Fuorigioco
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Fuorigioco

La sinistra contro i suoi leader

  1. 166 pagine
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Fuorigioco

La sinistra contro i suoi leader

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Il Pd è finito due volte fuorigioco. La prima volta perché ha rifiutato di accettare che una leadership forte è indispensabile per vincere. Ed è il miglior vaccino contro la degenerazione del partito personale. Ma la seconda, e più dura, sconfitta l'ha subita al proprio interno, dove il virus della personalizzazione si è diffuso nella sua variabile più letale: quella del microvoto e dei micronotabili. Intenti a combattere una battaglia di retroguardia contro il fantasma del leader, i Democratici sono rimasti impigliati nel ginepraio delle correnti. Cacciandosi in una strettoia dalla quale non sarà facile uscire.

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Informazioni

Anno
2013
ISBN
9788858110331
Argomento
Economia

1. Cortocircuito

Quando i politici italiani parlano di personalizzazione della leadership, usano – con rarissime eccezioni – una connotazione negativa. Al contrario, tutte le democrazie occidentali, che si tratti di regimi parlamentari o presidenziali, annettono grande importanza alla presenza di un leader forte e autorevole, e lo considerano una risorsa pienamente legittimata che si integra perfettamente con la solidità dei partiti. Basti pensare alla rivitalizzazione dei partiti americani – un tempo considerati in via di estinzione – grazie al ruolo chiave che svolgono nelle elezioni presidenziali e, successivamente, nel sostegno all’azione del governo. Come si spiega l’eccezione italiana di una politica antileader?
Le origini di questo tabù risalgono all’avvento del fascismo, quando la personalizzazione del potere diventa – per tutti gli oppositori del regime – sinonimo di antidemocrazia. I partiti che escono vittoriosi dalla Resistenza si presentano, quindi, antipersonali a doppio titolo. Da un lato, perché alzano il vessillo degli interessi aggregati e accomunati in nome di un ideale superiore, che si tratti del solidarismo cattolico o del collettivismo socialista. Dall’altro, perché la loro azione trae forza dal carattere unitario e oligarchico dei loro apparati, contrapposto alle degenerazioni delle leadership solitarie e autoritarie.
Questo orizzonte ideologico e organizzativo impronta tutta la Prima Repubblica, ne rappresenta il principale collante. E viene travolto dalla sua crisi. Dopo Tangentopoli, i partiti-chiesa – secondo l’etichetta di Alberoni – perdono il monopolio del sistema politico, e sono costretti a competere con il crescente appeal mediatico e la presa istituzionale dei nuovi leader, al centro come in periferia. Sembrerebbero così crearsi le condizioni per una – seppur tardiva – omologazione dell’Italia al contesto delle democrazie occidentali.
Alla rapida ascesa della personalizzazione sulla scena pubblica contribuiscono vari fattori. Il cambiamento è innescato dal credo del movimento referendario, il direttismo, che risuscita l’antico sogno roussoviano di una democrazia senza mediazioni e, mentre pone in pessima luce gli apparati dei partiti tradizionali, mette sotto i riflettori i leader portatori del messaggio di rinnovamento1. Ma non meno influente è l’esigenza di avvicinare governanti e governati, che dà vita a quella radicale riforma delle pratiche e dei costumi amministrativi che va sotto il nome di «primavera dei sindaci». La spinta decisiva proviene, tuttavia, da un evento anomalo, e unico, nel panorama internazionale: il fulminante exploit di Silvio Berlusconi, che, nel volgere di pochissimi mesi, conquista Palazzo Chigi. Un evento che, oltre a modificare radicalmente l’intera scena politica, avrà un effetto doppiamente regressivo. Provocando, nella sinistra, un vero e proprio cortocircuito ideologico.
In primo luogo, personalizzazione della leadership diventa sinonimo di berlusconismo, e viceversa. Un processo che da almeno un ventennio stava profondamente modificando l’habitat elettorale, istituzionale e partitico delle democrazie occidentali viene identificato e stigmatizzato con l’uso – e abuso – che ne fa Berlusconi. Associandolo alla messe di mezzi finanziari, aziendali e comunicativi cui il tycoon di Mediaset attinge per raggiungere i propri obiettivi. Un esito cui contribuiscono non poco i contenuti del messaggio del Cavaliere. Nelle parole – e sugli schermi – di Berlusconi, la personalizzazione si presenta come la riedizione modernizzata di un populismo mediatico. Uno spauracchio che sembrava relegato nelle protodemocrazie sudamericane e che, invece, ricompare con forza sulla scena occidentale. Trovando, dopo l’esordio sperimentale di Ross Perot nelle elezioni americane del 1992, un alfiere di straordinaria potenza in Silvio Berlusconi.
Come se non bastasse l’incubo della personalizzazione populista, il Cavaliere aggiunge un elemento inedito e insidiosissimo: la fusione tra leader e partito nella creazione di un partito personale. In questa forma, il virus della personalizzazione si presenta come un attacco micidiale e diretto per le macchine tradizionali, fondate su strutture di comando complesse, con routine di cooptazione oligarchica e ramificazioni territoriali spesso dotate di ampi margini di autonomia. Viceversa, la totale identificazione, in Forza Italia, tra l’organizzazione e il suo capo ricalca la line dirigista e ipercentralizzata di una struttura aziendale piramidale. Agile e rapida nei suoi movimenti sia al centro, dove il padre-padrone agisce come plenipotenziario, sia in periferia, dove intervento e reclutamento avvengono, all’inizio, quasi esclusivamente all’interno delle più forti e ramificate realtà aziendali del Cavaliere. Producendo una fusione tra personalizzazione e privatizzazione2.
