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Come la tecnologia ci divide

  1. 192 pagine
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Come la tecnologia ci divide

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Dopo i robot che sostituiscono i lavoratori manuali, ora l'intelligenza artificiale si diffonde nell'area di quelli intellettuali e dei servizi: analisti, medici, commercialisti, agenti di viaggio, giornalisti, avvocati. Verso una nuova stagione di diseguaglianze: sacche di povertà da disoccupazione o lavori precari sottopagati da un lato, una élite benestante che usa la tecnologia per vivere meglio e più a lungo dall'altro. Soggiogati dal fascino delle infinite possibilità offerte dall'universo digitale, non ci siamo resi conto di quanto iniqua, brutale e concentrata sia la nuova economia nata dalle innovazioni della Silicon Valley. I cervelli del web puntano sull'ultima tecnologia, la blockchain, per aprire una stagione democratica di Internet. Se non si interviene presto, però, rischiamo terremoti sociali e politici.

Giganti digitali, da Google a Facebook, cresciuti fino a diventare monopoli. Intelligenza artificiale che moltiplica le capacità dei robot. E la blockchain per provare a costruire una nuova era della condivisione. Viviamo in una rivoluzione fin qui sottovalutata: mestieri scomparsi, nuove professioni, la tecnologia che accentua le diseguaglianze tra i ceti della conoscenza, più ricchi e longevi, e chi resta indietro. E la politica? Si mostra incapace di indirizzare processi che cambiano l'economia, i rapporti sociali, perfino la percezione della democrazia.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788858132401
Argomento
Economics

1.
Silicon Valley,
fine della favola

Gennaio 2003. George Bush sta per trascinare l’America nella guerra contro l’Iraq e a me, al forum di Davos, viene data l’opportunità di intervistare, insieme a quattro giornalisti di altri Paesi, il Segretario di Stato Usa Colin Powell che preannuncia un conflitto ormai inevitabile. Ma, saltando da un evento all’altro di una manifestazione che, prima dei recenti fermenti antiglobal, era considerata la fiera dei capitalisti illuminati e della società aperta, quel giorno partecipo anche a un business lunch dedicato a temi energetici. In ogni tavolo c’è un personaggio incaricato di guidare la discussione. Nel mio il discussant è uno scienziato israeliano esperto di propulsione a idrogeno. Al mio fianco un ragazzo col maglione nero girocollo con il quale converso cordialmente, ma che non ho riconosciuto, è affamato di informazioni su questa possibile fonte di energia pulita.
È insaziabile, fa domande a raffica. Il suo entusiasmo è contagioso, commovente la sua delusione davanti allo scienziato che, risposta dopo risposta, mette in luce i limiti tecnici, i rischi e gli alti costi dell’uso dell’idrogeno per aerei o veicoli terrestri. Scopro solo alla fine che il mio vicino è Sergey Brin e non sono troppo sorpreso: Google, l’azienda da lui fondata con Larry Page, in quel momento è già nota col suo motore di ricerca, ma è ancora giovane. Non ha compiuto cinque anni, non è ubiqua, non è nemmeno quotata in Borsa. E viene gestita con una certa leggerezza.
Gennaio 2008. Ancora Davos, ancora il raduno annuale di migliaia di capi di governi e di multinazionali che, insieme ad accademici, tecnocrati e intellettuali cosmopoliti, celebrano nel gelo invernale delle Alpi svizzere la comune fede nella globalizzazione.
Google ha ormai dieci anni. Il suo motore di ricerca regna sovrano e l’azienda promette che presto ti farà raggiungere tutta la conoscenza del mondo con un click. La società è quotata e ha già moltiplicato il suo valore rendendo milionari migliaia di dipendenti che avevano le stock options e miliardari i due fondatori. Che, in linea con lo slogan aziendale allora ubiquo, don’t be evil, cercano di contribuire alla riduzione dell’inquinamento del Pianeta e al risparmio energetico offrendo migliaia di dollari di incentivi ai dipendenti che acquistano un’auto a propulsione ibrida. A tarda sera, durante un cocktail che segue un evento nel quale l’imprenditore miliardario inglese Richard Branson raccoglie le prime adesioni, compresa quella di Brin, ai viaggi nello spazio sub-orbitale a bordo della sua futura astronave Virgin Galactic, parlo di nuovo con lui di superamento dei combustibili fossili. L’argomento continua ad appassionarlo, ma alla fine Sergey non apprezza una mia battuta scherzosa sugli enormi consumi del Boeing 767, un aereo capace di ospitare oltre 300 passeggeri, che lui e Page hanno comprato e trasformato in jet privato col quale scorrazzano in giro per il mondo.
Lesa maestà e fine dei rapporti con Brin. Piccola testimonianza personale di una mutazione genetica: i «capitani coraggiosi» delle tecnologie digitali, figli delle università progressiste della West Coast a partire da Stanford, ma anche della controcultura libertaria fiorita in California nel dopoguerra, si allontanano dal loro modello di impresa fedele a un ideale, oltre che impegnata nella ricerca del profitto. Somigliano sempre più ai vecchi capitalisti «padroni delle ferriere» man mano che le loro imprese crescono e diventano i nuovi giganti dell’economia americana.
Certo, a differenza dei padroni delle ferriere di fine Ottocento con cilindro, sigaro e ghette, tutti concentrati sui loro affari e poco attenti alle condizioni di lavoro dei dipendenti, qui siamo davanti a una generazione di imprenditori visionari, a volte sognatori, che cercano di coniugare la fredda logica degli affari con progetti favolosi e costosissimi: un paese dei balocchi per miliardari nel quale vengono costruiti giochi che potrebbero diventare un giorno utili per l’umanità.
E così, mentre in Google-Alphabet Larry Page guida lo sviluppo di un gruppo arrivato a valere in Borsa più della somma tra la General Electric e le case automobilistiche Usa (General Motors, Ford e Fiat-Chrysler), il cofondatore Sergey Brin si è messo a costruire una rete di palloni aerostatici per dare all’Africa una copertura wireless senza dover sparpagliare una fitta rete di ripetitori in tutto il continente. Poi Brin si è lanciato nella medicina e nella genetica col progetto di allungare la vita oltre gli attuali confini naturali e di combattere malattie come l’Alzheimer.

