Quello che possiamo imparare in Africa
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Quello che possiamo imparare in Africa

La salute come bene comune

  1. 160 pagine
  2. Italian
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Quello che possiamo imparare in Africa

La salute come bene comune

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«L'Africa ci insegna, o almeno a me ha insegnato, che il lamento serve poco; ciò che fa la differenza è passare dal lamento al rammendo. E trovare strade nuove per dare valore a quanto ci sembrava perduto. Mi ha insegnato a mettere alla prova tutti gli schemi fissi, compreso un certo delirio di onnipotenza occidentale. Mi ha insegnato che la frugalità non è un limite, ma può diventare un'opportunità per far leva più sull'intelligenza e lo studio che sul denaro. E a non avere paura dei figli: sono vita, coraggio, sfida, futuro, entusiasmo.»

Un ragazzo della provincia veneta, laureato in medicina, sceglie di diventare sacerdote, impegnandosi nelle parrocchie di periferia. Poi incontra l'Ong Medici con l'Africa Cuamm e nel 1995 fa il suo primo viaggio in Africa, nel Mozambico da poco uscito dalla guerra civile. È l'inizio di un'avventura personale che si affaccia in quella comunitaria della più grande organizzazione italiana in Africa. In oltre 70 anni, attraverso programmi di cura e prevenzione in 41 Paesi, interventi di sviluppo dei sistemi sanitari, attività dedicate ai malati, formazione di medici, infermieri, ostetriche e altre figure professionali, il Cuamm si spende – come scrive Claudio Magris nell'introduzione a questo libro – per la crescita dell'Africa, il «parto epocale» di una nuova civiltà. In un continente in cui il 70% della popolazione ha meno di trent'anni, c'è molto da fare ma c'è anche molto da imparare. Su noi stessi, sulla precarietà dei confini che pretendiamo stabili, sul rapporto con l'ambiente, sulla connessione strettissima fra il tema della salute e quello della giustizia sociale, sulle scelte etiche e politiche attraverso cui è possibile abbattere barriere geografiche, economiche e culturali. E sulle risorse inaspettate che gli esseri umani riescono a trovare nelle situazioni più estreme.

