Cose che abbiamo in comune
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Cose che abbiamo in comune

44 lettere dal mondo liquido

  1. 220 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Cose che abbiamo in comune

44 lettere dal mondo liquido

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Il nostro mondo liquido-moderno è in continua trasformazione. Tutti noi – volenti o nolenti, consapevoli o no, che ci piaccia o meno – veniamo trascinati via senza posa, anche quando ci sforziamo di rimanere immobili nel punto in cui ci troviamo.Queste lettere non sono altro che 'racconti di viaggio' e le storie in esse contenute sono dei resoconti di viaggio: scritte in viaggio, raccontano di viaggi.Guardando indietro e ripensando a come siamo arrivati qui, quali di queste storie abbiamo in comune?

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Informazioni

Anno
2013
ISBN
9788858110379

1. Dello scrivere lettere, da un mondo liquido-moderno

Il mondo «liquido-moderno» è quello che voi e io – l’autore delle lettere che vi accingete a leggere e i suoi potenziali/probabili/auspicati lettori – condividiamo. Un mondo che chiamo «liquido» perché come tutti i liquidi non può restare immobile e mantenere il proprio assetto inalterato a lungo. In questo nostro mondo tutto, o quasi, è in continua trasformazione: le mode che seguiamo, gli oggetti che richiamano la nostra attenzione (un’attenzione che si sposta incessantemente, e che oggi elude oggetti ed eventi da cui sino a ieri era attratta, e domani rifuggirà da oggetti ed eventi che oggi l’appassionano), ciò che sogniamo o temiamo, che desideriamo o detestiamo, che suscita in noi speranza o preoccupazione. Persino le circostanze che ci circondano, sulle quali impostiamo la nostra esistenza, in base alle quali tentiamo di progettare il futuro e nell’ambito delle quali stringiamo rapporti con alcune persone e manteniamo le distanze (o veniamo allontanati) da altre – mutano di continuo. Nuove opportunità di gioia e presagi di infelicità scorrono e ci sfiorano, vanno, vengono e si posano altrove. E il più delle volte tutto ciò accade con una rapidità e una fluidità tali da impedirci di intervenire in maniera concreta ed efficace per stabilirne o mutarne il percorso, preservarne la traiettoria o anticiparne l’andamento.
In breve, questo mondo – il nostro mondo liquido-moderno – ci stupisce di continuo: ciò che oggi appare certo e opportuno domani potrebbe sembrare un futile capriccio o un errore deplorevole. E sospettando che ciò possa accadere, sentiamo l’esigenza di tenerci a nostra volta sempre pronti a cambiare, al pari del mondo che ci ospita. Noi, che lo abitiamo e ne siamo a tratti artefici, protagonisti, fruitori e vittime, dobbiamo renderci «flessibili» – per usare un termine oggi di moda. Così siamo alla disperata ricerca di nuove informazioni su ciò che accade e ciò che potrebbe accadere. Per fortuna possiamo contare su alcuni strumenti di cui i nostri genitori non avrebbero nemmeno potuto immaginare l’esistenza: abbiamo internet e le «autostrade dell’informazione», che ci permettono di collegarci rapidamente, «in tempo reale», agli angoli più remoti del pianeta grazie a questi maneggevoli cellulari tascabili, agli iPod, che teniamo notte e giorno a portata di mano, ovunque andiamo. Ho detto per fortuna? Ahimè, forse non del tutto – dal momento che alla perniciosa mancanza di informazioni di cui soffrivano i nostri genitori oggi si sostituisce un flagello addirittura più formidabile: un’abbondanza di informazioni tale da farci rischiare di affogare, e che ci obbliga di fatto a nuotare o tuffarci (anziché lasciarci trasportare dalla corrente o cavalcare le onde). Come si fa a separare le notizie rilevanti, che contano e importano, dai mucchi di scempiaggini inutili e insulse? Com’è possibile cogliere dei messaggi sensati in mezzo a un frastuono sconclusionato? In questo bailamme di opinioni e suggerimenti contraddittori, avremmo bisogno di una trebbiatrice capace di aiutarci a separare i granelli di verità e di ciò che merita la nostra attenzione dalla pula delle menzogne, delle illusioni, delle sciocchezze, degli scarti...