Le conseguenze, sull’ideologia della sinistra, di questo abbinamento tra leadership personale, populismo berlusconiano e privatizzazione del partito saranno devastanti e durature. Portando a una identificazione tra personalizzazione della leadership e partito personale tanto surrettizia sul piano dell’analisi comparata quanto comprensibile – se non giustificabile – su quello della vicenda italiana più recente. Questa reazione di rigetto contagerà anche le esperienze più positive e innovative del centrosinistra, come l’elezione diretta dei sindaci nella primavera e autunno del ’933. Quello che poteva diventare il trampolino di lancio di una nuova stagione di rapporti tra partiti, leader ed elettori, viene depotenziato, in pochi mesi, dall’ombra – e dall’incubo – del berlusconismo.
Anziché diventare la piattaforma – istituzionale ed elettorale – per far decollare il nuovo Ulivo, i sindaci cominciano ad essere guardati con preoccupazione e sospetto. Il centrosinistra, a Roma, continuerà a fregiarsi delle loro ottime performance amministrative, ma si guarderà bene dal valorizzare le personalità dei primi cittadini. L’idea del «Sindaco d’Italia» resterà un’avventura isolata, e marginale, perfino nel messaggio di Prodi, attento a non guastare i precari equilibri interni dei partiti che lo appoggiavano molto più che a farsi promotore di una nuova leva di parlamentari e governanti che provenissero dalle fila dei – o si ispirassero ai – primi cittadini emergenti.
Oltre all’abbinamento della personalizzazione con Berlusconi e il suo partito privato, un altro fenomeno contribuisce a mettere l’ideologia partitocentrica della sinistra sulla difensiva: la spinta che porta l’Italia, come gran parte dei regimi europei, verso la presidenzializzazione. Anche in questo caso, il fenomeno è da tempo consolidato sulla scena americana e, come mostrerà l’analisi pionieristica di Poguntke e Webb, sta trasformando – a costituzioni invariate – anche le democrazie parlamentari4. Pur in assenza del passaggio molto importante dell’elezione diretta – presente solo nel semipresidenzialismo francese –, la spinta presidenzialista si fa sentire su tre piani, distinti e convergenti.
Il primo è quello del rafforzamento del potere monocratico del premier o primo ministro, le cui funzioni e la cui autorevolezza crescono notevolmente di peso nei confronti degli altri ministri. A ciò concorre un secondo fattore, il predominio del leader nel rapporto col proprio partito. L’aspirante premier – o premier in carica – diventa lo snodo decisivo di tutte le scelte più importanti, con livelli sempre maggiori di autonomia nei confronti dell’apparato. Ciò, infine, è anche una conseguenza del rapporto diretto che tende a instaurarsi tra il leader e l’elettorato, anche per la spinta che viene dalla penetrazione sempre più massiccia dei circuiti mediatici e del loro linguaggio, che valorizza la personalità, anche fisica, dell’individuo, le sue doti retoriche, la gestualità, la rapidità e incisività dell’eloquio. Nel giro di meno di un decennio, ci si ritrova distanti anni luce dalla sceneggiatura – e inquadratura – statica delle tribune elettorali, che avevano accompagnato e cristallizzato l’esordio del mezzo televisivo come nuovo strumento per raggiungere i pubblici di massa5.
Al salatissimo prezzo politico che il berlusconismo impone alla sinistra italiana, schiacciandola per un ventennio sulla trincea arretrata di una contrapposizione frontale contro un leader totalizzante, si aggiunge, dunque, un costo – non meno oneroso – sul piano culturale e istituzionale. Con alcune rilevanti eccezioni che avremo modo di analizzare, l’evoluzione del Pci nella cornice della Seconda Repubblica avviene con una ostilità pregiudiziale nei confronti dei suoi due pilastri fondativi: le innovazioni nella comunicazione e quelle nelle istituzioni, entrambe all’insegna della personalizzazione. Con la conseguenza di ritrovarsi, sempre più, fuori partita.
1 Cfr. il capitolo sul direttismo, e la letteratura sul tema, in M. Calise, Il partito personale. I due corpi del leader, Laterza, Roma-Bari, 2010, pp. 29-36.
2 La letteratura sul ventennio berlusconiano è sterminata. Sugli aspetti organizzativi, oltre al mio Il partito personale e la letteratura ivi citata, vedi E. Poli, Forza Italia. Strutture, leadership e radicamento territoriale, Il Mulino, Bologna, 2001. Una recente, ricchissima panoramica sulle componenti ideologiche è in G. Orsina, Il berlusconismo nella storia d’Italia, Marsilio, Venezia, 2013. Sul populismo di Berlusconi si veda anche D. Campus, L’antipolitica al governo. De Gaulle, Reagan, Berlusconi, Il Mulino, Bologna, 2006.
3 Il fenomeno è stato molto studiato negli esordi, meno nei suoi esiti successivi. Cfr. L. Vandelli, Sindaci e miti. Sisifo, Tantalo e Damocle nell’amministrazione locale, Il Mulino, Bologna, 1997; C. Baccetti, I primi quattro anni dei sindaci eletti direttamente (1993-1997), in «Amministrare», 28, 2, 1998, pp. 193-232; R. Catanzaro, F. Piselli, F. Ramella, C. Trigilia, Comuni nuovi. Il cambiamento nei governi locali, Il Mulino, Bologna, 2002; R. Segatori, I Sindaci: storia e sociologia dell’amministrazione locale in Italia dall’Unità a oggi, Donzelli, Roma, 2003; M. Caciagli e A. Di Virgilio, Eleggere il sindaco: la nuova democrazia locale in Italia e in Europa, Utet, Torino, 2005.
4 T. Poguntke e P. Webb (a cura di), The Presidentialization of Politics. A Comparative Study of Modern Democracies, Oxford University Press, Oxford, 2005.
5 Per uno sguardo penetrante sulle trasformazioni della televisione politica, vedi G. Cuperlo, Par condicio? Storia e futuro della politica in televisione, Donzelli, Roma, 2004.