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788858145944

IV.
Con l’Africa

C’è una domanda strana, martellante, provocatoria che gira intorno alla parola “bene”. Nel bene che scegliamo di fare c’è anche un tratto egoistico? Qual è il confine fra pura gratuità e compiacimento? Fra il senso di pienezza che la generosità comporta e l’appagamento del proprio ego?
Quando si parla di volontariato, di missioni umanitarie, di gesti di solidarietà, il discorso pubblico oscilla fra ammirazione e sospetto. E nel caso degli aiuti ai Paesi più fragili del continente africano, si oscilla fra lo slogan politico “aiutiamoli a casa loro” e le considerazioni sul rischio di un rapporto di dipendenza non virtuoso fra chi dona e chi riceve. Una sorta di colonialismo del bene nei confronti di una civiltà che una prospettiva ottusamente occidentale finisce col giudicare comunque inferiore, non in grado di autodeterminarsi.
L’uomo rannicchiato sul gradino della chiesa, nel cuore di una città qualunque, aspetta che qualcuno lanci una moneta nel suo cappello. O che gli lasci una coperta. C’è chi si china su quell’uomo e offre qualcosa. C’è chi, con un ghigno, si chiede perché quell’uomo non trovi la forza e la volontà di alzarsi da lì. Che cosa c’è oltre quella coperta, dopo quella coperta?
C’è la differenza tra fare qualcosa per qualcuno e fare qualcosa insieme, con qualcuno.
P.D.P.
Sono numerose, potrei dire quotidiane, le occasioni in cui mi trovo a rispondere alle domande di chi vorrebbe sostenere economicamente il nostro lavoro o quello di altre Ong. Le domande più semplici sono anche quelle più importanti: che cosa fate di preciso? Come funziona il vostro lavoro? I soldi che vi affido che fine fanno? Che cos’è esattamente la cooperazione? Cerco sempre di rispondere con chiarezza, mettendo in condivisione esperienze concrete, per evitare il rischio – assai frequente – che si pensi alla cooperazione come a qualcosa di astratto, o peggio, a un movimento di denaro. Ogni volta che ne ho la possibilità, insisto sul fatto che la cooperazione è prima di tutto incontro. E che, per essere autentica, non può prescindere dallo sguardo, dagli occhi, dai volti delle persone. Se non li hai toccati, visti, annusati, se non sei stato “con” loro, fai fatica a capire il senso profondo di ciò che è cooperazione, di ciò che è vicinanza, di ciò che significa essere insieme. Ed è fondamentale partire dal basso, dalla vita, appunto.
Esiste una cooperazione che parte dall’alto verso il basso, “top-down”, e poi c’è una cooperazione che parte dal basso, “bottom-up”. Io credo molto a questa seconda prospettiva: si parte dai problemi concreti, dalle situazioni concrete, dal quotidiano, dai chilometri di polvere che entra dappertutto, dal fatto che non c’è luce né corrente, dal fatto che non c’è acqua, dal fatto che non c’è la connessione che pensi che ci sia, dal fatto che è piovuto tanto e perciò l’auto o il camion con i farmaci non riesce ad arrivare...
Eppure esiste, ed è molto diffusa, la cooperazione dall’alto, una cooperazione fatta solo di documenti, di strategie, magari elaborate in un bell’ufficio, al fresco, seduti su una comodissima poltrona, il frutto di discussioni fatte a diecimila chilometri di distanza dal luogo di cui ci si occupa. Tutto rischia di ridursi a teoria, a discussioni sui diversi modelli di approccio, ad adesione all’una o all’altra strategia di intervento. Qualcuno, per esempio, arriva a proporre una cooperazione fatta solo da un asettico trasferimento di denaro. Ma le risorse finanziarie, da sole, non bastano. Manca, appunto, quel “con”, l’effettiva compromissione con la vita vera, mancano le occasioni per crescere insieme.
Ci sono Paesi e istituzioni internazionali che stanziano fondi solo a supporto del budget dei ministeri locali. Concettualmente funziona, perché presuppone che poi il ministero agirà per sviluppare le sue politiche di azione sul territorio. Ma concretamente? Si è sempre a rischio di mismanagement o, come dicono i portoghesi, di desvio, ovvero di un uso non limpido, non trasparente dei soldi. Oltretutto, l’impatto di questi soldi sulla base della piramide, cioè sugli strati più deboli della popolazione, è minimo. Perché? Perché si fermano prima. Arrivano nella capitale, dalla capitale passano alle regioni, dalle regioni dovrebbero passare alle province, poi al distretto, ma i passaggi saltano, e i soldi si perdono...
Crediamo in una cooperazione fatta da persone e vite condivise, e solo dopo dai mezzi e dalle risorse. I soldi vengono sempre dopo le persone. Una cooperazione che si riducesse solo a scambi di denaro non è cooperazione: non cresce chi riceve, non cresce chi dona. Diventa merce di scambio, non condivisione di vita, di valori. Non crescita reciproca ma sterile mercanteggiare. Se non c’è condivisione di vita, non c’è vera cooperazione. Il confronto autentico con l’altro – come ha scritto papa Giovanni XXIII – ci aiuta a definire meglio la gerarchia delle verità.
Un altro pericolo della cooperazione dall’alto è quello della politicizzazione, di una strumentalizzazione o di un condizionamento da parte delle istituzioni politiche e talvolta anche di quelle religiose. Anziché indirizzare gli aiuti alle aree più povere o agli strati più fragili della popolazione, si fanno calcoli di convenienza: nella prima missione in Sierra Leone avevamo visitato quattro o cinque diverse realtà, individuando nel distretto di Pujehun – il più povero del Paese, 375.000 abitanti con un unico ospedaletto funzionante – quello su cui attivarci. Il ministro della Sanità era interessato invece a un’area che rappresentava nei fatti una base per il suo consenso elettorale; uno dei vescovi spingeva perché ci concentrassimo su un altro ospedale, nella sua diocesi. In un confronto faticoso e molto franco, abbiamo spiegato la nostra scelta, senza escludere di poter lavorare in futuro anche nell’area da loro indicata.
