Le radici psicologiche della disuguaglianza
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Le radici psicologiche della disuguaglianza

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Le radici psicologiche della disuguaglianza

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Come si alimentano le disuguaglianze? Quali processi psicologici impediscono a chi è in condizione svantaggiata di ribellarsi? E chi domina, come giustifica a se stesso e agli altri il proprio privilegio? Una chiave nuova e originale per capire a fondo una delle questioni centrali del nostro tempo. Le disuguaglianze sono tra le cause principali dell'infelicità collettiva: seminano sfiducia, indeboliscono la coesione sociale e mettono a rischio la democrazia. Perché, allora, i tentativi di contrastarle sono pochi e deboli? Questo libro esamina come le disuguaglianze vengono costruite, occultate, accettate, interpretate, contrastate. Esplora il gioco dei meccanismi di assoluzione o di colpevolizzazione rispettivamente dei dominanti e dei dominati seguendo due diverse prospettive: la prima si sofferma sui processi cognitivi e motivazionali che fanno sì che i privilegiati, che della disuguaglianza beneficiano, si convincono di possedere la 'stoffa giusta' e di meritare i propri vantaggi. La seconda ricostruisce i processi di chi subisce la disuguaglianza e la accetta, interiorizzandola.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788858135778

1.
Le disuguaglianze e la loro legittimazione

1. Un problema antico

“Una parte dei nostri mali dipende dal fatto che troppi uomini sono oltraggiosamente ricchi, o disperatamente poveri”
Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano
La disuguaglianza ci appare un fenomeno naturale, radicato nell’essenza stessa dell’umana società. Eppure per millenni, dall’inizio della storia della nostra specie, uomini e donne hanno vissuto in comunità fortemente egualitarie, basate sulla condivisione di risorse limitate e fluttuanti, in cui non esistevano stabili gerarchie di potere, comunità che, come ci insegnano gli studi sulle società di raccoglitori e cacciatori ancora esistenti sulla terra, promuovevano attivamente l’uguaglianza attraverso la condivisione del cibo, l’istituto del dono e attività di compartecipazione vigilante, volte a controllare che tutti ricevessero la loro parte e nessuno assumesse un ruolo di dominio sugli altri. Per millenni, l’uguaglianza è stata costruita e difesa dalle società umane, attraverso la messa in atto di concrete strategie di contro-dominio che andavano dalla critica, all’esposizione al ridicolo, alla pubblica espressione di disapprovazione fino a pratiche di ostracismo, esclusione, messa a morte di chi cercava la supremazia.
La moderna disuguaglianza ha avuto probabilmente origine con lo sviluppo dell’agricoltura, più o meno 15.000 anni fa. Gli archeologi stanno studiando il passaggio dalle società di cacciatori e raccoglitori a quelle agricole, un passaggio che si è sviluppato in tempi lunghi e che è stato probabilmente facilitato da un forte miglioramento climatico, che ha reso le risorse più abbondanti e ne ha permesso l’accumulazione. Varie équipes hanno analizzato differenti siti archeologici intorno al mondo, misurando le differenze di ricchezza sulla base della dimensione delle abitazioni e delle tombe, cosa che ha consentito di disegnare una mappa dello sviluppo delle disuguaglianze nel corso del tempo. I dati indicano l’esistenza di una sostanziale uguaglianza nelle società di cacciatori e raccoglitori e una sostanziale disuguaglianza nelle società basate sull’agricoltura (Kohler et al., 2017). Gli studiosi hanno utilizzato l’indice di Gini, che segnala la distanza media dei redditi di tutti gli individui da quelli di tutti gli altri, in una scala che va da 0 (perfetta uguaglianza) a 1 (disuguaglianza assoluta, in cui un individuo possiede tutta la ricchezza). L’indice di Gini stimato per la società di raccoglitori è di 0,17, quella delle società agricole è di 0,351. È il surplus di risorse che innesca la disparità. Le disuguaglianze non nascono dalla scarsità, ma dall’abbondanza, di cui approfittano individui molto operosi, ambiziosi o semplicemente furbi, quelli che nel 2011 l’antropologo Brian Hayden ha definito gli aggrandizers, interessati all’accumulazione delle risorse insieme al prestigio e al potere che ne derivano. Gli aggrandizers hanno lasciato segni della loro presenza, interpretabili come veri e propri marcatori di disuguaglianza: abitazioni più grandi, sepolture più ricche, oggetti lavorati più finemente. Tali segni aumentano a partire da 10.000 anni fa, ma sono presenti anche prima, e rivelano l’esistenza di una minoranza privilegiata: solo l’8% degli scheletri finora trovati appartenenti ai Natufiani – le popolazioni del Medio Oriente che hanno realizzato la transizione dalle bande di cacciatori raccoglitori alla società agricola – è, per esempio, sepolto con ornamenti preziosi (Meldolesi, 2014).
