I demoni del potere
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I demoni del potere

  1. 112 pagine
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I demoni del potere

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Quanto più la sovranità confonde i propri tratti nel potere anonimo dei mercati finanziari, tanto più la vita di interi popoli resta non solo offesa, ma anche denudata, esposta allo sguardo pietrificante della nuova Gorgone. Un libro capace di scuotere la coscienza del lettore, spingendolo al diretto contatto con la vita offesa dei nostri giorni.Roberto Esposito, "la Repubblica"

A creare il mondo pietrificato è un potere impalpabile, immateriale, astratto. Il libro di Revelli, di rara efficacia, invita a riflettere sulle caratteristiche permanenti del potere e sull'enorme difficoltà di incatenarlo con la forza del diritto.Maurizio Viroli, "il Fatto Quotidiano"

C'è qualcosa di più selvatico dei mercati a briglia sciolta? Si tratta di allestire un nuovo rito sacrificale, pronto a qualsiasi saccheggio e a qualsiasi violenza, questa volta sull'altare dell'ottimizzazione delle risorse. Il bottino c'è ma non si deve vedere, la preda viene braccata ma dirlo non è chic.Bruno Accarino, "il manifesto"

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858111321
Argomento
Economics

Capitolo secondo.
Il canto delle Sirene.
Ovvero il potere e l’ascolto

Nel repertorio primordiale dei «demoni del po­tere», tra le figure teriomorfe, subito dopo la Gorgone vengono le Sirene. Esse fanno irruzione nell’universo culturale novecentesco quasi contemporaneamente al ri­chiamo kelseniano al «volto di Gorgone del potere», sempre in area tedesca, introdotte da due autori da ­Kelsen ­assai lontani, apparentemente agli antipodi. Horkheimer e Adorno le pongono al centro del capitolo introduttivo della loro Dialettica dell’illuminismo, a simboleggiare la fine della preistoria (l’esaurimento del Mito) e il passag­gio al tempo della ragione (al mondo del Logos). A segnare cioè il confine varcato nel trapasso all’«ordine patriarcale».
Metà donne e metà uccelli (prima di diventare per metà pesci) le Sirene sono in effetti, come d’altra parte la Gorgone, figure di confine: tra animalità e umanità, tra natura e cultura, tra terra e cielo, tra mondo dei vivi e regno dei morti, tra canto e racconto... Com’è stato scritto, «abitano il confine del senso»1: «presidiano il limite» tra il «qui» e un «altrove», tra «due modalità di dire e pensare»2. Anzi, sono presenze «al limite». Plutarco ne colloca la sede «sulla soglia del Paradiso, col compito di introdurre le anime alle loro sedi iperuranie»3. Strabone di fronte a Positano, anche in questo caso vicino alla porta dell’Ade. E d’altra parte «sia il fiume Acheloo [il padre che le ha generate], sia lo scoglio su cui poggiano le Sirene sono luoghi di confine»4: il fiume segnava il limite a nord-ovest con le terre dei barbari; lo scoglio sta, per sua natura, tra mare e terra, indistinguibile dall’uno e dall’altra.
La loro stessa genealogia le pone in un rapporto intimo con la morte: una versione del mito le collocherebbe tra le ancelle di Persefone e attribuirebbe la loro trasformazione in uccelli col volto e busto di donna alla punizione inflitta dalla madre di quella, Demetra, per non esser riuscite a impedire il rapimento della figlia per opera di Ade, mentre «insieme coglievano fiori». Un’altra versione le vorrebbe punite da Afrodite, per la loro freddezza sessuale e per la costante disapprovazione manifestata nei confronti dei suoi costumi lascivi. Quanto all’iconografia, le dota di alcuni dei simboli del potere nella sua dimensione più primitiva e predatoria, nel suo carattere ferinamente «mortale»: «Gli artigli ai piedi degli uccelli – scrive Kerényi – sono a volte fortissimi e ricordano le grinfie di un leone, quasi volessero alludere a un’affinità tra Sirene e Sfinge [...] Non si può non pensare alle Graie, ‘vergini simili a cigni’, o alla Medusa, almeno nelle raffigurazioni in cui un uccello provvisto di un volto di Gorgone e di due paia d’ali afferra con ciascuna mano e rapisce un giovane che si dimena»5. Un solo elemento, aggiunge Kerényi, le differenzia dagli altri mostri esclusivamente predatori come le Arpie o le Erinni, ed è che le Sirene si accompagnano col canto, «quell’arte che le avvicina alle Muse»6.
L’etimologia, d’altra parte – è sempre Kerényi a ricordarcelo –, riconduce il termine seirenes, al maschile, a una specie di api o di vespe; e da un tipo di vespe, chiamate dai greci pemphredon, traeva il nome Penfredo, una delle due Graie nominate da Esiodo, le quali condividevano con le Gorgoni (e in una versione minoritaria anche con le Sirene) la denominazione genealogica di Forcidi7. Secondo un’altra interpretazione suggerita da Graves il nome delle Sirene deriverebbe dal verbo seirazein, il quale significa sia «legare con una corda» («avvincere», dunque, «ammaliare» o «catturare», «ridurre in proprio potere»), sia «prosciugare», «disseccare» («Séirios, Sirio, è la stella del Cane, che segna con la sua presenza il culmine della stagione estiva»8), il che farebbe delle Sirene la rappresentazione «in forma gemellare [del]la dea della mezza estate, quando i pascoli in Grecia si disseccano»9. Demoni meridiani10, dunque, dotati del potere di indurre quella perdita di coscienza e quel senso di abbandono simile alla febbre alta e per certi versi alla morte che coglie nell’area mediterranea gli uomini nell’ora ferma del mezzogiorno, quando il sole è allo zenit e tutto pare arrestarsi11. Comunque, demoni dal potere distruttivo e tendenzialmente letale.

