Discorsi alla nazione tedesca
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Discorsi alla nazione tedesca

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Discorsi alla nazione tedesca

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I temi dell'Europa, del suo assetto costituzionale, della sua forma di governo; il rapporto tra identità europea e identità nazionali, regionali, locali; il tema della cittadinanza e dei diritti; il tema dello straniero, dell'originario, dell'ospitalità: questi i nodi concettuali presenti nei Discorsi alla nazione tedesca (1808) di J.G. Fichte –raccolta delle conferenze tenute dal filosofo di fronte a un pubblico entusiasta nella Berlino occupata dai francesi– tra i primi testi a elaborare in senso moderno il concetto di nazione e a porlo in relazione con le nozioni da un lato di popolo e dall'altro di Stato.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858118283

Introduzione di Gaetano Rametta

a Lia,
che sa il perché
Fichte tenne i Discorsi alla nazione tedesca nell’anfiteatro dell’Accademia delle scienze di Berlino, ogni domenica a partire dal 13 dicembre 1807, e così sino al 20 marzo 18081. Il pubblico era costituito da “una numerosa assemblea di signori e signore” della società colta berlinese, mentre per via epistolare il filosofo manteneva i rapporti con personalità del governo prussiano, allora in “esilio” a Memel, nell’estremo nord della Prussia orientale. Le condizioni in cui si svolgevano gli incontri ci vengono riferite dalle memorie di alcuni partecipanti, che sottolineano lo straordinario coraggio di cui Fichte aveva dato prova nel sostenere in conferenze pubbliche la necessità di una rigenerazione spirituale della Germania, come condizione per la liberazione e il riscatto dalla dominazione straniera2. Le truppe di occupazione francesi sfilavano sotto le finestre della sala in cui le conferenze si svolgevano, e i suoni delle fanfare militari si sovrapponevano alle parole dell’oratore; non soltanto in sala erano presenti informatori francesi, ma persino il censore prussiano assisteva personalmente alle riunioni. Era ancora vivo il ricordo della fucilazione cui era stato sottoposto il libraio Palm, per aver pubblicato un opuscolo di propaganda anti-francese. Il rischio era dunque effettivo, anche se del contingente francese facevano parte, con posizioni di responsabilità, alcuni ex allievi del filosofo3.
Ma che cosa aveva portato la situazione a questo punto? È lo stesso Fichte, nel Primo discorso, a presentarci la sua diagnosi. Riallacciandosi esplicitamente alle lezioni sui Tratti fondamentali dell’epoca presente che aveva tenuto a Berlino alcuni anni prima (1804/05), egli sottolinea che i Discorsi vanno intesi come la continuazione di quelle. Come noto, nei Tratti fondamentali Fichte aveva contrassegnato l’epoca presente come quella della “compiuta peccaminosità”, intendendo con ciò indicare la prevalenza di un atteggiamento intellettualistico, volto al perseguimento dell’utilità e del vantaggio immediati nella vita terrena4. Tale atteggiamento era il frutto della critica illuministica alle religioni positive e della conseguente assolutizzazione della conoscenza scientifica, nel senso matematico-quantitativo delle moderne scienze della natura. Si era diffuso dalla Francia alla Germania, ma l’“egoismo” immanentistico di cui esso era promotore si era innestato qui su una situazione politica già di per sé frammentata e ricca di spinte centrifughe. All’interno di questo quadro, si colloca l’atteggiamento dei diversi Stati tedeschi, e più in generale dei ceti territoriali e dei singoli cittadini, di fronte alle guerre rivoluzionarie prima, e a quelle di Napoleone poi.
Fichte cerca di adottare un linguaggio che, sulla scorta di Leo Strauss, potremmo definire “reticente”. In parte per prevenire gli interventi della censura, in parte perché costretto esplicitamente da quest’ultima a modificare termini ed espressioni, egli impiega in molti casi parole quanto più possibile generiche, che non sempre rendono agevole – per un lettore del nostro tempo – identificare i bersagli concreti della sua polemica con la stessa facilità con cui venivano identificati dagli uditori e dai censori dell’epoca. Così avviene per l’uso dell’avverbio irgendwo, “da qualche parte”, nel Primo discorso, quando si tratta di collocare nello spazio il luogo in cui l’“egoismo” è andato completamente distrutto5; così avviene per l’impiego del termine “estero”, con cui di solito (ma non sempre) si intende, in concreto, la Francia.
