L’economia cinematografica tra produzione e consumo
Il quadro
Tutte le strade partono da Cinecittà. O almeno così dovrebbe essere. Ma Cinecittà, capitale dei sogni cinematografici, è divenuta un non luogo del cinema e tale sarà per cinque lunghissimi anni. Come una meteora, alla fine di un percorso molto breve, Cinecittà è esplosa a contatto con l’atmosfera bellica e il suo corpo, senza dissolversi, si è disperso in molti pezzi e frammenti. Il periodo che ci accingiamo a esaminare oscilla tra un polo di massima dispersione e disgregazione e un progressivo, lentissimo lavoro di ricomposizione e riunificazione, in uno stesso luogo, dei molteplici processi produttivi.
È bene dunque ripartire da una situazione di fatto, così come si presenta agli occhi del maggiore John C. Cave, del quartier generale delle forze armate americane, a cui spetta il compito di redigere, ancora in piena guerra, un rapporto sulle condizioni di Cinecittà e un accurato inventario dell’esistente. L’operazione catastale, una volta identificata l’area e ciò che resta degli immobili, è sintetizzata in nove righe:
Cinecittà dista otto o nove chilometri da Roma e si stende tra la via Tuscolana e la Casilina. In quest’area ci sono gli studi del Luce e alcuni edifici ausiliari sono costruiti dall’altra parte di Cinecittà. Gli studi consistono in dieci edifici principali; in più, sulla destra, di fronte all’entrata principale, c’è un gruppo di costruzioni che comprendono: 1) una scuola di recitazione; 2) un istituto per la produzione di lungometraggi; 3) laboratori per la scenografia; 4) ristoranti, ecc. Secondo notizie non confermate, tutti i materiali cinematografici sono stati trasportati in Germania nel novembre 1943 e gli studi sono stati poi adibiti a depositi dei materiali tedeschi. Da questi rapporti risulta, inoltre, che sette degli studi più importanti sono stati distrutti dai bombardamenti dell’aviazione alleata1.
Il più importante centro di produzione europeo, in pratica, è stato annientato. Mancando un’industria cinematografica (l’errore americano – se di errore si vuol parlare e non di cinico sfruttamento della situazione – sarà quello di identificare Cinecittà con l’industria del cinema italiano) sembrerà più che legittimo, agli occhi dei produttori americani, occupare uno spazio e un mercato privi di rifornimenti, senza preoccuparsi troppo degli eventuali danni. Le truppe che hanno il compito di redigere delle mappe accurate, a mano a mano che risalgono la penisola, una volta assolta questa funzione, passano il testimone ad organismi che svolgono un lavoro specifico nel settore. Tra il 24 maggio e il 2 giugno del 1945 il dottor Rosario Errigo, mandato in missione al Nord per conto del governo italiano da Franco Libonati, effettua un inventario del materiale cinematogafico ancora esistente e redige una corposa relazione da cui risulteranno salvati e salvabili beni e mezzi quasi inesistenti. Operazioni analoghe verranno effettuate in parallelo per conto dello Psychological Warfare Branch (PNB)2 e, in seguito, dell’ambasciata americana3.
Il cinema, dunque, sembra una voce come un’altra. In pratica, non c’è industria, del Nord e del Sud, di cui non venga redatta, dopo la requisizione, un’accurata descrizione dei beni patrimoniali. Dalle miniere di zolfo della Sicilia a quelle di lignite del centro Italia, dai cantieri metallurgici alle industrie farmaceutiche, fino alle centinaia di piccole imprese a conduzione familiare, si procede con estrema cura, descrivendo lo stato dei macchinari, il numero delle persone impiegate, le possibilità di ripresa a breve termine e così via. Mentre però per l’industria, e per la maggior parte delle piccole imprese commerciali requisite, dalla Breda alla Montecatini, dalla Drusi e Vittozzi alla Fabbroncino e Cirillo di Napoli, o alle aziende Casimiri di Grosseto, è previsto un programma di riabilitazione, varato tra il gennaio 1945 e il dicembre dello stesso anno, per il cinema non è previsto alcun piano, o meglio, rimane come una voce a parte nell’interno dei piani complessivi americani4.
L’utilizzazione di Cinecittà come campo profughi per quasi sette anni – fino all’agosto del 1950 – e, contemporaneamente, quella degli stabilimenti Pisorno di Tirrenia (meno importanti, ma pur sempre in grado di offrire buone attrezzature e assistenza tecnica) come depositi delle forze armate americane, che vi impiantano l’Engineering Depot 2L 76 e se ne servono, in pratica, fino al novembre 1949, non sono, come si può capire, dovute al caso5.
Dopo il tiro incrociato dell’aviazione e della fanteria, l’industria cinematografica continua a subire, ben oltre la fine della guerra, un tipo di bombardamento che sembra voler fare terra bruciata e non offrire alcuna possibilità di ripresa. Una serie infinita di intoppi burocratici e le difficoltà oggettive di trovare sistemazioni alternative per i profughi e i prigionieri di Cinecittà rendono estremamente difficile una ripresa in tempi brevi. La volontà di rinascita del cinema italiano è però talmente forte da riuscire a riprendere il cammino, nonostante tutta una serie di forze contrastanti.