Ulisse e le Sirene

Se ne parla, sempre al plurale, ma in numero variabile, in un’infinità di testi, nelle Argonautiche, in Apollonio Rodio e nello Pseudo-Apollodoro, poi in Platone. Ma la prima presenza significativa delle Sirene la troviamo proprio all’origine del nostro universo culturale e storico. Alla radice del­l’immaginario occidentale, potremmo dire, in forma elementare di calco, di matrice, di ur-text: in Omero. In particolare nel più intellettuale dei testi omerici, nell’Odissea, dove la dimensione puramente epica si addolcisce e si contamina con altri generi, con il «racconto di viaggio», in primo luogo, archetipo di una ricca tradizione letteraria, e poi con il «racconto amoroso», e con la speculazione concettuale.
Il XII Canto (il canto centrale dell’Odissea, quello che si pone esattamente alla metà dell’opera, come spartiacque tra la lunga vicenda del viaggio e la fase itacense) è il «canto delle Sirene». Segue l’XI, il canto della «visita all’Ade», dove Ulisse reincontra, sistematicamente, oltre alla madre defunta, le anime di tutti i suoi compagni di battaglia («dei compagni che insieme a lui vennero a Ilio e là incontrarono il loro destino»12): di Agamennone, di Achille, «di Patroclo, dell’irreprensibile Antiloco, e di Aiace», ricostruendo a diretto colloquio con loro le circostanze della loro morte (vera e propria ricapitolazione generale del conflitto appena concluso). E precede il XIII, il canto del riapprodo a Itaca, dov’egli non riconosce, o finge nel colloquio con Atena di non riconoscere, la propria terra, finché la dea non gliela disvela (permettendogli il definitivo ritorno al proprio tempo vissuto). L’episodio che vi è narrato svolge, dunque, un ruolo fondamentale di cesura: segna il passaggio (e il distacco) da un passato emotivamente coinvolgente e l’inizio di una nuova vicenda attiva, di un nuovo ciclo di avventure e di lotte (per la riconquista del suo regno, della sua terra e della sua donna).
Il canto delle Sirene, come è risaputo, è irresistibile. Chi porge ad esso orecchio è perduto. Affascinato, arresta il suo viaggio. Come tale, non è diverso dagli altri artifici magici o dagli altri pericoli naturali che insidiano il destino del viaggiatore e di cui la vicenda di Ulisse è intessuta. Ma che cosa narrano le Sirene? Qual è il contenuto della loro «fascinazione»? In cosa risiede la potenza paralizzante del loro canto? «Ferma la tua nave per sentire la nostra voce – riferisce Omero che dicessero a Odisseo –. Nessuno è ancora passato di qui con la sua nera nave, senza aver ascoltato il nostro canto che scorre dalle nostre labbra come il miele! Chi lo ha ascoltato ne ricava piacere e un sapere maggiore di quello che aveva prima. Noi infatti sappiamo tutto ciò che i Greci e i Troiani hanno sofferto, per volere degli dei, intorno a Troia»13.
Questa è dunque la promessa irresistibile fatta a Odisseo: il racconto di «tutto ciò che i Greci e i Troiani hanno sofferto intorno a Troia»; il canto delle vicende di un passato non ancora trapassato, che d’altra parte egli conosce perfettamente per averle vissute direttamente da protagonista. La trasposizione poetica (in forma appunto di «canto») di un passato noto di cui godere, in cui riconoscersi e, nel contempo, arrestarsi. Dunque, morire.