Astronavi, dirigibili e mongolfiere dei tycoon sognatori

E ora nei giganteschi capannoni presi in affitto da Alphabet in una base della NASA nella baia di San Francisco, Brin starebbe costruendo (coi suoi soldi, non con quelli della società) un gigantesco dirigibile lungo 200 metri, quasi quanto gli Zeppelin degli anni Trenta del secolo scorso, capace di trasportare a basso costo 500 tonnellate di merci in zone altrimenti inaccessibili per mancanza di aeroporti. Forse invidioso davanti a tanto attivismo, anche Larry Page, alla fine, ha interrotto per un attimo la cura dei lucrosi affari del gruppo per lanciarsi in un’altra avventura favolosa ma dal sapore un po’ retrò: l’auto volante.
Non solo Google: mentre Richard Branson tenta da anni di inaugurare il primo servizio di turismo spaziale con la sua Virgin Galactic, Jeff Bezos alimenta la sua dimensione di sognatore – è stato un grande frequentatore di Disneyland anche in età adulta – coi missili della sua Blue Origin. È un’impresa per ora priva di ritorni economici che Bezos finanzia vendendo ogni anno un miliardo di dollari di azioni di Amazon, il gruppo che ha fondato e del quale rimane il capo incontrastato. Più concreto Elon Musk che ha affiancato alla produzione delle auto elettriche Tesla, delle batterie di nuova generazione e dei pannelli solari, lo sviluppo di missili e capsule spaziali della sua SpaceX: primo operatore privato in grado di soppiantare la NASA traghettando carichi – e presto anche astronauti – verso la Stazione spaziale internazionale in orbita intorno alla Terra. Ma anche lui è un visionario e gli scenari che traccia sono vagamente apocalittici: vuole preparare l’emigrazione dell’umanità verso Marte, convinto che l’homo sapiens stia distruggendo il suo Pianeta.
Questi tycoon dell’economia digitale, oltre che più visionari, sono anche assai più impegnati nella filantropia rispetto ai robber barons come Andrew Carnegie e John Rockefeller che, per rifarsi un’immagine dopo decenni di scorribande, un secolo fa regalarono all’America musei, biblioteche e teatri. Un modello di beneficenza che scompare davanti a un Bill Gates che in passato ha, sì, spazzato via dal mercato con prepotenza Netscape (suo il primo sistema di navigazione sul web, ben presto schiacciato da Internet Explorer nella guerra dei browser scatenata da Microsoft a metà degli anni Novanta) e combattuto battaglie sanguinose con lo Steve Jobs di una Apple ancora acerba. Ma poi si è riscattato: ha fatto un gran bene al mondo investendo decine di miliardi nella lotta contro l’Aids e contro le malattie endemiche in Africa.
Perfino nel suo caso, però, può essere difficile capire dove finisce l’intento filantropico e dove inizia la promozione di esperimenti basati su una certa visione tecno-ideologica: ad esempio quando Gates finanzia la modernizzazione informatica di molte scuole americane.
In ogni caso, l’intenzione di devolvere in beneficenza gran parte del proprio patrimonio – in sé nobile e sempre più diffusa tra i miliardari del digitale – non può esimere questi imprenditori da un esame di coscienza sul ruolo che stanno avendo non solo sulla cultura e sulla trasformazione della società, ma anche sulla rivoluzione del mercato del lavoro. E, addirittura, sull’indebolimento della struttura politica delle democrazie.
La figura più complessa, da questi punti di vista, è quella di Mark Zuckerberg che, ormai vicino ad essere l’uomo più ricco del mondo, promette di donare il 99 per cento della sua fortuna prima di lasciare la vita terrena. Ma aggiunge anche che non ha intenzione alcuna di perdere il controllo di Facebook, almeno per qualche decennio ancora. Di più: il fondatore del sito che fa dialogare due miliardi di persone inserisce nei suoi finanziamenti filantropici anche iniziative che servono a far avanzare la sua agenda politica.