La distruzione dell’egoismo indica dunque la distruzione dell’impero tedesco e, ancora più concretamente, la disfatta subita dalle truppe prussiane nella battaglia di Jena e di Auerstädt. Essa è vista da Fichte come l’esito conseguente del comportamento incerto e oscillante della Prussia, che aveva abbandonato al loro destino i diversi Stati tedeschi con cui formava un’unica compagine, per salvaguardare la propria sicurezza e ottenere magari qualche vantaggio territoriale (come l’acquisizione dell’Hannover a seguito del Trattato di Schönbrunn del 15 dicembre 1805, successivo alla disfatta austriaca nella battaglia di Austerlitz del 2 dicembre dello stesso anno). L’inadeguatezza della politica prussiana si sarebbe manifestata di lì a qualche mese, quando Napoleone avrebbe fatto pagare a caro prezzo l’alleanza coi vincitori, imponendo alla Prussia di chiudere al commercio inglese i propri porti (Trattato di Parigi, 15 febbraio 1806), e al tempo stesso costringendo l’imperatore asburgico Francesco II a dichiarare decaduto il Sacro romano impero germanico (26 agosto 1806). Tale decisione era stata preceduta dalla fondazione della Confederazione del Reno (12 giugno 1806), che raccoglieva in un’unica compagine politica i territori tedeschi alleati dei francesi. Così, la Prussia venne a trovarsi isolata di fronte all’“alleato” francese, e quando sembrò che perfino l’Hannover sarebbe stato restituito all’Inghilterra, la decisione di mobilitare l’esercito e muovere guerra alla Francia giunse come un atto ormai tardivo e senza efficacia: la battaglia di Jena e di Auerstädt (14 ottobre 1806) fornì la testimonianza che la dissoluzione dell’impero – cui la Prussia stessa aveva contribuito col suo atteggiamento, basato solo sul calcolo meschino di qualche vantaggio temporaneo e sul mantenimento della propria sicurezza – si era trasferita all’interno della Prussia6.
Per Fichte, l’idea di restare in una Berlino che era in procinto di essere occupata dal vincitore (Napoleone vi entrerà il 27 ottobre) diventa insopportabile. Alla notizia della sconfitta prussiana, egli perciò fugge dalla città, e raggiunge la corte a Königsberg. Nella città di Kant, oltre a pubblicare il saggio su Machiavelli che attirerà l’attenzione del giovane Clausewitz, Fichte tiene un corso di dottrina della scienza nella locale università. Come vedremo, le riflessioni condotte in queste lezioni costituiscono lo sfondo indispensabile per intendere adeguatamente le considerazioni di carattere teoretico contenute in particolare nel Settimo discorso. A ogni modo, anche la capitale dell’antica Prussia orientale costituisce un riparo solo temporaneo: l’apertura delle ostilità contro la Russia dello zar Alessandro, culminate nella vittoria napoleonica della battaglia di Friedland (13 giugno 1807), spinge Fichte nuovamente alla fuga e al rientro a Berlino (agosto 1807), dopo che l’umiliazione della Prussia si era estesa, dal terreno militare, a quello politico-diplomatico (pace di Tilsit, luglio 1807). Nella capitale prussiana, ancora priva del governo che a seguito dell’occupazione di Königsberg da parte dei francesi si era ritirato a Memel, Fichte trova il clima politico e spirituale per reagire al quale decide di pronunciare le sue Reden an die deutsche Nation.
