La fine della città
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La fine della città

  1. 170 pagine
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La fine della città

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«Il mio mestiere è l'architettura. Mi sembra più esatto dire così che non 'faccio l'architetto', perché l'architettura è una cosa difficile da avvicinare e io ho tentato di farlo con vari mezzi: progettare edifici, disegnare piani regolatori, collaborare alla redazione di leggi, scrivere libri o articoli di giornale, insegnare la storia dell'architettura. Non ho potuto ancora scegliere di fare una sola di queste cose, perché lo scopo che questa disciplina si pone, vale a dire migliorare anche solo di poco l'ambiente fisico in cui vive la gente, è troppo importante e difficile per tentare di raggiungerlo in un unico modo. Qualche volta è possibile costruire un piccolo pezzo di questo ambiente in un contesto accettabile; qualche volta bisogna tentare di correggere questo contesto, cioè aiutare l'amministrazione pubblica a fare i piani urbanistici; qualche volta invece si scopre che occorre prima rifare le leggi; e qualche volta ancora che non si può fare nessuna di queste cose e dunque non resta che riflettere e scrivere.»

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Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788858103067

Roma

Lei lascia Roma nel 1977 per trasferirsi a Brescia. È evidente una forte delusione per gli indirizzi che prendeva l’urbanistica romana e per l’impossibilità di vedere concretamente realizzata una serie di progetti. Eppure lei continuerà a lavorare per Roma anche successivamente. Insieme a Vittorio Gregotti e Augusto Cagnardi, fra i primi anni Ottanta e la metà del decennio, metterà a punto un piano per l’area archeologica romana, meglio noto come «progetto Fori», un piano che avrebbe regalato alla città, nel suo centro storico, un enorme parco archeologico che avrebbe avuto significativi effetti su tutto l’assetto urbanistico di Roma. Questo piano arrivava dopo che un consistente movimento d’opinione si era battuto affinché venisse suturata la ferita inferta alla città dal fascismo, con la distruzione del colle della Velia e di un intero quartiere nel cui vuoto posticcio sarebbe sorta la via dei Fori imperiali. Fra gli esponenti di quel movimento troviamo in primo luogo Antonio Cederna, ma anche suoi colleghi come Italo Insolera e Vezio De Lucia, il soprintendente archeologico di Roma Adriano La Regina e l’archeologo Filippo Coarelli. Ma soprattutto fra i motori di quell’iniziativa c’era il sindaco di Roma, Luigi Petroselli, considerato alla sua elezione un grigio burocrate di partito e rivelatosi invece un geniale amministratore, capace di riscoprire i valori culturali che Roma esprimeva e di ricucire il tessuto sociale slabbrato di una città dalle immense e derelitte periferie. Dopo quel progetto lei continuerà a occuparsi di Roma con altre iniziative, praticamente fino a oggi, alle più recenti vicende dell’urbanistica romana. Ma cominciamo con i Fori.
A Roma abbiamo un’immensa fortuna: una delle zone archeologiche più grandi e pregiate del mondo è collocata esattamente nel centro della città moderna. Un’area viva, che fa parte del tessuto più vitale della città e che contemporaneamente documenta la sua continuità storica, che procede ininterrotta da secoli. Del tutto diverso, per esempio, è il caso di Atene. Nonostante il Partenone, l’agorà, l’areo­pago, la capitale greca per mille anni è stata un sobborgo turco di scarsa importanza, con l’area archeologica sepolta e di fatto dimenticata. Se ripenso alle tensioni intellettuali e politiche di allora, oggi che quella vicenda pare definitivamente chiusa, vengo colto da un sentimento di sconcerto e di rabbia per il modo in cui in Italia, e a Roma, siamo incapaci di cogliere tutte le opportunità che una situazione del genere offre. La zona archeologica di Roma, sia quella di età repubblicana che di età imperiale, è come Trafalgar Square o Westminster Abbey per Londra – inserita perfettamente nel cuore urbano. È un grande tema di architettura che tentammo di recuperare, Vittorio Gregotti e io, facendo leva sia sugli aspetti della tutela archeologica sia su quelli più prettamente urbanistici. Ma purtroppo il nostro progetto è rimasto inattuato. Prima rinviato, poi abbandonato, infine escluso, senza tanti clamori, dall’orizzonte della città dalle giunte di tutti i colori. L’area dei Fori poteva diventare, non solo un museo en plein air, ma un luogo di passeggio, un sublime spazio pubblico. Il funzionamento della città ne avrebbe guadagnato. Ma di tutto questo restano i due volumi con eccellenti saggi, tante mappe e bellissime fotografie pubblicati a cura della Soprintendenza.