Da allora la disuguaglianza ha accompagnato la storia umana, anche se si sono alternati periodi e culture in cui è dilagata senza freni e periodi e culture in cui è stata circoscritta e ridotta. Angus Deaton, autore nel 2013 di un’opera straordinaria, La grande fuga, che illustra la fuga dalla povertà e dal bisogno intrapresa qualche secolo fa dalla parte più fortunata del genere umano, spiega come salute e ricchezza procedano di pari passo, vale a dire come vi sia un legame preciso tra crescita economica, miglioramento delle condizioni di esistenza, speranza di vita. Deaton mette in luce come la grande fuga abbia aumentato la disuguaglianza perché si è realizzata in modo disomogeneo, lasciando dietro di sé un gran numero di individui che alla fuga non hanno partecipato o hanno partecipato in misura ridotta. La storia del progresso è, per Deaton, una storia di disuguaglianze connaturate alla natura umana e al funzionamento dei sistemi sociali; tali disuguaglianze non sono sempre necessariamente negative, ma divengono dannose e inaccettabili quando sono molto elevate e producono enormi disparità all’interno dei gruppi sociali e tra di loro.
L’ampiezza delle disuguaglianze socio-economiche sta oggi crescendo in tutti i paesi, portando con sé problemi, tensioni, conflitti e una profonda infelicità sociale: una porzione sempre più piccola di individui controlla una porzione sempre più grande di ricchezza. Nelle economie avanzate le disparità di reddito stanno tornando ai livelli di inizio Novecento, ma le disuguaglianze restano estremamente alte anche a livello globale, dato che, nonostante l’elevata crescita dei grandi paesi in via di sviluppo – Cina, India, Brasile –, le nazioni occidentali continuano a detenere una ricchezza sproporzionata rispetto al resto del mondo.
La ricchezza posseduta dall’1% della popolazione mondiale ha superato dal 2015 quella del restante 99%. Pochi miliardari detengono un patrimonio maggiore di quello della metà più povera della popolazione mondiale: nel 2018, 42 persone, quasi tutti uomini, posseggono lo stesso ammontare di ricchezza dei 3 miliardi e 700 milioni di individui più poveri; l’anno precedente erano 61, dati che sottolineano l’enorme e progressiva tendenza alla concentrazione e al monopolio di patrimoni e risorse (Oxfam, 2018).
In un celebre articolo comparso nel 2011 su Vanity Fair, dal titolo Of the 1%, by the 1%, for the 1%, Joseph Stiglitz ha descritto la polarizzazione della società americana tra l’1% e il restante 99%. L’articolo ha fornito spunti di riflessione al movimento Occupy Wall Street che proprio dal suo titolo ha coniato lo slogan “We are the 99%”. Stiglitz spiega come negli ultimi tre decenni, negli Stati Uniti, i redditi della classe media siano rimasti costanti, mentre è fortemente cresciuta la quota di ricchezza dell’1% più fortunato. Tale situazione è accompagnata da una sempre più limitata mobilità sociale intergenerazionale: oggi, i ricchi sono figli di ricchi, i poveri figli di poveri; il sogno americano si è appannato fino a ridursi a un mito scolorito. Denunciando le “politiche economiche congegnate dall’1% per l’1%”, Stiglitz sottolinea il forte impatto che tali fenomeni hanno sulla vita sociale: la disuguaglianza transita dall’economia alla politica e le due disuguaglianze si alimentano reciprocamente in un circolo vizioso che appare sempre più difficile spezzare.
Nel nostro paese la situazione non è migliore. In Italia, l’1% più ricco detiene il 23,4% della ricchezza nazionale. Nel 2008 la ricchezza complessiva del 30% più povero degli italiani, poco più di 18 milioni di persone, era pari al doppio del patrimonio delle dieci famiglie più ricche del paese. Nel 2013 le dieci famiglie con patrimoni maggiori sono diventate più ricche del 30% più povero. In pochi anni le dieci famiglie hanno fatto un balzo in avanti del 70%, mentre l’economia italiana retrocedeva del 12% e i 18 milioni di italiani meno fortunati perdevano il 20% del loro già ridotto patrimonio. Oggi il 20% più ricco degli italiani possiede il 66,41% della ricchezza del paese, il 20% più povero lo 0,09% (Oxfam, 2018). In Italia, inoltre, l’elevata disuguaglianza dei redditi si coniuga a una mobilità sociale particolarmente bassa.