Ma allora, se tale è la situazione concreta all’interno della quale intendono intervenire i Discorsi, è evidente che la continuità con le lezioni sui Tratti fondamentali dell’epoca presente andrà intesa in modo tutt’altro che lineare. Ciò che con la disfatta della Prussia è andato distrutto, infatti, non è un semplice assetto politico, bensì è il principio stesso del periodo che costituiva l’età “presente” all’epoca dei Grundzüge. La battaglia di Jena e le sue conseguenze producono una rottura epocale, e i Discorsi intendono porsi all’altezza di questa rottura7. A partire dalla sottomissione nei confronti di una “violenza esteriore” quale quella esercitata dai francesi, l’unica possibilità per una via d’uscita è costituita dalla “formazione di un nuovo mondo”. La transizione tra la vecchia e la nuova epoca, tra l’età dell’egoismo dominante – contraddistinta da un Illuminismo che ha emancipato la ragione dall’obbedienza ad autorità estranee, ma che d’altra parte l’ha ridotta a “intelletto sensibile” e calcolante – e l’età nuova, in cui la ragione dovrà estendere la chiarezza guadagnata attraverso il lavoro dell’intelletto alla dimensione propriamente spirituale del soprasensibile, può essere “agita” dal pensiero, e non meramente subita, solo a partire dalla presa di coscienza che la crisi che investe la Germania è una crisi irreversibile sotto il profilo temporale, e il cui significato va ben al di là dei confini tedeschi, investendo l’Europa nel suo complesso8.
I Discorsi sono l’espressione di questa presa di coscienza, e proprio perciò rappresentano un unicum nella produzione filosofica di Fichte. In questi anni, l’attività del filosofo si era andata svolgendo secondo due linee coerenti dal punto di vista della concezione di fondo, ma distinte sotto il profilo dell’articolazione sistematica. Da una parte, abbiamo una sequenza impressionante di esposizioni di dottrina della scienza (la prima della fase berlinese, nel 1801/02; un breve corso nel 1803; addirittura tre cicli nel 1804; le lezioni di Erlangen nel 1805; il corso di Königsberg nel 1807); dall’altra, una serie di conferenze a carattere “popolare”, che comprendono le lezioni sull’“essenza del dotto”, sui caratteri fondamentali dell’epoca presente, e sull’avviamento alla vita beata (tutti e tre questi “corsi” verranno pubblicati a Berlino nel 1806). Dove si collocano le Reden? Esse non costituiscono, palesemente, una esposizione di dottrina della scienza; la loro finalità non è di tipo speculativo, ma immediatamente pratico, operativo. D’altra parte, esse non sono neppure “filosofia popolare”, anche se di quest’ultima possiedono la caratteristica di rivolgersi a un pubblico di non specialisti, e quindi di adottare un linguaggio per quanto possibile non tecnico e d’immediata comprensibilità9.
La filosofia popolare espone le concezioni che contraddistinguono la dottrina della scienza, ma non le dimostra in senso rigoroso; mostra come vanno intesi i rapporti tra l’Assoluto e il mondo dei fenomeni, qual è la funzione della coscienza all’interno di questi nessi; spiega quali siano le destinazioni dell’uomo, del dotto; quali siano le articolazioni di fondo della storia, la direzione di marcia delle diverse epoche: ma non dimostra tutto ciò in senso propriamente “genetico”, non riconduce il tutto alle proprie condizioni di possibilità trascendentali, non mostra le stratificazioni ontologiche, il carattere “universale e necessario” dei diversi livelli di essere e di presa di coscienza che lo costituiscono. Nonostante i suoi limiti epistemologici, la filosofia popolare resta comunque “filosofia”. Anche se immediatamente volta a intervenire nella vita degli uomini, tuttavia essa non oltrepassa il piano di una scissione tra il filosofo e il suo pubblico, resta una prestazione della “teoria”, che è rivolta a una prassi ma non coincide ancora con questa stessa prassi.