Il progetto Fori è uno snodo da molti considerato decisivo nell’urbanistica italiana. Vogliamo vederlo più da vicino?
Il centro monumentale della città antica, quello dei Fori, del Colosseo e del Teatro di Marcello, del Palatino, del Circo Massimo, del Celio e del colle Oppio, si trova al limite fra la zona costruita nei secoli successivi all’età classica e il verde della campagna che sfila verso l’Appia Antica e che è, a tutti gli effetti, una campagna intra moenia. È un immenso spazio libero che si incunea nella compagine edificata fino alla sistemazione michelangiolesca del Campidoglio. Quest’area funziona come raccordo fra i due paesaggi della città, quello vivo e quello morto. Dall’Unità d’Italia e dal trasferimento della capitale a Roma ogni corretta sistemazione della città tiene conto del fatto che l’area archeologica è inglobata in un grande tessuto urbano, ma decentrata quanto basta per realizzare una specie di dualità con il centro storico più propriamente detto, quello cinquecentesco e poi barocco. Grazie all’iniziativa di Guido Baccelli e di Ruggero Bonghi, tutto il vasto settore fra il Campidoglio e Porta San Sebastiano viene acquisito dallo Stato e sottratto a ogni forma di espansione edilizia. Nasce la Passeggiata archeologica, e questa sistemazione ha gli stessi caratteri di un parco recintato e alberato come Villa Borghese.
Prima di arrivare alle questioni più specificamente urbanistiche, può spiegare come coabitano una città viva e una città morta?
Benissimo, se la coabitazione è adeguatamente governata. Il mito culturale di Roma si fonda su un doppio confronto. Di tipo diacronico, il primo: la magnificenza del passato si confronta con la rovina del presente. E di tipo sincronico: da una parte la dimensione urbana colossale, perduta e silenziosa, dall’altra la dimensione ordinaria, quotidiana e vissuta. Il confronto ha sempre suggerito l’idea di quanto le imprese umane avessero dei limiti. Roma, da questo punto di vista, non è la città eterna. È anzi il luogo di meditazione sull’impossibilità dell’eterno nel mondo di qua. Queste sono le riflessioni di Goethe, di Stendhal e di Mommsen; le ritroviamo persino in quel rispetto popolare per le rovine che viene colto da Giuseppe Gioachino Belli e da Trilussa.
Torniamo al suo percorso cronologico.
Durante il fascismo questa zona sgombra diventa, da una parte, il luogo per le celebrazioni di sé del regime, dall’altra, il varco ideale per far passare le grandi arterie di traffico che collegano il centro con i quartieri meridionali, la direzione scelta da Piacentini e dal piano regolatore del 1931 in cui doveva procedere l’espansione della città.
Su questa vicenda Antonio Cederna ha scritto pagine fondamentali, raccolte in Mussolini urbanista (edito da Laterza nel 1979, ripubblicato nel 2006 dalla Corte del Fontego).
È da lì che traggo le mie riflessioni. Il fascismo fece distruggere un intero quartiere del centro storico, circa 5.000 vani, e uno dei colli di Roma antica, la Velia, per aprire la via dell’Impero, oggi via dei Fori imperiali, che doveva rendere visibile il Colosseo da piazza Venezia e consentire di svolgere le parate militari. Quella strada era un obbrobrio geometrico, una linea retta tracciata con la riga solo per far marciare le truppe. I precedenti piani regolatori ottocenteschi prevedevano invece tracciati curvilinei che assecondavano le forme preesistenti. La conseguenza fu che la maggior parte dei monumenti dei Fori si trasformavano in quinte scenografiche per la propaganda fascista, ma anche le sedi per le correnti del traffico sempre più massiccio diretto a sud. Fino alla guerra questo flusso di auto private, pur in crescita (in tutta Italia si passò da 40.000 a 300.000 macchine), restava sopportabile. Più insopportabili erano gli accenti di retorica futurista accolti da Antonio Muñoz, il responsabile delle Belle Arti nel governatorato di Roma, per invocare che i motori, con la loro vita pulsante, irrompessero fra i ruderi della Roma imperiale.
La distruzione della Velia fu un vero misfatto.
Assolutamente. Al sommo del colle, come racconta Cederna, c’era il bellissimo giardino rinascimentale Silvestri-Rivaldi, che, pur inselvatichito, sfoggiava fontane, gradinate e criptoportici. Sotto il colle erano attestate le antiche fasi della civiltà laziale, tombe, pozzi. Poi gli avanzi di dimore che risalivano al penultimo secolo della Repubblica, le colossali fondazioni della Domus Aurea. Secondo Lorenzo Quilici, che fece una descrizione della Velia in base a documenti e fonti letterarie, per avere un’idea della devastazione occorreva immaginare che una strada sbancasse il Palatino con tutto quello che avrebbe incontrato.
