Immaginazione sociologica e immaginazione letteraria
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Immaginazione sociologica e immaginazione letteraria

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Immaginazione sociologica e immaginazione letteraria

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L'immaginazione sociologica può essere stimolata dall'immaginazione letteraria? Un'originale proposta di riflessione tra due forme di conoscenza: quella letteraria e quella sociologica nel rispetto delle specificità e della diversità. Un invito a guardare il testo letterario come una fonte preziosa per la ricerca e la didattica.

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Informazioni

Anno
2017
ISBN
9788858130360

1.
Sociologia e letteratura

1. Un rapporto clandestino?

Sin dalle sue origini la sociologia è stata attraversata e segnata dalla presenza della letteratura forse più che dalle scienze naturali e umane. Eppure le apparenze sembrano dirci il contrario. Rispetto alle scienze naturali e alle altre scienze dell’uomo è sempre esistito, da parte della sociologia, un riferimento esplicito, una riflessione consapevole che, a seconda delle diverse posizioni di forza della disciplina, comportava o una netta presa di distanza, una decisa differenziazione, come avviene appunto nel momento della sua fondazione, o al contrario un’ansia interdisciplinare.
Le invidiate scienze naturali venivano prese a modello per le loro metodologie e per il carisma di scientificità che le connotava, ma contemporaneamente i sociologi erano consapevoli che esse rappresentavano una forma di conoscenza e di sapere altro, nella diffusa convinzione che comunque nulla avessero a che fare con gli uomini e le loro organizzazioni sociali. Dalle scienze cosiddette umane, che appunto avevano come oggetto il rapporto individuo-società (la storia, la filosofia, la nascente psicologia), bisognava invece nettamente differenziarsi, stabilire rigidi confini per non esserne assorbiti o confusi. Di questo rapporto con le altre discipline molto si è dibattuto e molto si può imparare, in particolare da un testo fondamentale come Le tre culture di Wolf Lepenies (1987). Resta vero comunque che sui rapporti con le altre scienze i sociologi molto hanno scritto, sviscerato, sintetizzato e distinto, esaminando la questione da molteplici punti di vista. Assolutamente diverso è l’atteggiamento per quanto riguarda i rapporti con la letteratura e la narrativa, verso le quali la sociologia è stata quasi sempre reticente pur attingendo ad esse molto intensamente.
Forse, proprio perché le contaminazioni e gli indebitamenti sono stati più profondi e sotterranei, da parte dei sociologi si è scelta consapevolmente o inconsapevolmente una sorta di sospensione cognitiva. Non voglio sostenere che la sociologia non si sia mai occupata di letteratura, cosa che è avvenuta sia creando uno specifico ambito disciplinare come la sociologia della letteratura, sia facendo frequenti incursioni nella narrativa. Voglio invece sottolineare come i sociologi poco abbiano riflettuto sulla relazione fra quelli che si possono definire due diversi discorsi sul mondo, quello letterario e quello sociologico. La relazione è quindi rimasta rimossa, quasi nascosta, come una relazione illegittima. Ad esempio, gli studi sociologici sul rapporto fra testi letterari e contesti sociali, sui prodotti letterari come prodotti culturali, sul rapporto produzione-fruizione del testo, al loro livello più alto molto hanno insegnato sulla letteratura come fenomeno sociologico, ma poco o nulla dicono su cosa la sociologia ha acquisito o può acquisire dal confronto con la letteratura e su quali siano invece i pericoli di una contaminazione che non tenga conto delle diversità. Insomma, come si diceva, manca la riflessione sulla relazione sociologia-letteratura e manca di conseguenza un riconoscimento consapevole e riflessivo sulla rilevanza e la significatività della letteratura per il sapere sociologico.
In questione resta dunque non «la sociologia della letteratura», ma la riflessione sui rapporti consapevoli e inconsapevoli che la sociologia ha avuto e ha con i testi letterari. Manca insomma un discorso sociologico autoriflessivo sulla sociologia che usa la letteratura, sul perché e sul come la usi. Restano in sospeso questioni come: cosa possa trovare la sociologia nella narrativa; perché la forza di questo o quel romanzo si è imposta all’attenzione di questo o quel sociologo; perché nel romanzo troviamo spesso, sotto le forme specifiche della narrazione, le tracce di teorie sociologiche, a volte in forma di anticipazione e a volte come conferma1.
Nello sforzo di definire un proprio ambito disciplinare e una propria retorica, la sociologia, soprattutto al suo esordio, sembra aver voluto spazzare via ogni traccia di contaminazione con la letteratura. Come ricorda Lepenies, tra la fine del secolo XIX e l’inizio del XX sociologia e letteratura si ponevano come due pretese di verità sul mondo. Il conflitto fra sociologia e letteratura «non riguarda – ricorda Alessandro Dal Lago nella sua bella introduzione al testo di Lepenies – due modi di descrivere il mondo, ma due modi di dire la verità sul mondo, di stabilire valori o fini della società. Il conflitto fra sociologia e letteratura appare come lo scontro fra due pretese di autorità culturali» (Lepenies 1987, p. 14).