Le Reden intendono, invece, essere immediatamente prassi, immediatamente azione. Anch’esse sono senz’altro “filosofia”, ma lo spazio in cui tale filosofia si dispone non è più quello della teoria, ma quello di una pratica e di un esercizio. In questo, le Reden si allacciano al nucleo più profondo della dottrina della scienza, che ha sempre inteso il pensiero come esercizio di libertà, e quindi come modalità intimamente pratica di esercizio della teoria. Ma è proprio il piano su cui si dispone tale praticità del filosofare che con le Reden cambia bruscamente. Non è più dell’intima praticità di un pensiero che si tratta, il punto di partenza dell’esposizione non è più la spontaneità del soggetto pensante che coglie se stesso. È l’instaurazione, la fondazione inaugurale di una nuova comunità di parola e di ascolto, ciò che qui è in gioco innanzitutto. E la costituzione di tale comunità di parola e di ascolto è ciò che va inteso come significato primario dell’idea di nazione. Solo se riusciranno a fondare tale comunità, solo se riusciranno a creare a se stessi le condizioni del proprio ascolto, tali Discorsi potranno dire di essere stati effettivamente tali.
Certo, anche questo è un tratto caratteristico di tutto il pensiero di Fichte, della dottrina della scienza così come della filosofia popolare. Ma qui è importante insistere su un’inversione, su un rovesciamento che è al tempo stesso segno di una dislocazione, di uno spostamento di fondo; qui è il dire che assume preminenza sul pensare; o meglio, poiché evidentemente un dire senza pensiero non sarebbe un dire: il pensiero è tutto esercitato e praticato come parola che si rivolge a un ascolto, come un dire che nell’atto di pronunciarsi evoca e con ciò stesso fa emergere la comunità di coloro che sono in grado di accoglierlo e di comprenderlo e, con ciò stesso, di giustificarlo e di confermarlo. Non c’è più né può più esserci scissione tra piano del pensato e piano del detto: la riflessione è immediatamente linguaggio, e il linguaggio diventa atto costituente, istituzione di comunità; il discorso non è più mera trasmissione di contenuti, ma non è più nemmeno semplice comunicazione tra intelligenze diverse. Assieme a tutto ciò, esso possiede valenza eminentemente “performativa”: è momento di evocazione e di appello verso una comunità ancora assente, ma in pari tempo è l’anticipazione nel presente della comunità di là da venire, e perciò rappresenta in modo paradossale la conferma di una fondazione già avvenuta.
Così i Discorsi cadono al di fuori della ripartizione tra dottrina della scienza e filosofia popolare, e manifestano una volta di più la pregnanza della categoria fichtiana dello Schweben, di quel librarsi oscillatorio tra ragione e intelletto che, nella Grundlage del 1794/95, costituiva l’attività dell’immaginazione produttiva, e che ora i Discorsi sembrano incorporare nel momento in cui oscillano tra dottrina della scienza e filosofia popolare, senza poter essere catturati all’interno di nessuna di queste due, pur presentando aspetti di entrambe. Ma sarebbe più che fuorviante intendere tali rapporti alla maniera hegeliana di una Aufhebung, di un inglobamento-superamento. Perché tale librarsi dei Discorsi ne segnala in pari tempo l’eccedenza, l’eccezionalità rispetto a entrambe: e questa eccezionalità, questa eccedenza è costituita dal fatto che il pensiero è qui immediatamente dire, che la praticità del pensiero è qui immediatamente atto di parola, anzi addirittura rivendicazione, da parte di colui che parla, del proprio incondizionato diritto a farlo, non in virtù del fatto che egli sia qualificato da qualcosa di diverso rispetto a ciascun altro, ma per il semplice fatto di essere stato il primo ad averlo fatto10. Dall’atto del dire, al suo carattere di fatto; dal suo carattere di fatto, all’autogiustificazione dell’atto in quanto tale: è un movimento che ricorda senz’altro quello dell’“atto-fatto” proprio della Tat-Handlung presente nella Grundlage. Ma qui, come si vede, non siamo più sul piano dell’Io che pone se stesso come principio primo della scienza, bensì all’interno di un esercizio di parola, in cui colui che parla si pone innanzitutto come parlante, e ancor più: come colui che rivolge la parola e, nel rivolgere la parola, instaura per anticipazione la comunità cui la parola stessa si rivolge.