Progetti magari destinati a risolversi in costosi naufragi, come nel caso dei 100 milioni di dollari affidati nel 2011 da Zuckerberg al carismatico sindaco di Newark, Cory Booker (oggi diventato senatore del partito democratico), per trasformare il sistema scolastico della città del New Jersey in un modello per l’America. Cinque anni dopo il fallimento di quell’esperimento, coi soldi spariti in mille consulenze e i tentativi di introdurre una promozione dell’insegnamento basata sulla meritocrazia anziché sull’anzianità, bloccati, il caso è stato raccontato in The Prize: Who’s in Charge of America’s Schools?, un libro-denuncia di Dale Russakoff.
Fino a oggi solo poche voci hanno criticato l’attività di imprese diventate rapidamente dei giganti capaci di demolire interi settori della vecchia economia: musica, informazione giornalistica, buona parte del commercio, agenzie di viaggio e molto altro ancora. Società che hanno ostentato, per di più, un certo disgusto per sistemi politici e governi come scusa per giustificare le tasse non pagate e le norme amministrative violate o aggirate. Tutto ciò è stato reso possibile, oltre che dall’abilità di questi gruppi nel confezionare servizi che sono parsi convenienti al consumatore, anche da una certa aura di santità che ha sempre circondato le start up della Silicon Valley (e dintorni), anche quando sono diventate aziende miliardarie: Facebook che ti fa scoprire il mondo e ti aiuta a farti nuovi amici; Google che, oltre a «non fare del male», ti regala conoscenza, traduzioni, mappe e tanto altro ancora; Apple i cui clienti sono degli innamorati pronti a passare notti in fila davanti ai suoi store per essere i primi a mettere le mani su un nuovo iPhone. E poi Amazon col suo sistema di consegne sempre più efficiente che, col servizio di Amazon Prime, crea negli utenti una vera e propria dipendenza.
Per molto tempo, se escludiamo le iniziative dell’antitrust dell’Unione Europea (dalla battaglia di quindici anni fa dell’allora commissario Mario Monti con Microsoft a quelle più recenti per il rispetto della privacy e per far pagare le tasse a Google e Apple), i cinque giganti che dominano la Internet economy non hanno praticamente trovato ostacoli. I guai sono cominciati nel 2013 col caso Snowden che ha creato una crepa nel rapporto di questi gruppi con un governo Usa al quale avevano fino a quel punto dato un silenzioso appoggio sulle questioni di intelligence e lotta al terrorismo.
I geni libertari della tecnologia, eredi della Beat generation e dei ribelli della controcultura, in combutta con la CIA e le «barbe finte»? Non sia mai! Facebook e le altre hanno rivendicato la loro verginità, mettendo sotto accusa il presidente che avevano grandemente contribuito ad eleggere: Barack Obama. E che per anni ha osservato con indulgenza le loro strategie espansionistiche, senza intervenire.
Apple ha addirittura opposto un diniego all’FBI che le chiedeva una chiave per superare le barriere di criptaggio dell’iPhone usato dagli attentatori del massacro di San Bernardino il 2 dicembre 2015: «Impensabile, dovremmo costruire un software che faccia saltare la blindatura che noi stessi abbiamo costruito a tutela dei nostri utenti. Non lo faremo mai, l’utente è sacro, siamo pronti ad andare fino alla Corte Suprema» per difendere il nostro buon diritto di respingere questo ordine del governo. Obama evitò reazioni veementi anche perché nel frattempo i «federali» trovarono il modo di superare quelle barriere elettroniche senza l’aiuto degli ingegneri di Cupertino, mentre Trump, ancora candidato, minacciò di chiedere all’America di boicottare i prodotti Apple.