In queste lettere tenterò di svolgere un lavoro simile a quello di una trebbiatrice (che purtroppo non abbiamo, né forse avremo ancora per qualche tempo), per iniziare finalmente a separare ciò che è importante da ciò che manca di contenuto, ciò che conta – e che probabilmente conterà sempre più – dalle mode fugaci e dai fuochi di paglia. Ma poiché, come abbiamo già detto, questo nostro mondo liquido-moderno è in continua trasformazione, tutti noi – volenti o nolenti, consapevoli o no, che ci piaccia o meno – veniamo trascinati via senza posa, anche quando ci sforziamo di rimanere immobili nel punto in cui ci troviamo. Le lettere, dunque, non potrebbero essere altro che «racconti di viaggio» – anche se il loro autore non si allontana da Leeds, la città dove vive; e le storie in esse contenute sono dei resoconti di viaggio: scritte in viaggio, raccontano di viaggi.
Walter Benjamin, un filosofo dotato di una vista particolarmente acuta e capace di cogliere qualsiasi accenno di logica e sistematicità in moti culturali all’apparenza nebulosi e casuali, di solito distingueva due tipi di racconti: quelli da marinai e quelli da contadini. I primi narrano di fatti bizzarri e inauditi, luoghi remoti, mai visitati, che probabilmente resteranno tali; di mostri e creature mutanti, maghi e streghe, cavalieri cortesi e malvagi faccendieri. Personaggi assolutamente diversi da chi ascolta le loro avventure, e dediti a imprese che altri (e in particolare chi segue incantato e rapito il resoconto delle loro vicende) non si sognerebbero né potrebbero immaginare di intraprendere – e men che mai azzardarsi a realizzare. Le storie dei contadini raccontano invece di eventi ordinari a noi vicini e apparentemente familiari, come il continuo succedersi delle stagioni e le quotidiane mansioni domestiche della fattoria e dei campi. Ho detto apparentemente familiari, poiché la sensazione di conoscere da vicino e in profondità simili circostanze – e dunque di non poter trarre da loro e su di loro alcun nuovo insegnamento – è illusoria. Un’illusione che nasce proprio dalla loro prossimità, e impedisce a chi le osserva di coglierle distintamente per quello che sono. Nulla sfugge con tanta facilità, risolutezza e insistenza a un’analisi scrupolosa quanto ciò che abbiamo «sotto mano», che è «sempre al proprio posto» e che «non cambia mai». Realtà che rimangono, per così dire, «nascoste in piena luce» – la luce della loro familiarità sviante e ingannevole. La loro normalità è una copertura che ne scoraggia lo studio. Per renderle interessanti e osservarle attentamente occorrerebbe innanzitutto strapparle e allontanarle da quel circolo ottenebrante, rassicurante e tuttavia vizioso della trita quotidianità. Per studiarle a dovere, prima ancora che un loro attento esame sia ipotizzabile, occorre isolarle e tenerle a distanza: la farsa della loro presunta «normalità» dev’essere smascherata sin dall’inizio. Soltanto così è possibile far emergere e analizzare i loro abbondanti, profondi misteri, che si rivelano astrusi e sconcertanti una volta che ci si comincia a pensare su.
