi «arnesi del mestiere» ormai inservibili.
2. Ma esisteva la possibilità per la sinistra di esprimere una linea di condotta univoca? O di svolgere comunque un’azione politica convergente per il conseguimento di alcuni obiettivi prioritari? Era questo l’interrogativo di fronte al quale essa si trovava.
Al di là di una formale unitarietà di cartello sul piano politico, esistevano, nell’ambito della sinistra europea, due differenti modi di intendere e di professare la «missione» che la ispirava: quello che aveva quale principale punto di riferimento il New Labour inglese e quello che s’identificava per lo più con il socialismo di marca francese.
Il modello patrocinato da Tony Blair era senz’altro innovativo rispetto alla tradizione socialdemocratica, in quanto ambiva non solo a ridisegnare i tratti originari del welfare, ma a costruire una strategia che connotava diversamente i diritti di cittadinanza politica e sociale nel quadro di una realtà che stava cambiando per tanti aspetti. A spingere il leader laburista sulla strada di una revisione che trascendeva i parametri classici della socialdemocrazia era stato, nel mezzo degli anni Novanta, l’intento di rilanciare un partito altrimenti spossato ideologicamente e reduce da una sconfitta elettorale dopo l’altra, che l’aveva relegato per diciott’anni nel limbo di una sterile opposizione. E il suo sforzo era stato ampiamente premiato dall’elettorato inglese nell’estate del 1997 con un’ondata di suffragi di gran lunga superiore a ogni aspettativa.
Sulla scia di questo clamoroso exploit, dopo tante amarezze e frustrazioni, aveva preso le mosse un programma di governo tale da prefigurare una nuova prospettiva politica: quella che sarebbe stata poi definita la «terza via».
Essa era in pratica l’espressione di un filone del riformismo sociale inglese (ispirato dai postulati del fabianesimo) che attribuiva particolare importanza ai valori della cooperazione e della solidarietà, ai legami e ai doveri reciproci dei membri appartenenti a una stessa comunità. Per il resto, era stata importante, quanto alla definizione della linea d’azione del Labour Party, l’influenza esercitata su Tony Blair (dopo esser stato eletto nel 1983 alla Camera dei Comuni) da John Smith, l’erede di Neil Kinnock alla guida del Labour e prematuramente scomparso quando pareva destinato a insediarsi a Downing Street. Da lui Blair aveva appreso come fosse essenziale prendere infine le distanze dalla vecchia dirigenza laburista, in quanto a corto di idee e logorata dai ripetuti rovesci elettorali subiti nei confronti dei conservatori. Un passo dopo l’altro, egli era così giunto a ridurre il peso altrimenti esorbitante dei rappresentanti sindacali (come avveniva ai tempi in cui dettavano legge i minatori di Arthur Scargill), e poi a cancellare dallo statuto del partito ogni riferimento alla proprietà collettiva e, quindi, alla nazionalizzazione dei mezzi di produzione. Grazie a questa svolta il New Labour aveva acquisito larghi consensi fra il ceto medio senza perdere il contatto con la sua base elettorale tradizionale: ciò che gli aveva consentito di riportare un notevole successo nel 1997 sui conservatori rimasti «orfani» della Thatcher.
È vero che non tutti all’interno del partito erano convinti che l’adozione di riforme strutturali sostenuta dal premier britannico potesse risolversi a vantaggio dell’equità sociale; c’era, anzi, chi riteneva che Blair perseguisse in forme più morbide la politica economica thatcheriana, a cui egli aveva riconosciuto, del resto, il merito di aver agevolato il risanamento dei conti pubblici. Per giunta, c’era nello stile e nel linguaggio volutamente informale del leader laburista, così attento a dare di sé un’immagine accattivante, e nel suo presenzialismo attraverso i canali dei mass media, più di un motivo che induceva parecchi osservatori a giudicare eccessivamente disinvolto il suo atteggiamento e ad attribuire certe sue enunciazioni, più che a un autentico disegno politico, a finalità contingenti di carattere tattico, se non al suo personale talento di abile comunicatore.
Tuttavia il credito che Blair era riuscito a conquistarsi non si basava sulla sua duttilità e sulle sue indubbie capacità di suggestione. Le operazioni di privatizzazione da lui intraprese, dopo quelle attuate dai Tories, avevano agito da stimolo al sistema economico; le nuove aliquote dell’imposta sul reddito avevano alleviato anche le condizioni dei percettori di redditi più bassi e ridato ossigeno alla domanda; e per quanto riguardava le spese sociali una quota maggiore di prima era stata destinata all’istruzione e alla formazione, affinché quanti avevano perso il loro posto di lavoro potessero trovarne un altro e ai più giovani venissero assicurate n...

Indice dei contenuti

  1. capitolo primo. All’origine di dilemmi ineludibili
  2. capitolo secondo. Tra il dire e il fare
  3. capitolo terzo. Le due anime del riformismo
  4. capitolo quarto. I sintomi di un’inversione politica
  5. capitolo quinto. I nodi del terrorismo e dell’immigrazione
  6. capitolo sesto. Una sinistra a fari spenti
  7. capitolo settimo. Sotto i colpi della Grande crisi
  8. capitolo ottavo. Tra ripiegamenti e sprazzi di rivalsa
  9. capitolo nono. A confronto con tre questioni cardine
  10. capitolo decimo. Sotto la minaccia del fanatismo jihadista
  11. capitolo undicesimo. Una sinistra sempre più spiazzata
  12. capitolo dodicesimo. Il mantra dell’austerità
  13. capitolo tredicesimo. Fra euroscetticismo e nazional-populismo
  14. capitolo quattordicesimo. Alle prese con sfide cruciali e vecchi vizi
  15. capitolo quindicesimo. Alla stretta decisiva.