Fichte insiste, nel Primo discorso, sul fatto che egli si rivolge a tedeschi “semplicemente”, a tedeschi senza alcuna distinzione di ceto, di età, di sesso e di censo. D’altra parte, poco dopo, egli precisa che il suo appello si rivolge anzitutto alla “parte colta dell’intera nazione tedesca”. Si tratta di una contraddizione solo apparente. Come chiarirà in seguito, Fichte ritiene con ciò di produrre un’innovazione rispetto all’andamento della storia tedesca fino a quel momento. Infatti, nel corso della storia tedesca, tutte le spinte innovative erano partite dal “popolo”, e i ceti colti si erano limitati ad assumerle, a metterle in forma, e a ripresentare al popolo le elaborazioni e le proposte che ne erano risultate. Ora invece, per la prima e l’ultima volta, è ai ceti colti che spetta l’iniziativa11: a coloro che vengono raggiunti dalla parola di colui che parla, nel presente immediato dell’anfiteatro dell’Accademia; a coloro che verranno raggiunti dai discorsi stampati di volta in volta, e quindi raccolti in libro, nel seguito.
Non occorre soffermarsi qui sull’influenza effettiva che i Discorsi ebbero su alcune tra le più importanti personalità del mondo politico e culturale prussiano dell’epoca, e su come essi contribuirono a formare il clima intellettuale e politico precedente e successivo alle guerre di liberazione12. A parte alcune esasperazioni legate all’ottica particolare della “fonte”, gli atti su Fichte della commissione centrale d’inchiesta istituita dopo i “deliberati di Karlsbad” risultano, su questo punto, assai eloquenti13. Più significativo ci sembra insistere sul fatto che con la designazione del proprio destinatario, Fichte intenda istituire una sorta di circolo virtuoso della responsabilità: all’assunzione di responsabilità da parte di colui che prende la parola, non può non seguire l’appello all’assunzione di una responsabilità corrispondente da parte di coloro cui la parola si rivolge. Solo la chiusura di tale circolo farà sì che il detto sia stato pronunciato effettivamente come “discorso”, e al tempo stesso confermerà che in tale “discorrere” non si trattava semplicemente di rinviare a un’azione futura, ma che tale azione era già cominciata, aveva già celebrato il proprio inizio nella partecipazione, nell’ascolto e nella comprensione di questi Discorsi. Se volessimo scomodare le categorie della moderna scienza politica, potremmo opportunamente parlare in proposito di una rappresentanza di tipo esistenziale, nel senso che Fichte e il suo pubblico non traggono la loro qualifica di rappresentanti della nazione da procedure formali di autorizzazione, bensì dall’atto esistenzialmente concreto di u...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione di Gaetano Rametta
  2. Prefazione
  3. Primo discorso. Considerazioni preliminari e sguardo d’insieme
  4. Secondo discorso. Sull’essenza della nuova educazione in generale
  5. Terzo discorso. Continua la descrizione della nuova educazione
  6. Quarto discorso. La diversità capitale tra i tedeschi e gli altri popoli di provenienza germanica
  7. Quinto discorso. Conseguenze della diversità indicata
  8. Sesto discorso. Presentazione nella storia dei tratti fondamentali dei tedeschi
  9. Settimo discorso. Comprensione ancora più profonda del carattere originario e tedesco di un popolo
  10. Ottavo discorso. Che cos’è un popolo nel più alto significato della parola, e che cos’è amor di patria?
  11. Nono discorso. A quale punto dato nella realtà sia da collegare la nuova educazione nazionale dei tedeschi
  12. Decimo discorso. Per la determinazione più precisa dell’educazione nazionale tedesca
  13. Undicesimo discorso. A chi spetterà l’attuazione di questo programma educativo?
  14. Dodicesimo discorso. Sui mezzi per conservare noi stessi fino al raggiungimento del nostro scopo principale
  15. Sommario del tredicesimo discorso. Continuazione delle considerazioni precedenti
  16. Quattordicesimo discorso. Conclusioni generali