La distinzione suggerita da Benjamin quasi un secolo fa oggi non appare più tanto netta: i marinai non detengono più il monopolio sui viaggi in terre misteriose, e in un mondo globalizzato – in cui nessun luogo rimane davvero isolato e immune alle ripercussioni di ciò che accade in ogni altro angolo del pianeta, per quanto remoto – anche i racconti di un vecchio contadino possono facilmente confondersi con le storie di un marinaio. Nelle mie lettere proverò dunque a raccontare storie, diciamo così, di marinai come se fossero raccontate da contadini. Storie ispirate a esistenze normalissime, prese come un espediente per rivelare ed esporre una straordinarietà altrimenti difficile da cogliere. Se vogliamo che quanto all’apparenza ci è familiare lo diventi davvero, dobbiamo per prima cosa rendercelo estraneo.
Si tratta di un compito difficile, il cui successo non è affatto garantito, e la cui piena riuscita è quanto meno incerta. Tuttavia è questo l’obiettivo che noi, lo scrittore di queste quarantaquattro lettere e i suoi lettori, cercheremo di perseguire nella nostra avventura insieme.
Ma perché proprio quarantaquattro? È forse un numero che possiede un significato particolare, intrinseco? O si tratta invece di una scelta fortuita e arbitraria, una decisione casuale? Sospetto che la maggior parte dei lettori (o forse tutti, ad eccezione di quelli polacchi...) si porrà questa domanda. Sento di dover loro una spiegazione.
Adam Mickiewicz, il più grande poeta romantico polacco, inventò un personaggio misterioso: una combinazione o un’ibrida via di mezzo tra un plenipotenziario e portavoce della Libertà, nonché suo tutore legale, da un lato, e, dall’altro, il suo rappresentante, o vice-reggente sulla Terra. «Ed il suo nome [è] Quarantaquattro»: è con queste parole che la recondita creatura viene introdotta da uno dei personaggi dell’opera di Mickiewicz che ne annuncia/intuisce l’arrivo imminente. Ma perché quel nome? Molti storici della letteratura, immensamente più preparati di me a fornire una risposta, hanno tentato invano di venire a capo di questo mistero. C’è chi ipotizza che il numero equivalga alla somma dei valori numerici corrispondenti alle lettere che compongono il nome del poeta scritto in ebraico – e sia forse una duplice allusione all’importante ruolo che questi svolse nella lotta per la liberazione della Polonia, e alle origini ebraiche di sua madre. Stando invece all’interpretazione ad oggi più comunemente accettata, Mickiewicz avrebbe scelto quel nome altisonante e maestoso (in polacco: czterdzieści i cztery) semplicemente nell’impeto dell’ispirazione. Motivato (o forse assolutamente immotivato, come spesso capita ai guizzi dell’ispirazione) dall’attenzione verso l’armonia poetica più che dall’intenzione di trasmettere un messaggio in codice.
Le lettere che trovate raccolte in questo volume sono state scritte durante un periodo di quasi due anni: quante dovrebbero essercene? Quando, e a che punto, fermarsi? È improbabile che la spinta a scrivere lettere dal mondo liquido-moderno possa mai esaurirsi. Quel mondo che continua a stupirci con nuove trovate, che è capace di inventarsi ogni giorno nuove sfide da sottoporre all’intelligenza umana, farà in modo che una simile eventualità non accada. Sfide e sorprese sono disseminate lungo l’intero spettro dell’esperienza umana, ed è quindi inevitabile che i momenti in cui ci si sofferma per descriverle (e al tempo stesso circoscriverle) in una lettera siano frutto di una decisione arbitraria. Queste lettere non fanno eccezione: il loro numero è stato scelto arbitrariamente.
Perché proprio questo, e non un altro? Perché grazie ad Adam Mickiewicz il numero quarantaquattro simboleggia lo stupore e la speranza che accompagnano l’arrivo della Libertà. È un numero che annuncia, per quanto in modo indiretto e solo agli iniziati, il tema conduttore di queste missive. Nonostante la varietà dei temi trattati, lo spettro della libertà aleggia in ciascuno di essi, anche quando la sua presenza appare invisibile, come per ogni spettro degno di questo nome.