Le priorità riguardano sempre l’ultimo “miglio” del sistema sanitario: questa espressione, a noi tanto cara, indica le esigenze degli “ultimi degli ultimi”, quelle che papa Francesco ascrive alle «periferie geografiche ed esistenziali». È anche la priorità del Vangelo, che guarda dove è più forte l’offesa alla dignità umana, agli umiliati, ai più poveri tra i poveri.
La domanda essenziale sulla cooperazione credo sia questa: su cosa mi sto focalizzando? Cosa mi sta davvero a cuore? Qual è la mia priorità? Il cooperante di una Ong che va in Africa, aiuta un bambino denutrito e lo fotografa, pubblica quella foto per compiacersi della sua “missione”, ma non rispetta quel bambino, quella dignità, non la mette al primo posto: ecco, lì c’è un problema. E tuttavia, se quella fotografia che finisce su un giornale o in rete suscita l’empatia, la compassione di chi la sta guardando, quel circolo difettoso è tornato ad essere in qualche modo virtuoso.
Tutto questo per dire che niente è semplice, che le intenzioni migliori possono produrre risultati pessimi e viceversa, che dobbiamo coltivare ogni giorno la vera domanda di chi fa cooperazione: qual è il vero obiettivo del mio essere qui? Quando sentiamo di “fare il bene” siamo più interessati all’effetto concreto che quel gesto produce o all’apprezzamento degli altri, al loro plauso? E insisto: quando sentiamo di “fare il bene”, siamo interessati al beneficio vero che quel gesto produce o al nostro autocompiacimento? È comprensibile, è umano che si senta l’esigenza di dire a voce alta ciò che si è fatto per gli altri, ma il punto è che a volte questo sembra essere l’unico interesse, prevale su tutto il resto, prevarica e offende la persona che aiuti o con cui collabori. Non può, non deve essere questo il fine.
Allora in Africa si va per chi? Per che cosa? Si può andare per noi stessi, con la sicurezza di modelli occidentali che non riusciamo a mettere in discussione, o invece per una diversa e più impegnativa scommessa. Quella di provare, con ago e filo, a cucire e ricucire, a tessere tutti gli elementi di una continuità assistenziale che risponda ai bisogni sanitari di tutti, specie dei più poveri.
Non è facile trasmettere all’opinione pubblica l’importanza della nostra scelta: non lavorare per sé, per i propri obiettivi o modelli, ma portare avanti un valore strategico, che risiede appunto nell’impegno costante di rafforzare i sistemi sanitari locali. Tutto questo si svolge sui tre livelli del sistema sanitario, che sono la comunità, i centri periferici e l’ospedale, e costituisce anche la premessa del nostro programma “Prima le mamme e i bambini”. Significa entrare nelle realtà locali facendo propria un’idea di sviluppo che è fondamentalmente un rapporto di responsabilità tra comunità e istituzioni. Come diceva Amartya Sen in modo illuminante, lo sviluppo è nel rapporto tra persone e persone, tra persone e istituzioni, tra istituzioni e istituzioni.
Se dovessi spiegare cos’è un sistema sanitario, e a cosa serve, partirei da un’affermazione: è il modo con cui una società decide di affrontare un problema comune, quello della salute. Un sistema sanitario è efficace se universalistico, cioè se tutta la popolazione ne può fruire. Ed è un sistema solidaristico, perché sostenuto attraverso la fiscalità generale: in questo senso un’espressione di solidarietà tra sani e malati, tra abbienti e meno abbienti, e tra le diverse generazioni.
L’Africa ha dei sistemi sanitari che però non sono ancora ben definibili come il frutto di un costrutto sociale. Ne ha ereditato la struttura da un lato dall’impronta coloniale, dall’altro dall’impegno del mondo missionario. Solo a partire dagli anni Sessanta si può parlare di sanità pubblica, vale a dire una rete di distretti che sono gli elementi base, i mattoni fondamentali, su cui poggia tutta la risposta sanitaria di un Paese. Si tratta di entità territoriali e giuridiche in sostanza assimilabili alle nostre unità sanitarie locali. Ciascun distretto ha al suo interno tre livelli di prevenzione, diagnosi e cura. Il livello ospedaliero, dove una persona gravemente ammalata o in stato di emergenza può richiedere una sala operatoria, una trasfusione, delle competenze disciplinari chirurgiche, anestesiologiche, pediatriche e così via. Al di sotto c’è una maglia diffusa e capillare costituita da centri e posti di salute sparsi su tutto il territorio e che offrono la prima risposta ai bisogni sanitari più comuni. E infine c’è il livello comunitario, costituito dalle comunità e dai villaggi, dove a prevalere sono soprattutto le azioni di prevenzione e di educazione sanitaria.
Qual è il ruolo del Cuamm? In sostanza opera all’interno e in collaborazione con i distretti e le regioni di riferimento per rafforzare e migliorare lo stato di salute della popolazione, con un’attenzione specifica alle situazioni più fragili e povere.