In ogni caso, se si vuole rapidamente riassumere ciò che avviene tra il 1944 e il 1950 a Cinecittà, è necessario prendere atto che, fin dall’indomani della liberazione di Roma, sulla rivista «Star», nel numero 6 di giugno, appare una lettera aperta al governo in cui si dice che a Cinecittà esiste ancora qualche impianto cinematografico recuperabile e che ci sono industriali, attori e tecnici pronti a ricominciare. La volontà di ripartire ci sarebbe. Di fatto gli studi di Cinecittà vengono subito occupati da migliaia di profughi, a cui non sarà facile trovare presto altre sistemazioni dignitose. Ancora nel 1946 gli stabilimenti risulteranno occupati da oltre un migliaio di persone, e benché gli Alleati si fossero dichiarati favorevoli a una rapida derequisizione degli studi e avessero proposto di spostare gli sfollati all’Eur, il ministero degli Interni si oppone a questa soluzione. A partire da quest’anno inizia una ricerca – abbastanza ben ricostruibile grazie ai documenti degli Archivi di Stato – di possibili sistemazioni alternative: a Rieti, come a Policoro e Pisticci in provincia di Matera, a Ducenta in provincia di Caserta, o al campo di Centocelle alla periferia di Roma, ma anche a Bari, a Taranto e a Pescantina in provincia di Verona6. La prima ipotesi si rivela impraticabile perché la caserma individuata è già occupata a tempo pieno dalle reclute del servizio militare, le altre rimangono pure ipotesi. I primi a effettuare una vera mossa in aiuto di Cinecittà saranno gli Alleati, che nel gennaio del 1947 comunicheranno di voler presto lasciar libero il villaggio operaio nei pressi di Cecchignola sulla via Laurentina. Le spese necessarie per consentire un adeguato utilizzo da parte degli sfollati bloccano anche questa possibilità e quando la situazione sembra risolvibile ne viene suggerita un’altra, dai rappresentanti della Società anonima degli stabilimenti cinematografici di Cinecittà: quella di spostare nei pressi di Centocelle tutti gli sfollati in una struttura chiamata Le Casermette che avrebbe potuto ospitare 1.500 persone. Proprio questa soluzione avrebbe consentito anche di ipotizzare una rapida ripresa produttiva all’interno di Cinecittà. Questa proposta viene presa come un’interferenza indebita in un terreno di competenza del governo e la risposta è che «il problema degli sfollati e dei profughi tuttora in Roma è ben più complesso e grave di quanto risulti nella lettera della Società Anonima Italiana degli Stabilimenti di Cinecittà». Anche questa possibilità si arena e mentre i problemi della gestione delle migliaia di sfollati e profughi diventano di giorno in giorno più difficilmente gestibili i rappresentanti della Commissione interna di Cinecittà decidono di rivolgere un appello diretto prima al presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, ricordando che il perdurare della chiusura degli stabilimenti sottrae lavoro a circa duemila persone, poi al giovane sottosegretario alla presidenza Giulio Andreotti, che si è dimostrato particolarmente sensibile ai problemi del cinema. Un’importante riunione del maggio 1947 stabilisce un concreto piano di sfollamento con chiare distribuzioni dei 2.200 profughi ancora presenti a Cinecittà. Solo che dai verbali non risulta alcuna data d’inizio delle operazioni. Dai documenti degli Archivi di Stato risulta evidente l’impegno di Andreotti per una ripresa dell’attività degli stabilimenti ma, nonostante i suoi solleciti, bisognerà attendere fino al 31 agosto del 1950 perché tutti i locali di Cinecittà risultino completamente sgomberati e restituiti alla proprietà. Nel frattempo viene emanata una legge (n. 88 del 15 marzo 1949) che, tenendo conto delle minori esigenze produttive del complesso di Cinecittà, consente una modifica al piano regolatore e l’esproprio di diverse centinaia di ettari di proprietà di Cinecittà da adibire «ad altre importanti iniziative di carattere edilizio», come indica un appunto dell’ufficio Studi e legislazione indirizzato al presidente del Consiglio dei ministri.
Se la vicenda delle speculazioni successive sull’enorme terreno circostante Cinecittà non ci interessa veramente, l’ambito più ampio della produzione nazionale che si vuole esplorare è osservabile soltanto se si rinuncia a privilegiare un percorso lineare ordinato e cronologico e ci si pone di fronte a un oggetto le cui parti sono collegate e unite dai bordi di una sfaccettatura a taglio di diamante, che consente di vedere riverberati su ogni faccia i riflessi e la luce di tutte le altre. Noi sappiamo che Cinecittà è la capitale della produzione, ma i suoi studi di posa non sono gli unici: qualche anno dopo, nel 1956, risultano attivi in Italia ben 54 teatri di posa, di cui 42 a Roma. A questi andranno aggiunti quelli costruiti da Dino De Laurentiis7 con i contributi della Cassa per il Mezzogiorno e gli studi di Tirrenia.
Analizzare nell’insieme le strutture produttive impone, date le caratteristiche dell’oggetto, di frantumare la ricerca. Non per inseguire la specificità e la distintività di ogni singolo elemento lungo tutto il cammino del prodotto, dalla fase di progettazione fino alla circolazione nazionale e internazionale, quanto per restituire, all’oggetto stesso, la sua ricchezza morfologica e il senso della molteplice possibilità di interrelazione tra le parti.
Le tessere mobili di questo mosaico si compongono tenendo c...