2. Un’affollata solitudine

Recentemente il sito della rivista «The Chronicle of Higher Education» (http://chronicle.com) ha pubblicato la storia di un’adolescente che ha inviato tremila sms in un solo mese. Una media di cento messaggi al giorno, uno ogni dieci minuti di veglia: «Al mattino, a mezzogiorno, di sera, nei giorni feriali come nei fine settimana, durante le lezioni, all’ora di pranzo, mentre faceva i compiti o si lavava i denti». Se ne deduce che la ragazza non avesse quasi mai occasione di rimanere sola per più di dieci minuti; intendo dire sola con se stessa: con i propri pensieri, i propri sogni, le proprie preoccupazioni e le proprie speranze. Probabilmente si sarà dimenticata di come si fa a vivere (pensare, organizzarsi, ridere o piangere) da soli, senza la compagnia degli altri. O sarebbe forse più esatto dire che non ha mai avuto la possibilità di apprenderne l’arte. D’altronde non sarebbe sola nemmeno in questo...
Ma i dispositivi tascabili che consentono di inviare e ricevere messaggi non sono l’unico strumento di cui ha bisogno per sopravvivere quella ragazza, e chi come lei non è capace di star solo. Il professor Jonathan Zimmerman, della New York University, rileva che sino a tre adolescenti americani su quattro trascorrono ogni istante del tempo a loro disposizione incollati a Facebook o a MySpace, per chattare. Sono, suggerisce Zimmerman, assuefatti alla produzione e alla ricezione di segnali audio-visivi tramite schermi elettronici. I siti di chat, aggiunge, rappresentano delle nuove, potenti droghe da cui questi giovani sono ormai dipendenti. Se un virus (o i genitori, o gli insegnanti) impedisse loro di accedere a internet o mettesse fuori uso i loro cellulari, questi ragazzi rischierebbero una crisi di astinenza paragonabile a quelle che provocano strazianti tormenti in chi – più o meno giovane – interrompe l’assunzione di altri tipi di sostanze.
Nel nostro mondo imprevedibile, incessantemente sorprendente e tenacemente imperscrutabile, la prospettiva di essere lasciati soli può generare infatti un vero e proprio senso di terrore, e sono svariati i motivi che rendono la solitudine profondamente sgradevole, minacciosa e orribile. Attribuire a questi apparecchi elettronici tutta la colpa di quanto sta accadendo a chi è nato in un mondo dominato dalla connettività (via cavo, a fibre ottiche o wireless) sarebbe tanto ingiusto quanto insensato. Tali arnesi infatti rispondono a un’esigenza che non è stata creata da questi giovani – i quali tutt’al più contribuiscono a esacerbarla e renderla più pressante; e questo perché i modi per assecondarla sono ormai irresistibilmente alla portata di tutti, e non richiedono altro sforzo che quello di premere qualche tasto.
Gli inventori e i rivenditori dei walkman, i primi apparecchi portatili che consentivano di «ascoltare il mondo» ovunque e in qualsiasi momento si desiderasse, promettevano: «[Non sarete] mai più soli!». Naturalmente erano ben consapevoli di ciò che dicevano, e del perché quello slogan avrebbe fatto vendere loro milioni di apparecchi – come infatti è accaduto. Sapevano che le strade pullulano di individui che si sentono soli e detestano la propria solitudine, avvertendola come penosa e mortificante. Persone non soltanto prive di compagnia, ma anche amareggiate dalla sua assenza. Con un numero sempre maggiore di case che di giorno rimanevano vuote, e i televisori che, piazzati in ogni stanza, prendevano il posto del focolare domestico e del desco familiare, ciascuno viveva praticamente «intrappolato nel proprio bozzolo»: sempre meno persone potevano contare sul festoso e corroborante calore dei rapporti umani, senza i quali non sapevano come riempire le ore e i giorni.
La dipendenza dal suono incessante del walkman non ha fatto che acuire il senso di vuoto lasciato dall’affievolirsi dei rapporti umani. E più le persone rimanevano immerse in quel vuoto, meno erano in grado di uscirne avvalendosi dei mezzi che avevano preceduto l’avvento dell’high-tech, ovvero i propri muscoli e la propria immaginazione.
Oggi, grazie a internet, anche quel vuoto può essere ignorato o dissimulato, e dunque privato della propria tossicità; il dolore dell’assenza può essere quanto meno lenito. Quella compagnia, che troppo spesso ci ha elusi e di cui abbiamo tanto sofferto la mancanza, sembra ripresentarsi (seppur attraverso degli schermi elettronici anziché varcando porte di legno) in una nuova veste, analogica o digitale – ma comunque virtuale. Decise a sfuggire ai tormenti della solitudine, le persone considerano questo nuovo tipo di rapporto un considerevole passo in avanti rispetto a quelli ormai superati di tipo faccia-a-faccia e mano-nella-mano. E avendo perlopiù dimenticato (o non avendo mai appreso) le competenze che le interazioni faccia-a-faccia richiedono, salutano come una gradita scoperta anche quegli aspetti delle «connessioni virtuali» che potrebbero essere considerati negativi.
Infatti, ciò che offrono Facebook, MySpace e altri siti analoghi è ritenuto quanto di meglio si possa desiderare: così la pensa chi, pur provando un disperato bisogno di stare insieme ad altri esseri umani, si sente al tempo stesso a disagio, fuori luogo e infelice in loro compagnia.
Tanto per cominciare, non c’è più alcun bisogno di rimanere ancora da soli: in qualsiasi momento (ventiquattro ore al giorno, sette giorni alla settimana) basta premere un tasto per entrare in contatto con schiere di altri individui soli. Nel mondo on-line nessuno si allontana mai e tutti sembrano sempre a disposizione. E anche se qualcuno dovesse per caso addormentarsi, difficilmente se ne sentirebbe la mancanza, poiché ci sono tante altre persone a cui poter inviare un messaggio, o un breve tweet. In secondo luogo, questi siti permettono di «contattare» gli altri senza doversi necessariamente addentrare in uno scambio che rischierebbe di consegnarci al fato e assumere una piega poco gradita. I «contatti» possono essere interrotti non appena la comunicazione prende un verso indesiderato: quindi non si corrono rischi, e non c’è neanche bisogno di cercare scuse o pretesti, o di mentire: basta un lievissimo tocco col dito, assolutamente sicuro e indolore. Il pericolo di rimanere soli non esiste più, e il rischio di doversi chinare al volere del prossimo, compiere sacrifici o compromessi, o fare qualcosa che non vogliamo soltanto perché altri lo desiderano è scongiurato. Di tale rassicurante consapevolezza è possibile godere pur restando seduti in una stanza gremita di persone, mentre ci si aggira ...