Il conflitto nasceva anche dal fatto che – come spiega Wright Mills – gran parte della scienza sociale del XIX secolo cercava ansiosamente di affermarsi come scienza, di trovare delle leggi paragonabili a quelle che avevano stabilito i naturalisti. E quindi si appiattiva su un orizzonte scientista, tralasciando tutto ciò che non fosse esprimibile sotto forma di leggi, di generalizzazioni, di costanti. Si lasciava così scoperto tutto il fronte dell’individuale, del particolare, il fronte emozionale, della sensibilità e della cultura, ritenuto territorio della letteratura, un territorio alieno nel quale però si potevano compiere frettolose e rapaci incursioni. «Mancando una scienza sociale degna di tal nome – scrive Wright Mills – i critici e i romanzieri, gli autori drammatici e i poeti furono la massima e molte volte la sola espressione delle difficoltà private e perfino dei problemi pubblici» (Mills 1995, p. 27).
Solo quando la sociologia stava nascendo – con Auguste Comte, Herbert Spencer e le ricerche di Sidney e Beatrice Webb, e ancora non si era sistematizzata come disciplina autonoma – da parte dei sociologi si riconobbe, sia pur con riluttanza, un ruolo «ancillare» alla letteratura. E solo in quel periodo fu molto vivo il dibattito – come ricorda Lepenies – fra sociologi e romanzieri. Ma va detto che quei sociologi interloquivano solo con quei testi e con quegli autori che, a loro giudizio, trattavano del mondo sociale e dei suoi problemi. La letteratura come opera di immaginazione e di finzione, le forme narrative prescelte di volta in volta dai romanzieri venivano decisamente escluse dai loro interessi. Per quei primi sociologi la letteratura poteva aggiungere qualcosa, essere di aiuto alla nuova scienza solo se poteva essere assunta sotto il genere del sociological novel, visto come una continuazione, un adattamento del romanzo sociale ai nuovi problemi della società del XIX secolo. I romanzi e la letteratura assumevano una legittimità solo quando potevano essere usati come uno «strumento» parallelo alle ricerche della sociologia. Lepenies ricorda come, ad esempio, per Beatrice Webb la letteratura potesse avere un ruolo solo come una sorta di verifica scientifica. Per Webb, la validità di un romanziere come H.G. Wells stava nel suo occuparsi di questioni sociali, nel costruire utopie sociali. E infatti in una pagina del suo diario, riportata da Lepenies, Webb così scriveva:
Lo amiamo [Wells] molto, è assolutamente onesto e pieno di trovate, un acrobata intellettuale, una sorta di giocoliere perfettamente consapevole del fatto che le sue ipotesi non sono verificate. In un certo senso è un romanziere che si è rovinato scrivendo romanzi; ma nella situazione attuale della sociologia è utile a dei Gradgrind2 come noi perché ci fornisce generalizzazioni più libere che possiamo utilizzare come strumenti di ricerca. E noi siamo utili a lui perché gli procuriamo una quantità di fatti accuratamente setacciati e una vasta esperienza amministrativa (Lepenies 1987, p. 179).
Con un piglio molto deciso e con un effetto che oggi appare quasi comico, veniva così stilata una lista ideale in cui si distingueva fra scrittori «utili» per la sociologia e autori «inutili» se non addirittura dannosi. Nella prima schiera erano promossi Herbert G. Wells, Thomas H. Huxley, Edward M. Forster, Somerset Maughman, Pearl S. Buck e Theodore Dreiser, ovvero quegli autori che rappresentavano e avevano a cuore i problemi sociali. La lista dei reprobi comprendeva Virginia Woolf con il gruppo di Bloomsbury e tutta l’avanguardia letteraria della prima metà del Novecento.
Capostipite degli scrittori «socialmente utili» era stato, a loro giudizio generale, Honoré de Balzac considerato come l’autore sociologico per eccellenza. Così, mentre la Comédie humaine veniva ridotta al rango di un’utile galleria di «tipi sociali», senza nessuna attenzione alla potente innovazione narrativa balzachiana, anche «il nuovo romanzo» novecentesco veniva liquidato senza rendersi conto di quanto dicesse sul farsi di una nuova soggettività, di un nuovo rapporto fra individuo e società e di un inedito modo di esperire. Il confronto fra la sociologia e la letteratura fu dunque più strumentale che una forma di riflessione fra due discorsi sul mondo che, proprio in quanto diversi, avrebbero avuto qualcosa da dirsi reciprocamente.
Eppure già i padri della sociologia – Comte, Durkheim, Weber, Simmel – di fatto nelle loro opere ricorrevano a testi letterari non propriamente «sociali». Durkheim usa Goethe, Lamartine e altri autori nel suo studio sul suicidio; Weber si serve dell’Iliade e dell’Odissea nel suo studio sulla città; Simmel è assiduo frequentatore di circoli letterari e il rigido positivista Comte, fiero oppositore della letteratura e strenuo difensore della purezza «scientifica» della sociologia, indica nel Don Chisciotte di Cervantes un testo fondamentale per lo studio della follia. Malgrado tutte queste incursioni, e di non poco conto, nello spazio letterario, i padri fondatori non si fermano a riflettere sul perché usino la narrativa come una vera e propria fonte, una fonte legittima per il pensiero sociologico; sul perché, pur sotto l’urgenza di definire cosa siano i fatti sociali, di stabilire metodi e tecniche d’osservazione della società, sentano comunque il bisogno di guardare alla realtà attraverso la finzione; sul fatto che la spiegazione-descrizione scientifica abbia bisogno dell’immaginazione letteraria.
