L'arte dell'attore dal Romanticismo a Brecht
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L'arte dell'attore dal Romanticismo a Brecht

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L'arte dell'attore dal Romanticismo a Brecht

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A partire dal Romanticismo, gli attori cercano di nobilitare il loro mestiere attraverso la pubblicazione di trattati e manuali di recitazione. Nonostante questi tentativi di codificazione dell'arte, all'inizio dell'Ottocento si afferma il mito dell'attore ispirato, che recita trasportato dall'impeto del sentimento. Il dibattito fra i fautori dell'immedesimazione e i sostenitori di una recitazione 'a freddo' si intensificherà nel corso del secolo. Il Novecento batterà invece altre strade, inaugurando una complessa riflessione sulle tecniche e sul training, ma anche sulle possibili interazioni fra attore e regista. Sandra Pietrini offre una panoramica della funzione e dell'immagine dell'attore negli ultimi due secoli, dalla recitazione romantica al narratore nel teatro epico di Brecht, dai manuali di mimica alla riscoperta della corporeità scenica nelle prime avanguardie novecentesche.

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I. I grandi interpreti romantici in Germania e in Francia

Se anche in ambito teatrale il Romanticismo trova la sua prima espressione in Germania non è certo un caso. Libera dalle regole e dai lacci delle bienséances del teatro classico francese, la scena tedesca gode di una situazione favorevole, legata alla nascita di alcuni teatri stabili sovvenzionati dalle municipalità e dalle corti. Intorno al 1830 i teatri erano più di trentacinque, un numero tanto più ragguardevole se si pensa alla situazione di arretratezza della scena agli inizi del secolo precedente. Grazie alle condizioni materiali favorevoli e alla vocazione educativa degli uomini di cultura, il teatro divenne in Germania un mezzo per promuovere e difendere l’identità nazionale. Determinante fu anche l’influenza esercitata dalle compagnie italiane e inglesi, che provocarono una feconda commistione di esperienze e linguaggi scenici. Di certo il repertorio shakespeariano entrò in Germania molto prima che altrove, tanto che negli Anni di apprendistato di Wilhelm Meister di Goethe la rappresentazione dell’Amleto costituisce un momento di evoluzione professionale della compagnia con cui collabora il protagonista.