Le due facce di Apple e l’anno orribile di Facebook

Poco dopo, però, davanti alle pressioni del governo cinese, furioso perché la sua censura veniva scavalcata da molti cittadini che navigavano in rete transitando per le VPN (virtual private networks, teoricamente impenetrabili), Apple abbassò la saracinesca del suo store virtuale dove questi strumenti potevano essere acquistati. «Rispettiamo le diverse leggi dei diversi Paesi nei quali operiamo», fu l’imbarazzata spiegazione. Fin troppo evidente il doppio standard: ribellione nei confronti di un ordine del proprio governo facendo prevalere la tutela degli utenti negli Stati Uniti, mentre in Cina si china il capo davanti agli ordini dell’autorità abbandonando gli utenti al loro destino.
Questo e altri episodi simili dei quali sono stati protagonisti, negli anni, altri giganti digitali, hanno alla fine messo in discussione tanto la coerenza etica quanto la capacità di questi gruppi di gestire problemi complessi. Il 2017, per molti di loro, è stato un vero anno nero. Lo è stato soprattutto per Facebook, prima travolta dallo scandalo delle fake news, poi da quello della pubblicità concessa in automatico tanto a inserzionisti russi che hanno cercato di alterare il risultato delle elezioni presidenziali americane, quanto ai razzisti che seminano odio contro gli ebrei.
Chiuso il 2016 con l’elezione a sorpresa, a novembre, di Donald Trump, Zuckerberg si era illuso di potersela cavare negando con toni perentori ogni ruolo e responsabilità della sua rete sociale nella diffusione di informazioni false messe in circolazione con l’obiettivo di alterare l’esito del voto. Travolto dalle critiche, il fondatore ha rapidamente capovolto la sua posizione ammettendo che Facebook era stato veicolo involontario delle fake news e promettendo, per il futuro, di correre ai ripari anche aggiungendo ai controlli fatti in automatico, usando appositi algoritmi, una sorveglianza delle informazioni messe in rete eseguita da un esercito di migliaia di supervisori in carne e ossa.
Poi Zuckerberg ha iniziato i suoi giri nell’America profonda per conoscere e farsi conoscere: un tour promozionale (forse con un significato anche elettorale) attraverso i 50 Stati dell’Unione. Ma alla fine dell’estate il copione dei pasticci combinati in modo sbadato, nascondendo poi la mano, si è ripetuto. Riflettori puntati, stavolta, sui comportamenti disinvolti di Facebook nella gestione dei flussi pubblicitari, la linfa vitale che tiene in piedi il gruppo. La società prima ha minimizzato i casi di pubblicità antisemita, di attività sessuali illecite e soprattutto quella commissionata da soggetti russi durante la campagna elettorale del 2016. Ma, incalzata dal procuratore speciale Robert Mueller nell’ambito della sua indagine sul Russiagate e davanti alle reazioni durissime del Congresso che esaminava anch’esso il caso, Facebook è stata costretta ancora una volta a cambiare rotta: un estremo tentativo di fermare un Parlamento che per la prima volta stava valutando, con un sostegno bipartisan di democratici e repubblicani, proposte di legge di regolamentazione della pubblicità online che prevedono una responsabilità preventiva dei gestori delle piattaforme per i contenuti immessi in rete.
Prima è scesa in campo la «numero due» del gruppo, Sheryl Sandberg, promettendo interventi per evitare il ripetersi di automatismi che lasciano filtrare messaggi come quelli di odio contro gli ebrei che gli algoritmi della società non erano stati in grado di intercettare. Un messaggio la cui incisività è tutta da verificare, visto che il giorno dopo è stato denunciato il caso di una pubblicità basata su un post che conteneva una minaccia di stupro veicolata su Instagram (altra società di proprietà di Facebook).
Poi è toccato allo stesso Zuckerberg uscire allo scoperto in prima persona: mentre Facebook decideva di con...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione. La profezia di Vonnegut
  2. 1. Silicon Valley, fine della favola
  3. 2. Da figli della Beat generation a nuovi monopolisti
  4. 3. Meraviglie e pericoli dell’intelligenza artificiale
  5. 4. Fine del lavoro?
  6. 5. Economia della condivisione, innovativa e truffaldina
  7. 6. Se l’uomo è indispensabile: l’atlante dei nuovi lavori
  8. 7. «Homo Deus» o «Homo premium?»
  9. 8. Blockchain: promessa o illusione per chi sopravvive sull’altra riva?
  10. 9. Fermate la tecnologia: voglio scendere (col salario garantito)
  11. 10. La sfida della tecnopolitica
  12. Nota bibliografica