Nel suo libro del 2013, che ha riscosso un successo mondiale, l’economista francese Thomas Piketty, nell’intento di rimettere la questione della distribuzione dei beni al centro dell’analisi economica, ha ricostruito l’andamento secolare delle disuguaglianze nei redditi e nei patrimoni, fornendo un quadro storico di grande importanza per capire i fenomeni che ci interessano. Secondo Piketty, il Novecento ha costituito un periodo eccezionale perché, nel corso del secolo, si è verificata all’interno dei paesi sviluppati una riduzione molto significativa delle disuguaglianze, dovuta alle due guerre mondiali, alla crisi economica del 1929 e alle politiche pubbliche implementate per superare la recessione.
Agli inizi del Novecento, negli anni della Belle Époque, la disuguaglianza dei redditi era molto forte in tutti i paesi occidentali, nei quali la concentrazione del capitale era decisamente alta: il 10% più ricco della popolazione deteneva il 90% del patrimonio nazionale (l’1% più fortunato possedeva da solo più del 50% del totale dei patrimoni), mentre il 40% intermedio possedeva poco più del 5% del patrimonio nazionale, vale a dire poco più di quanto possedeva il 50% più povero, dato che ci fa capire come non esistesse una classe media come oggi la concepiamo. Nel corso degli anni Venti e Trenta si è però verificata una fortissima compressione delle disuguaglianze, provocata dal conflitto mondiale e dalla successiva crisi economica, compressione continuata poi nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale, che ha determinato una radicale trasformazione della struttura sociale, dovuta allo sviluppo della classe media. Dalla fine della seconda guerra mondiale agli anni Settanta, Europa e Stati Uniti hanno vissuto la fase più egualitaria della loro storia, nella quale le disuguaglianze sono diminuite sia per la forte crescita economica e demografica, sia per l’aumentata tassazione delle ricchezze. Quegli anni furono infatti caratterizzati da straordinari prelievi fiscali sui patrimoni e da forti aumenti nella tassazione progressiva sui redditi. Nel periodo successivo si è invece verificata un’inversione di tendenza, che ha portato una nuova – o antica? – esplosione delle disuguaglianze. La quota detenuta dal decile superiore – il 10% più ricco della popolazione – è aumentata da circa il 30-35% del reddito nazionale degli anni Settanta a circa il 45-50% all’inizio del nuovo secolo. Tale aumento è stato sostenuto da un’offensiva politica e culturale iniziata nei primi anni Ottanta, quando, in nome del neoliberismo, i governi Thatcher e Reagan hanno dato vita a una svolta conservatrice che ha profondamente inciso sulle società occidentali. La parabola italiana non si discosta da quella delle altre nazioni occidentali: il nostro paese ha conosciuto una lenta ma costante diminuzione delle disuguaglianze a partire dall’unificazione fino agli inizi degli anni Ottanta, quando si è invece registrata un’impennata che ha portato all’attuale indice di Gini, superiore alla media dell’Unione Europea.
Secondo Piketty, l’aumento della disuguaglianza è dovuto alla congiunzione di bassa natalità e bassa crescita economica, che favorisce il sopravvento della rendita finanziaria; in periodi caratterizzati da poche nascite e scarsa crescita, infatti, chi possiede patrimoni si arricchisce sempre di più e distanzia il resto della popolazione. Basandosi su un’impressionante serie di dati, l’autore mostra come, negli ultimi tre secoli, la crescita mondiale abbia percorso una curva a U rovesciata di notevole ampiezza, sia per quanto riguarda l’aumento della popolazione sia per quanto riguarda l’aumento del prodotto pro capite. I fattori che causano l’aumento della disuguaglianza sono principalmente due: il processo di scollamento delle retribuzioni più elevate rispetto alle altre e i processi di accumulazione e concentrazione dei patrimoni.