Secondo una lettura lineare, di primo livello – diciamo così –, del testo, sembrano manifestarsi, e condensarsi, qui, nel linguaggio sintetico del mito, i due aspetti contraddittori e complementari, del potere positivo e insieme distruttivo della Memoria elaborata in forma di racconto. L’intreccio inestricabile di Pericolo e di Conforto, di possibile minaccia di perdita e di contemporanea promessa di continuità, che scaturisce dall’ascolto di quel genere di racconto, il quale è radicalmente diverso dal semplice ricordo privato (il frequentare direttamente le anime dei morti, come appunto aveva fatto Odisseo nel canto precedente, il soffermarsi a colloquio con esse, o meglio con i loro esangui fantasmi), perché diventa discorso pubblico, trasposizione letteraria del proprio passato personale nella voce narrante di un terzo, che ci può catturare come liberare, che ci potenzia e ci vincola.
In questo genere di racconto, infatti, si annida sia la risorsa salvifica (il Sapere, appunto, enfatizzato nella versione dantesca) che può generare un rafforzamento dell’Identità, un di più di «senso» che nasce della auto percezione di Sé nella propria continuità, sia la potenza distruttiva dell’arresto: il possibile porsi di quell’immagine fissata nel passato come limite all’«andar oltre», specchio magico paralizzante nella sua fissità affascinante, in cui «perdersi». E Odisseo riconosce, appunto, la contraddizione. L’assume nella sua «non risolvibilità», scegliendo, come sappiamo, di «starci dentro», per così dire. Di attraversarla interamente. Con le orecchie ben aperte, seguendo il consiglio della maga Circe, naviga a fianco del loro territorio, ne beve il canto, riconfermando a fondo la propria identità (non rinuncia al Sé che è stato), ma saldamente legato all’albero maestro della nave, proiettato (e trascinato) da questa verso il futuro (che, nell’occasione, coincide con il «ritorno a casa»).
Ne uscirà libero (dalle malinconiche passioni del regno delle ombre, dalle proprie fedeltà affettive troppo coinvolgenti), ma non sradicato (non privato del proprio ieri, non spezzato nella continuità della propria esistenza), perché comunque ha continuato ad «ascoltare». E, attraverso l’ascolto (di un racconto, appunto) e la propria separazione da esso, a elaborare un «senso» del divenire.
Così appunto, a una prima lettura. Ma in realtà ogni passaggio del XII Canto, ogni piega del testo, nasconde poi una molteplicità di implicazioni, d’indizi e di quesiti, di «doppi fondi» dell’interpretazione che non hanno smesso di essere frequentati in uno dei giochi ermeneutici più affollati, dall’antichità classica fi...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. Capitolo primo. Il volto di Medusa. Ovvero il potere e lo sguardo
  3. Capitolo secondo. Il canto delle Sirene. Ovvero il potere e l’ascolto
  4. Capitolo terzo. Il canto della Gorgone. Ovvero le Sirene del potere
  5. Epilogo