Ma perché il Cuamm insiste da sempre sul rafforzamento dei sistemi sanitari e ne fa la sua strategia? Perché è nato da medici ospedalieri che andavano a lavorare in ospedale su chiamata e che poi hanno maturato, con il tempo, una riflessione critica: si sono accorti, per dirla con un’espressione scritta dai medici di allora, negli anni Cinquanta, che «dovevano uscire dal recinto fiorito degli ospedali missionari». Cosa c’è al di là del recinto fiorito? Il mondo! Ci sono le altre strutture sanitarie che possono essere ecclesiastiche o governative, e poi ci sono le comunità. Per garantire l’accesso alla salute di tutti ci deve essere l’impegno di ciascuno: un impegno comune al servizio della salute delle persone e delle comunità, in una logica di partenariato e di collaborazione.
A tal proposito, e sempre nell’ottica di essere al servizio dei sistemi sanitari locali, un aspetto di cui sono sempre più convinto è l’importanza di una permanenza lunga nei luoghi in cui operiamo. La cooperazione non è “toccata e fuga” e lo sviluppo è frutto di tempi lunghi, pazienza, fiducia guadagnata giorno per giorno. Anche quando si affronta un’emergenza, l’intervento che si fa deve essere inteso come il segmento di un lavoro più duraturo, che abbia a cuore il sistema sanitario già esistente. Né mi convince che si lavori per risolvere un problema solo finché il donatore te lo consente: ovvio che si debba fare di tutto per cercare fondi e finanziamenti per poter continuare, ma è ancora più decisivo rispettare l’impegno con una comunità, non tradirla solo perché i soldi finiscono. Non si tratta di un obbligo: si tratta semmai di mantenere fede a un patto. E non c’è dubbio che questo abbia anche un ritorno su un piano personale, direi però più di senso – il senso della mia vita – che di compiacimento egoista.
D’altra parte, la scelta della fedeltà – nel rapporto tra due esseri umani così come in quello con una comunità – può essere pesante, faticosa, piena di paure. Un esempio? L’ospedale che abbiamo preso in carico a Bangui, nella Repubblica Centrafricana, in collaborazione con l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma: ci siamo resi conto che solo il consumo di farmaci in questa struttura viene a costare circa 50.000 dollari al mese. Verrebbe da dire: andiamo via, non li abbiamo 50.000 dollari solo per i farmaci. Come si fa a mollare, però? È in queste circostanze che l’autenticità del tuo voler fare il bene viene messa alla prova. E può superare questa prova se il bene che intendi fare è un bene che va oltre te stesso, che non è tuo, che pone le priorità fuori da te, che non alimenta il tuo ego, che non diventa una droga, che è dunque pura gratuità.
Se un Paese si trova al 188° posto su 189 nella graduatoria che mette in fila le nazioni in base all’indice di sviluppo umano, se quel Paese – grande due volte l’Italia – ha solo quattrocento chilometri di strade asfaltate, se la guerra civile l’ha stravolto, rendendo lo Stato uno Stato fantasma, un ospedale, anche solo un ospedale, diventa la prima pietra della ricostruzione.
Nella Repubblica Centrafricana la copertura vaccinale dei bambini in alcune aree non supera il 10%, il numero delle persone positive al test dell’Hiv supera le centomila unità (e solo la metà è in trattamento), la mortalità di mamme e bambini è elevatissima. Pensare che in tutto il Paese ci sono sei pediatri dà la misura della sfida che ci aspetta, in una zona dell’Africa ancora sfruttata da un Occidente che finge di credere che il colonialismo sia finito. E invece, purtroppo, esiste ed è regolarizzato: in cambio di pepite d’oro o di grafite, vengono vendute armi che rendono ancora più cruenta una guerra civile già violentissima.
Nell’ospedale di Bangui, tra i pazienti ammassati, non è insolito trovare bambini con problemi ortopedici serissimi: spesso, usati come staffetta dalle fazioni che si fronteggiano, vengono catturati dai nemici e appesi ai rami degli alberi per le braccia. Gli arti superiori risultano stirati in modo abnorme, quelli inferiori sono spesso fracassati per via delle cadute. A parte quello di Bangui, ci sono sei ospedali regionali, senza acqua ed energia, il personale è scarsissimo e poco preparato: una volta è capitato che a un ragazzino con un’infezione agli arti inferiori fosse stato tagliato un pezzo di femore e richiusa la gamba senza sostituirlo. Naturalmente, dopo qualche tempo, non si reggeva in piedi...
Un bagaglio simile di esperienze, anche dolorose, alle spalle mi ricorda la chiarezza di un’intenzione, di un impegno; mi fa sentire come la mia vita sia segnata irreversibilmente da venticinque anni di esperienza nella cooperazione, che nel tempo è cambiata moltissimo. All’inizio si partiva, molto semplicemente e generosamente, per andare a dare una mano. Arrivava la richiesta da parte dei vescovi e c’erano dei pionieri, medici, che andavano lì a servire le persone, restandoci anche per dieci o quindici anni. Non avevano altre pretese se non quella di servire e servire bene, condividere la vita, fare il proprio dovere fino in fondo. Partivano per contribuire a migliorare la situazione. Tutto, però, rimaneva su un piano prettamente personale.
L’esempio di figure come Dal Lago ci ricorda la necessità di proiettarsi su un orizzonte più ampio, che dia alla cooperazione il senso e l’utilità di qualcosa che non si esaurisce nell’esperienza e nell’azi...

Indice dei contenuti

  1. Un parto epocale di Claudio Magris
  2. I. «I have a dream»
  3. II. Come una persona
  4. III. Sognatori concreti
  5. IV. Con l’Africa
  6. V. Aiutarli a casa loro
  7. VI. Costruire e ricostruire
  8. VII. La salute come bene comune
  9. VIII. Quel 70%