Indice dei contenuti

  1. 1. Dello scrivere lettere, da un mondo liquido-moderno
  2. 2. Un’affollata solitudine
  3. 3. Conversazioni tra genitori e figli
  4. 4. On-line/off-line
  5. 5. Come uccelli
  6. 6. Sesso virtuale
  7. 7. Strane avventure della «privacy» (1)
  8. 8. Strane avventure della «privacy» (2)
  9. 9. Strane avventure della «privacy» (3)
  10. 10. Genitori e figli
  11. 11. Le abitudini di spesa degli adolescenti
  12. 12. Sui passi della generazione Y
  13. 13. Un’illusoria alba di libertà
  14. 14. L’arrivo delle bimbe-donne
  15. 15. Ora tocca alle ciglia
  16. 16. La moda, un moto perpetuo
  17. 17. Il consumismo non è solo una questione di consumi
  18. 18. Che ne è stato delle élites culturali?
  19. 19. Farmaci e malattie
  20. 20. L’influenza suina e altri motivi di panico
  21. 21. Salute e disuguaglianze
  22. 22. Uomo avvisato...
  23. 23. Il mondo è inadatto all’istruzione? (1)
  24. 24. Il mondo è inadatto all’istruzione? (2)
  25. 25. Il mondo è inadatto all’istruzione? (3)
  26. 26. Lo spirito dei Capodanni passati e di quelli futuri
  27. 27. Prevedere l’imprevedibile
  28. 28. Calcolare l’incalcolabile
  29. 29. Le contorte traiettorie della fobia
  30. 30. Interregno
  31. 31. Da dove arriverà la forza sovrumana? E a quale scopo?
  32. 32. Tornate a casa, uomini?
  33. 33. Fuga dalla crisi
  34. 34. C’è fine alla depressione?
  35. 35. Chi ha detto che dobbiamo stare alle regole?
  36. 36. Il fenomeno Barack Obama
  37. 37. La cultura in una città globalizzata
  38. 38. La voce del silenzio di Lorna
  39. 39. Gli estranei sono pericolosi. Sarà vero?
  40. 40. Tribù e cieli
  41. 41. Tracciare dei limiti
  42. 42. Cattivi si diventa?
  43. 43. Destino e carattere
  44. 44. Albert Camus, o: «Mi» ribello, dunque «siamo»