Da cosa nasceva questo bisogno? Che cosa ha spinto e ancor oggi spinge autori come gli studiosi della scuola di Chicago, come Wright Mills, Goffman, Berger, Becker, Sennett, Bourdieu, solo per citarne alcuni, a cercare proprio nella finzione un ancoraggio alle loro ipotesi e intuizioni, una verifica delle loro analisi? Probabilmente più alta è l’aspirazione a decifrare il mondo circostante e l’impegno a interpretarlo, più forte si fa sentire il bisogno di guardare al di là di ciò che appare, dell’ovvio; più forte si fa sentire l’esigenza di andare «oltre il reale», di scandagliarne le cavità nascoste, le contraddizioni, «ciò che non è razionale» e non riducibile a leggi, né esprimibile in formule. Per comprendere ciò che è, sembra anche necessario guardare a ciò che non è stato, a ciò che poteva essere. Questo non essere, necessario all’interpretazione dell’essere, è il territorio della finzione letteraria e in quel territorio va ricercato.
Ma forse c’è dell’altro. Nella storia della sociologia, anche gli autori che hanno cercato di superare la dicotomia individuo-società e che più profondamente si sono interrogati sul rapporto processi sociali-soggettività, visto come un nesso inscindibile, e persino quegli autori che più hanno studiato l’identità e l’individualità, la vita quotidiana e il senso comune, sembrano essersi sempre fermati sulla soglia della descrizione-spiegazione di cosa poi effettivamente accada nella vita degli individui, ai loro sentimenti, alle loro emozioni, sulla soglia del come accade ciò che accade. Tutto questo è per statuto indescrivibile dalla sociologia e non può essere restituito neanche dalle storie di vita, ma è invece sempre vividamente reso dalla narrativa che – attraverso la finzione, una trama, un personaggio – sola riesce a rappresentare interno ed esterno, esplicito e implicito, consapevolezza e inconscio, la società e l’individuo; sola riesce a raccontare, come recita il titolo di un bel libro di Marina Mizzau, «storie come vere». Goffman, fra i sociologi certamente il più attento degli osservatori e il più accurato nelle descrizioni, lo afferma con grande forza:
Visto da vicino, l’individuo che unisce in sé in vari modi tutti i legami che ha nella vita, perde la nettezza dei contorni. Molti di coloro che hanno analizzato i ruoli non sono stati capaci di avvicinarsi alla fonte dei dati, influenzati dalla visione astratta della natura umana di William James, anziché della splendida prospettiva empirica fondata dal fratello Henry (Goffman 1979, p. 146).
Il paradosso sottolineato dall’ironia goffmaniana sta dunque proprio nel fatto che il romanziere Henry James abbia una prospettiva empirica più illuminante di quella del filosofo William James. Vuol dire che i sociologi debbono farsi romanzieri? Assolutamente no. Ma, seguendo l’invito e l’esempio di Goffman, forse farebbero bene a guardare alla realtà sociale anche attraverso gli occhi dei romanzieri. Le parole di Goffman sono anche uno stimolo a cercare di capire cosa e perché i più sensibili fra i sociologi cerchino con quel loro frugare appassionato nei testi di finzione.
D’altra parte anche i maggiori scrittori del Novecento molto devono alla sociologia. Alessandro Dal Lago sottolinea come con l’arte moderna siano i letterati e i poeti ad essere in qualche modo «contaminati» dal linguaggio e dal «discorso» delle scienze sociali:
Il fatto che l’arte moderna sia anche riflessione sulla propria funzione e sul proprio linguaggio fa sì che essa accetti il confronto con altri linguaggi. La grande narrativa tedesca della svolta del secolo risente dell’influsso diretto di Weber e di Simmel. Così avviene, tra gli altri, per Mann (si pensi solo alla disputa tra Naphta e Settembrini in La montagna incantata, in cui è stata avvertita un’eco dei cenacoli di Weber), per Musil (in cui l’ironia epistemologica è volta contro il catastrofismo di Spengler e riprende spesso spunti di Simmel) e per Hermann Broch, la cui riflessione sulla crisi della cultura e sul trionfo del Kitsch, a metà tra saggio sociologico e riflessione poetica, sarebbe impensabile senza il dibattito sui valori che animò la sociologia tedesca nei primi anni del nostro secolo (Dal Lago 1994, pp. 171-172).
È evidente che si tratta di una sorta di travaso inarrestabile da un discorso all’altro che finisce, proprio grazie all’ibridazione che ne consegue, col produrre quelle forme di conoscenza e di scrittura che Geertz ha definito «generi confusi» (Geertz 1988).
Il praticare questi «generi confusi» da parte della sociologia non riguarda solo un nuovo tipo di scrittura sociologica, ma una diversa lettura dei processi sociali e, come sostiene Alessandro Dal Lago, anche «strategie di scrittura funzionali alle strategie teoriche» (ivi, p. 181). La questione implicita nella relazione fra letteratura e sociologia, nel lavoro che ambedue sono andate facendo sulla scrittura, è quella che mette in campo la riflessività della conoscenza sociologica sulle sue procedure, sulle sue retoriche e sulla costruzione del suo stesso sapere.

