Diritti umani e relativismo
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Diritti umani e relativismo

  1. 156 pagine
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Diritti umani e relativismo

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I diritti umani parlano agli Stati. Ma solo a essi? E non anche agli individui in quanto soggetti di diritto internazionale? E se i diritti umani si rivolgono anche agli individui, qual è il loro scopo? La tesi di questo libro è che i diritti umani sono strumenti di lotta contro tutto ciò che impedisce di decidere autonomamente del proprio destino. Prima però di poter parlare di un 'universalismo degli oppressi', occorre chiedersi: coloro che vivono in condizione di subalternità sono in grado di appropriarsene? E desiderano farlo?

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858114841
Argomento
Diritto

1. Relativismo e universalismo nel discorso sui diritti

1.1. Che cosa sono i diritti umani

Con l’espressione ‘diritti umani’ mi riferisco al ‘pacchetto’ di disposizioni normative contenute in una serie di documenti, carte, trattati internazionali a partire dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, adottata con risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948. Accanto alla Dichiarazione universale vanno annoverati i veri e propri trattati internazionali sui diritti umani, tra cui il Patto internazionale sui diritti civili e politici e il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, entrambi adottati il 16 dicembre 1966 ed entrati in vigore, rispettivamente secondo l’art. 49 del primo e l’art. 29 del secondo covenant, il 23 marzo e il 3 gennaio 1976. Occorre poi menzionare, fra gli altri (a livello globale o regionale): la Convenzione per la prevenzione e la punizione del crimine di genocidio, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite solo un giorno prima della Dichiarazione universale, e ratificata da 130 Stati; la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Cedu – 1950); la Dichiarazione per la garanzia dell’indipendenza dei paesi e popoli coloniali (1960); la Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale (1966); la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (Cedaw – 1979); la Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli (1981); la Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti (1984); la Convenzione per i diritti del fanciullo (1989); la Dichiarazione di Vienna (e, contestualmente, la Bangkok Declaration: entrambe approvate nel 1993, la prima in conclusione della Conferenza mondiale sui diritti umani tenutasi nella capitale austriaca, la seconda in preparazione di essa); la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (la cosiddetta Carta di Nizza – 2000).
Numerose sono le perplessità di natura giuridica, filosofica, politica che accompagnano molti dei documenti citati. Sarebbe impossibile illustrarle tutte, basterà qui ricordare – sotto il profilo giuridico – che mentre i patti del 1966 sono dei trattati internazionali, e dunque vincolano le parti contraenti al rispetto dei diritti in essi sanciti (prevedendo altresì strumenti di monitoraggio dell’entitlement e dell’enforcement di tali diritti da parte degli Stati contraenti), la cogenza normativa della Dichiarazione universale è invece fortemente dubbia, in primo luogo poiché essa promana da un organismo internazionale (l’Assemblea generale delle Nazioni Unite) che non possiede poteri di produzione di norme che siano imperative e valide erga omnes, e in secondo luogo perché appare sprovvista di norme secondarie o di organizzazione che prevedano, per esempio, pene per le violazioni dei diritti elencati o procedure sanzionatorie per la comminazione di esse1. Le corti internazionali, compresa la Corte penale internazionale, non possono essere considerate atte a colmare la lacuna indicata da ultima, poiché esse, oltre ai problemi politici che le contraddistinguono – l’essere, in sostanza, percepite come espressione della ‘giustizia dei vincitori’, e dunque mancanti del requisito della terzietà –, giudicano per fattispecie specifiche2.
Dunque la Dichiarazione sarebbe un documento «non giuridicamente vincolante»3 caratterizzato dalla sua formulazione «generica e solo moralmente impegnativa»4 (cosa peraltro ben nota a Eleanor Roosevelt, la quale il 10 dicembre 1948 sostenne che la Dichiarazione «Non è un trattato, non è un accordo internazionale. Non è e non aspira ad essere un argomento di legge o un obbligo legale»5, ma è uno «standard di conseguimento»6): un documento cui avrebbero fatto seguito i trattati internazionali citati, primi fra tutti – per importanza – i patti del 1966, e che riaffermava, sviluppandolo ma non fino al punto di renderlo giuridicamente vincolante, l’anelito verso i diritti umani che scaturiva dall’orrore per le grandi tragedie (in particolare la Shoah) della storia recente. Anelito presente già nel preambolo della Carta dell’Onu del 1945, in cui «We the people of the United Nations»7 si dicono decisi «a riaffermare la fede nei diritti umani fondamentali, nella dignità e nel valore della persona umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole»8; niente di tutto questo nella Società delle Nazioni sebbene proprio in seno ad essa vi furono alcune ‘prove tecniche’ del riconoscimento dei diritti agli esseri umani in quanto tali9. Poiché ciò è quanto tenta di fare la Dichiarazione universale: affermare che l’individuo è soggetto di diritto internazionale, e che i diritti si trasformano da diritti del cittadino appartenente a una data comunità politica in diritti umani. Dunque il discorso sui diritti umani, con tutte le sue contraddizioni e insufficienze, tenta di imprimere un’accelerazione notevole poiché propone, in qualche misura, il ripensamento dell’idea di sovranità statuale mediante il porre al centro della comunità internazionale l’individuo (e i gruppi, le minoranze)10, e non più (o non soltanto) lo Stato. Ciò accade, beninteso, anche grazie alla ‘mediazione’ delle Costituzioni nazionali, ovvero di quei documenti che hanno spesso accolto il discorso dei diritti umani traducendolo da linguaggio ‘morale’ in vincolo giuridico entro il contesto statuale.