2. Macroleadership

La personalizzazione del potere si sdoppia, da tempo immemorabile, in due modalità ben distinte, che trovano nella classica tipologia weberiana una sistemazione ancora oggi validissima. Da un lato c’è quello che Weber definiva il potere tradizionale, basato sullo scambio di risorse, in condizioni generalmente – ma non necessariamente – asimmetriche. È la forma patrimoniale e, per molti aspetti, prepolitica del potere. Caratteristico di questa forma di potere è il rapporto diadico che si instaura tra gli attori che vi partecipano. Un rapporto bilaterale, faccia a faccia, in cui vengono scambiate risorse in un circuito solitamente informale. Nel caso della personalizzazione politica, lo scambio è di voti con favori. E il termine comunemente adoperato è quello di rapporto clientelare o, nella versione – meno prescrittiva – anglosassone, relazione di patronage1.
Oltre al potere del danaro e degli interessi particolari, le persone possono esercitare un’altra forma di influenza, spesso molto più ad ampio raggio: il potere della personalità. Weber ne individua i tratti originari nella definizione di carisma, cogliendo una costante delle organizzazioni complesse, dall’antichità fino all’epoca contemporanea. La forza del carisma sta nell’ascendenza divina che – si tratti di re o profeti – viene solitamente associata al capo, e nella natura messianica del suo messaggio. Il carisma nasce da uno stato di grazia unito, quasi sempre, a una disponibilità al sacrificio che agisce sulla moltitudine come occasione palingenetica. Nel linguaggio politologico, si tratta di una transformational leadership. Il capo carismatico promette, per sua natura, un nuovo inizio, e in questa promess...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. Introduzione. Termopili
  3. Parte prima. Personalizzazione
  4. 1. Cortocircuito
  5. 2. Macroleadership
  6. 3. Microvoto
  7. 4. Virtuale
  8. Parte seconda. Autodafé
  9. 5. Antileader
  10. 6. Primarie
  11. 7. Porcellum
  12. 8. Micronotabili
  13. Parte terza. L’uccisione del leader
  14. 9. Il Sindaco
  15. 10. Il Premier
  16. 11. Il Segretario
  17. 12. Il Presidente
  18. Conclusioni. Tempi supplementari