La scena tedesca, fra convenzioni e innovazioni

Nella prima metà del Settecento c’era stato un primo tentativo di rinnovamento teatrale da parte del professor Gottsched, che aveva collaborato con la compagnia dei coniugi Neuber con l’intento di sostituire un repertorio più elevato alle farse e alle arlecchinate allora in voga. Gottsched vedeva nel teatro uno strumento educativo e voleva applicare alla scena tedesca il buon gusto e le norme classiciste del teatro francese. Dai suoi scritti sulla declamazione pubblica emerge un’immagine dell’attore modellata su quella dell’oratore, che deve curare l’eleganza formale del porgere1. Sulla scena, ciò si traduceva tuttavia in uno stile affettato e manierato, reso ancora più ridicolo dalle acconciature e dai costumi ingombranti.
Un approccio radicalmente innovativo e autonomo rispetto al modello francese emerse con Gotthold Ephraim Lessing, che dal 1765 collaborò alla direzione del Teatro Nazionale di Amburgo con la funzione di Dramaturg (curava cioè il repertorio, non solo in quanto autore ma anche come rielaboratore di testi teatrali). L’impresa durò solo due anni, ma costituì un’esperienza importante, rievocata da Lessing nella Drammaturgia d’Amburgo (1767-69), rassegna critica delle opere rappresentate, ricca di spunti sulla recitazione (che avrebbero anzi dovuto essere molti di più, ma furono limitati a causa delle proteste degli attori). L’interesse di Lessing per la recitazione è evidente anche dal frammento Der Schauspieler (1754), in cui traccia lo schema dettagliato di un trattato che intendeva scrivere.
Allontanandosi dal modello di attore-oratore per propugnare la scuola di natura, ovvero una maggiore aderenza alla realtà quotidiana, Lessing consiglia all’attore di abbandonare i gesti grandiosi e stereotipati per cercare di caratterizzare l’interiorità dei personaggi. Non è vero, com’è stato affermato, che le sue osservazioni sulla recitazione «aggiunsero poco alle canoniche opere francesi dell’epoca»2. Oltre a indugiare su alcuni dettagli incisivi nell’interpretazione dei personaggi, Lessing ha infatti un’intuizione fondamentale, forse ispirata a un’osservazione del filosofo inglese Edmund Burke, che aveva notato come «nell’imitare gli sguardi e i gesti di uomini irati, o tranquilli, o spaventati, o coraggiosi» si fosse trovato «involontariamente portato a provare quella passione o quel sentimento»3. La mera simulazione dei segni esteriori può dunque generare i sintomi dello stato d’animo stesso. Questo semplice principio – che verrà poi rilanciato anche da Darwin4 – prelude in qualche modo all’elaborazione di una psicotecnica per la recitazione, ovvero di un metodo per risvegliare le passioni. Secondo Lessing, se l’attore saprà imitare alla perfezione i tratti esteriori dell’ira,
allora infallibilmente lo afferrerà un cupo sentimento d’ira, il quale non potrà non riflettersi anche nella persona, generando così quei mutamenti che non dipendono soltanto dalla nostra volontà: il suo viso si accenderà, i suoi occhi lampeggeranno, i muscoli si tenderanno, in breve parrà realmente un individuo in preda all’ira, pur senza esserlo e ignorando del tutto perché dovrebbe esserlo5.
Il nesso fra passione ed espressione viene così paradossalmente a capovolgersi, aprendo la strada alle successive codificazioni dei teorici e ai manuali per l’attore. Sebbene non fosse quello il suo intento, con la sua osservazione Lessing orienta infatti l’arte dell’attore sul versante della finzione. Ma i teorici romantici, come vedremo, tenderanno a rimuovere il principio di un’influenza delle manifestazioni espressive sulle emozioni per insistere piuttosto sulla superiorità dell’attore che sente ciò che esprime.
Il concetto enunciato da Lessing sarà rilanciato nel più importante trattato tedesco del Settecento, le Ideen zu einer Mimik (1785-1786) di Johann Jakob Engel, che nel secolo successivo fu tradotto in più lingue ed ebbe una grande diffusione. Secondo Engel, a ogni passione corrisponde un gesto peculiare, che l’attore deve conoscere e saper imitare, un «segno naturale caratteristico» che permane dopo aver eliminato le varianti dovute alle differenze individuali e culturali6. Engel non si occupa molto della questione della sincerità e della sensibilità dell’attore, ma prende in esame l’espressività in quanto codice comunicativo e indice degli stati emotivi. Il suo tentativo di dare una sistemazione teorica alla materia si fonda sul presupposto della visibilità e della trasparenza del corpo, comune alla trattatistica sull’attore ma anche ai nuovi studi sulle scienze umane7. Nell’intento di offrire una classificazione complessiva dell’espressività, Engel distingue fra gesti espressivi (ausdrückende), che manifestano le emozioni, e pittorici (malende), ovvero imitativi dell’oggetto del discorso. Mentre i primi sono adatti a tutti i generi drammatici, i secondi, più prosaici e volgari, dovrebbero essere usati solo nella commedia e con moderazione.