Ora, l’impostazione qui seguita circa la ‘natura’ e l’‘origine’ dei diritti umani – essa lega i diritti umani all’adozione di carte, trattati internazionali e costituzioni – non è, come si vedrà nel prossimo paragrafo, l’unica possibile. Si potrebbe anche sostenere, all’opposto, che i diritti umani precedano la loro formalizzazione in dei testi ad acta, e attengano all’essere umano in quanto tale in tutte le epoche e in tutte le culture: sarebbero transculturali e trans-storici, e i testi in questione non opererebbero che un ‘riconoscimento’ di essi. Proverò invece a tracciare un breve excursus a supporto della mia interpretazione, che tiene conto della storicità dei diritti umani e proprio per questo non ne disconosce la matrice culturale, filosofica, politica. In altri termini, anche se i diritti umani si ‘cristallizzano’ nelle carte, nei trattati e nelle costituzioni (‘esistono’ in ragione della loro affermazione in tali documenti), essi ‘vengono da lontano’ e ‘guardano lontano’.
I diritti umani così come delineati nei trattati, nelle dichiarazioni, nelle carte non sono il frutto di un ‘riconoscimento’ di diritti precedentemente esistenti: sono qualcosa di nuovo, che nasce con quei documenti, e che pur tuttavia ha un passato alle spalle. Norberto Bobbio ha sostenuto che essi sono il signum prognosticum di un costante progresso dell’umanità verso il meglio11. Senza dover necessariamente condividere una tale visione teleologica, legata a un’idea ‘progressiva’ della storia – idea ormai ampiamente screditata nelle scienze sociali12 –, si può estrarre dalla tesi di Bobbio il seguente insegnamento: i diritti umani, pur essendo il risultato di un’operazione di ‘produzione’ normativa da parte di molti soggetti (gli organismi internazionali, gli Stati, i poteri costituenti su base popolare etc.) avvenuta a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, da un lato attingono a un background culturale e filosofico molto risalente nel tempo, dall’altro rispondono alle nuove sollecitazioni dei tempi, al mutamento delle condizioni di vita, ai progressi della scienza.
La fissazione della data di inizio di quel passato che tanto incide sui diritti umani è piuttosto controversa; per non parlare delle ragioni che vi avrebbero dato luogo.
In generale, si è inclini a ritenere che l’emersione di un discorso sui diritti soggettivi sia tipico della modernità occidentale, e che si leghi in particolar modo al passaggio dal Medioevo alla modernità, ovvero al passaggio dalla concezione aristotelico-tomistica della società (la società è un organismo, e la salute dell’organismo è più importante della salute delle sue membra) alla concezione individualista che attribuisce ai soggetti in primis la libertà di coscienza in materia religiosa13. Più in generale (e sempre nell’ottica di quel passaggio dalla società organica all’individualismo cui si è accennato), si può affermare che il discorso sui diritti nasce come strategia di delimitazione del potere politico nei confronti degli individui, al fine di costruire sfere di autonomia entro le quali il potere pubblico non possa insinuarsi.
Se appare piuttosto problematico, dunque, sostenere che tale processo di autonomizzazione degli individui sia iniziato prima della modernità, per esempio nell’antichità classica (di solito, alla domanda se nella cultura greco-latina esistesse qualcosa di simile ai diritti soggettivi come li intendiamo oggi si dà risposta negativa14), meno controversa è l’affermazione secondo la quale i prodromi del processo di attribuzione al concetto di ius di una caratterizzazione individualista nei termini indicati (l’autonomizzazione dal potere) si sarebbero manifestati durante il Medioevo, in particolar modo nel contesto giuridico e culturale anglosassone, ma anche nella cultura continentale dei glossatori o della teologia francescana15. Il giusnaturalismo, con la sua dottrina dei diritti naturali appartenenti all’uomo in quanto tale, ha fatto il resto. Tuttavia, i diritti ‘naturali’ altro non erano se non una costruzione giuridico-filosofica attorno all’uomo inteso come bianco, proprietario, maschio, adulto. A tutti coloro che non possedevano tali requisiti, e a maggior ragione a quanti non ottenevano neanche la qualificazione di ‘esseri umani’, non erano riconosciuti diritti soggettivi. Il lungo periodo del colonialismo europeo è stato caratterizzato da tale contraddizione: i diritti erano assai meno universali di quanto si sostenesse da parte di alcuni filosofi e giuristi, poiché quell’universalismo parlava solo agli europei. A questo proposito, c’è anche chi ha affermato che il discorso sui diritti in Europa sia stato in qualche misura ‘preparato’ dai dibattiti sulla legittimità della Conquista e dalle dudas de conciencia che ne seguirono: in altri termini, come in una «danza dello specchio», la discussione sui diritti dei popoli colonizzati d’oltremare avrebbe avviato poi la riflessione sui diritti umani in Europa16. Ma anche questa tesi, c...

Indice dei contenuti

  1. Ringraziamenti
  2. 1. Relativismo e universalismo nel discorso sui diritti
  3. 2. Un paradigma della posizione relativista: gli «Asian values»
  4. 3. Lotta per i diritti umani e «violenza simbolica»
  5. Bibliografia