Oggi, nei paesi occidentali, l’altissima concentrazione dei patrimoni fa sì che la metà più povera della popolazione non possegga quasi niente, la classe media detenga tra un quarto e un terzo dei patrimoni del paese, il 10% più ricco due terzi. Quando, come oggi succede, il tasso di rendimento del capitale è molto più alto del tasso di crescita dell’economia, il peso dell’eredità diventa molto più forte del peso del risparmio. Il passato, conclude Piketty, tende così a divorare il futuro: le ricchezze ereditate crescono automaticamente e molto più in fretta delle ricchezze prodotte dal lavoro. A partire dal 1980, infatti, a livello mondiale i patrimoni sono cresciuti, in media, più dei redditi, e i patrimoni più elevati crescono più degli altri. La quota del millile superiore – che comprende lo 0,1% più ricco della popolazione – corrisponde oggi al 20% del totale, quella del centile superiore – costituita dall’1% più ricco – a circa il 50% e quella del decile superiore è compresa tra l’80 e il 90%, mentre la metà della popolazione possiede meno del 5% del patrimonio totale.
A questi fattori un altro economista di fama mondiale, Branko Milanović (2016), aggiunge il peso della rivoluzione tecnologica, della globalizzazione e dei mutamenti che ne sono conseguiti nell’ambito del lavoro: il trasferimento dalle attività manifatturiere ai servizi ha indebolito le capacità dei lavoratori di organizzarsi in difesa dei loro diritti perché il settore dei servizi prevede maggior dispersione delle attività e unità di piccole dimensioni; la sindacalizzazione è infatti diminuita in tutti i paesi ricchi.
Le disuguaglianze, conclude Piketty, non sono determinate unicamente da dinamiche economiche, sono soprattutto il prodotto di decisioni politiche, rese possibili dai sistemi ideologici che regolano il consenso. “Il carattere più o meno sostenibile di disuguaglianze così estreme dipende non soltanto dall’efficacia dell’apparato repressivo ma anche – e forse soprattutto – dall’efficacia dell’apparato di legittimazione delle disuguaglianze stesse. Se le disuguaglianze sono percepite come legittime, per esempio perché sembrano derivare dal fatto che i più ricchi hanno deciso di lavorare di più – o con maggiore efficienza – rispetto ai più poveri, oppure perché il tentativo di impedire loro di guadagnare di più nuocerebbe inevitabilmente ai più poveri, è anche possibile che la concentrazione dei redditi superi i record storici” (Piketty, 2013, p. 402).
Le preoccupazioni di Piketty sono condivise da Deaton, che dedica pagine illuminanti alla crescita delle disuguaglianze negli ultimi quarant’anni, soffermandosi sul parallelo aumento dei tassi di povertà di una parte della popolazione e dei tassi di ricchezza di un’altra. Deaton ci avverte dei rischi che corriamo quando il processo di fuga dal bisogno e dalle privazioni viene deviato e diventa vana la rincorsa all’annullamento dei divari, citando i lavori dello storico Eric Jones (1981), che ha analizzato le ragioni per cui, a partire dalla metà del Settecento, l’Occidente si è sviluppato mentre Oriente e Sud del mondo sono rimasti indietro. Tra queste è particolarmente interessante la descrizione delle esperienze di sviluppo iniziate in alcuni paesi extraeuropei, ma soffocate da autorità politiche o religiose, che si sono appropriate delle nuove invenzioni a loro esclusivo vantaggio o ne hanno bandito lo sfruttamento per paura di perdere il potere. È stata l’estrema disuguaglianza di queste società a impedire il consolidamento della crescita e l’uscita dall’arretratezza. La conclusione di Deaton è che, se nel passato élites potenti e miopi hanno strangolato la crescita economica, possono farlo di nuovo, se sarà loro consentito, minando così la democrazia.
Quali sono, oggi, i fattori che rischiano di bloccare la grande fuga riportando indietro le lancette della storia? Maurizio Franzini e Mario Pianta (2016) ne hanno identificati quattro. Al primo posto mettono il potere del capitale sul lavoro. Le vittorie elettorali di Margaret Thatcher in Gran Bretagna nel 1979 e di Ronald Reagan negli Stati Uniti nel 1980 hanno dato l’avvio all’età del neoliberismo, che ha rott...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. 1. Le disuguaglianze e la loro legittimazione
  3. 2. La classe conta
  4. 3. Dalla parte dei privilegiati: come si costruisce e mantiene la disuguaglianza
  5. 4. Dalla parte degli svantaggiati: la colonizzazione della mente
  6. 5. Tempi duri
  7. Riferimenti bibliografici