2. Due diversi discorsi sul mondo

Il romanzo può dire e suggerire molte cose al sociologo finché resta finzione, finché resta ancorato al suo universo di discorso, alle sue retoriche e convenzioni e non si fa volutamente «sociologia». Se mai si fosse avverata l’utopia comtiana della nascita di un nuovo genere letterario, la poesia d’ispirazione sociologica, credo che ben poco avremmo potuto trovarvi. La sociologia avrebbe stritolato in un abbraccio mortale la creatività poetica, e forse si sarebbero diffusi quei racconti in cui – come scrive Berger riferendosi a Sartre – «marionette teoriche sono messe a passeggio attraverso una storia» (Berger 1992, p. 10).
Il sociologo può molto apprendere su sé e sul mondo se non si sostituisce al romanziere, se non rinuncia al suo tentativo di scientificità ed entra nel mondo della finzione rispettoso della diversità del discorso letterario e consapevole della propria specificità. I sociologi che sono caduti nella tentazione di farsi romanzieri, di scriversi da sé «una storia come vera», poco hanno aggiunto al loro indagare sulla s...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. Parte prima
  3. 1. Sociologia e letteratura
  4. 2. Il reale e il possibile
  5. 3. Modi e tempi in letteratura e sociologia
  6. 4. Incontri virtuosi
  7. 5. Quali romanzi, quale sociologia
  8. Parte seconda
  9. 6. Descrivere, analizzare, raccontare la città
  10. 7. L’esperienza metropolitana
  11. 8. Chicago, la grande calamita
  12. 9. Chi ha paura della metropoli?
  13. Riferimenti bibliografici