Engel sostiene l’importanza dell’immedesimazione dell’attore, pur precisando che un eccesso di sensibilità e trasporto potrebbe nuocere all’arte. Nel lodare l’attore Ekhof, afferma che non si lasciava mai trasportare dal sentimento, nel timore di perdere la capacità di esprimerlo in modo appropriato8. Ma anche Engel ammette che l’attore possa partire da un’imitazione esteriore del sentimento e, rilanciando il principio di Lessing, afferma: «dove l’attore sarà da tanto da contraffare tutti i segni, gli indizii, i movimenti del corpo, appresi per esperienza quali espressioni certe di affetti certi, ei si troverà aver l’anima attissima di per sé ad assumere lo stato corrispondente all’atteggiamento, al movimento, al tono»9. La concezione di Engel racchiude, e in qualche modo concilia, i termini oppositivi della dialettica fra immedesimazione e finzione, che intorno alla metà del Settecento era stata affrontata in Francia da Diderot nel Paradoxe sur le comédien10.
A conferma dei suoi interessi teatrali, nel 1787 Engel assunse la direzione del Königliches Nationaltheater di Berlino, che mantenne per sette anni. Ma i suoi tentativi di riforma per dare maggiore dignità alle scene e ai costumi fallirono. Aprirà poi una scuola ad Amburgo, mettendo in atto la tipica vocazione educativa di molti letterati, filosofi e uomini di teatro tedeschi. La direzione del teatro di Amburgo, dove aveva lavorato Lessing, fu poi assunta dall’attore Ludwig Schröder, a cui si ispirò Goethe nel tracciare l’immagine di Serlo negli Anni di apprendistato di Wilhelm Meister. Nel 1776 Schröder mise in scena la prima rappresentazione in tedesco dell’Amleto, con Johann Brockmann come protagonista. È probabilmente proprio Brockmann che Engel ritrae nelle Ideen zu einer Mimik per illustrare il famoso monologo di Amleto. L’attore punta l’indice davanti a sé come per individuare l’oggetto del discorso, con un gesto molto simile a quello compiuto da Brockmann in un’incisione di Daniel Nikolaus Chodowiecki. È possibile che Engel si sia semplicemente ispirato alla raffigurazione, oppure, com’è più probabile, che entrambe le immagini riproducano un atteggiamento che Brockmann teneva sulla scena. Come si evince anche dalle altre illustrazioni della serie, questi interpretava la parte senza ricorrere a toni enfatici e pose plastiche, con atteggiamenti misurati che sembrano riportare la tragedia a una dimensione più familiare. Un Amleto pensoso e antiretorico, dunque, che si contrappone alla recitazione molto più energica e violenta di Schröder, che assumerà in seguito la parte. Entrambi gli attori contribuirono comunque ad affermare il principio romantico di una libera interpretazione del personaggio da parte dell’attore.
In verità, l’artista che Engel assume come modello positivo è Konrad Ekhof, che intorno alla metà del Settecento aveva fondato la prima accademia di recitazione. La scuola durò poco più un anno, ma fu comunque un’esperienza determinante, poiché istituì un nesso fra l’esercizio della professione scenica e la condotta morale dell’attore, e dunque la sua posizione nella società. Questo principio sarà ripreso in seguito da August Iffland, drammaturgo e attore a Mannheim e poi a Berlino. Al di là del suo stile di recitazione, da alcuni accusato di disomogeneità, Iffland contribuì ad accrescere la reputazione del mestiere. Non soltanto ottenne un’enorme popolarità e compensi elevati; con lui l’attore cominciò a divenire un modello di buone maniere e un personaggio rispettabile, stimato dall’alta società. Affidò inoltre le sue idee sulla recitazione a una serie di scritti, i Berliner Almanachen, pubblicati fra il 1807 e il 1812, in cui descrisse gli atteggiamenti espressivi dei diversi caratteri e sentimenti.
Analogamente a quanto era accaduto in altri paesi europei, anche in Germania si era affermato fin dal Settecento il sistema dei ruoli, oggetto fra l’altro di riflessioni teoriche che si estenderanno al secolo successivo11. Già all’inizio dell’Ottocento i ruoli vengono definiti «una rovina», in quanto limitazioni delle capacità degli attori12, ma di fatto erano per i comici un punto di riferimento imprescindibile. Il ruolo definiva la gamma di parti di competenza dell’attore, richiedeva un certo aspetto fisico (appunto il physique du rôle, requisito comunque spesso disatteso) e implicava la prevalenza di determinate manifestazioni espressive. Come negli altri paesi europei, nel corso del secolo i ruoli subirono sostanziali ridefinizioni, anche in seguito all’avvento di una nuova drammaturgia e all’affermazione della figura del regista, ma in generale persisteranno fino ai primi del Novecento.
Al teatro di Mannheim aveva collaborato con Iffland un protagonista del Romanticismo tedesco, Friedrich Schiller, che a partire dal 1798 lavorerà con Goethe nel teatro di Weimar. Il sodalizio fu breve a causa della morte prematura di Schiller, ma intenso e fecondo, sia per l’affermazione dei drammi romantici sia per la messa in scena ...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. I. I grandi interpreti romantici in Germania e in Francia
  3. II. Dalla rappresentazione delle passioni al teatro naturalista
  4. III. Attori e teorici della mimica in Italia
  5. IV. Arte del sentire o del rappresentare?
  6. V. Dalla scena disincarnata dei simbolisti all’attore mistico
  7. VI. Dalla reviviscenza di Stanislavskij alla biomeccanica
  8. VII. Impegno e disimpegno nel teatro del Novecento