Tornerei sull’aspetto urbanistico. Lei accennava al problema del traffico, che allora non poteva ancora mostrarsi in tutta la sua gravità. Da un certo momento in poi, però, la questione sarebbe diventata molto più critica.
Nel 1937 si decise di realizzare l’E42, che sarebbe diventato l’Eur, il quartiere per l’Esposizione universale progettato a sud, perseguendo l’obiettivo mussoliniano di spingere Roma verso il mare. Gli attacchi viari fra il centro storico di Roma e l’Eur si collegavano alla Passeggiata archeologica, che si trasformava in una via di traffico fondamentale. La drammaticità della situazione emerse nei decenni successivi alla guerra, con la popolazione che negli anni Settanta sarebbe triplicata, il numero degli alloggi sestuplicato, interessando in buona parte proprio le aree intorno ai collegamenti fra il centro e l’Eur, dove si sarebbe scatenata la speculazione edilizia degli anni Cinquanta e Sessanta. Le macchine, cresciute di trenta volte, avvolgevano i monumenti trattandoli alla stregua di spartitraffico. Insomma: nella seconda metà del Novecento l’area archeo­logica è in relazione non più solo con il centro storico, ma con l’immensa periferia che va costruendosi intorno. Questa situazione diventerà esplosiva nel 1978, quando La Regina denunciò la corrosione dei marmi a causa dei gas di scarico. Fu istituita una commissione presieduta dallo storico dell’arte Cesare Gnudi e il sindaco Giulio Carlo Argan dichiarò: «O i monumenti o le automobili». Riprese quindi vigore un’idea che avevo formulato già all’inizio degli anni Settanta, in un libro che si intitolava Roma da ieri a domani (Laterza, 1971). L’idea era di eliminare la via dei Fori imperiali e altre strade che attraversavano quei 250 ettari di zona archeologica. Qualcosa era stato già realizzato da Petroselli. Il sindaco, da poco insediato, fece demolire la via che nel Foro romano divideva il Campidoglio dal Foro repubblicano, e ricompose l’area fra il Colosseo e l’Arco di Costantino.
La cultura al centro dell’immagine che Roma offre di sé: questo era il senso dell’operazione. La cultura che diventa il punto gerarchicamente predominante e intorno al quale si fanno ruotare le altre funzioni della città – una città che bandisce il criterio dell’espansione speculativa, che aspira a funzionare meglio e che crea un enorme spazio pubblico fatto di verde e di arte in grado di interrompere la pressione del cemento. Abbiamo ricordato il ruolo svolto da Petroselli, il sindaco di Roma che però muore all’improvviso, nell’ottobre del 1981. Il progetto redatto da lei e Gregotti viene pubblicato nel 1985. Vogliamo ricordarne i punti principali?
In primo luogo proponevamo di eliminare le strade di traffico pesante introdotte nell’area nei cinquant’anni precedenti: via dei Fori imperiali, via del Teatro di Marcello, via di San Gregorio, via dei Cerchi, via delle Terme di Caracalla. Il progetto rispondeva anche a un’altra esigenza: evitare che lo stradone dei Fori imperiali immettesse migliaia di macchine in piazza Venezia, indirizzandole verso via del Corso. Si sarebbero poi condotti gli scavi archeologici intorno al Colosseo e in altre zone, verso il Foro di Nerva, in modo da mettere in comunicazione il Foro romano con quelli imperiali. Pensammo a un riassetto complessivo di tutta la rete stradale che rendesse possibili le soppressioni. Ci ponemmo anche i problemi connessi con tutto questo e immaginammo una revisione del piano regolatore della città, in relazione agli insediamenti residenziali, a quelli degli uffici, ecc. E inoltre c’era il riordino dell’intero paesaggio compreso fra le Mura Aureliane e piazza Venezia, paesaggio di verde e di eccezionali valori archeologici, che doveva diventare in gran parte solo pedonale, e in minima parte aperto al traffico delle macchine, come Villa Borghese, che ha un ruolo analogo all’altra estremità del centro storico di Roma. Fra le altre realizzazioni, proponevamo di ricostituire il colle della Velia, sistemando al suo interno un grande museo.
Un’impresa imponente, che avrebbe dato un volto diverso a tutta la città. E che invece è rimasta sulla carta.
Ci siamo imbattuti in primo luogo in un conflitto fra le due soprintendenze archeologiche romane: quella statale, guidata da La Regina, che è stato uno dei promotori dell’intero progetto, e quella comunale, affidata a Eugenio La Rocca, il quale era contrario. Poi trovammo di fronte a noi uno sbarramento di tipo culturale. Qualcuno sosteneva che in quell’area tutto fosse storico, comprese le strade novecentesche, compresa la via dei Fori imperiali voluta dal fascismo. C’è il Colosseo, dicevano, e ci sono le sistemazioni di Antonio Muñoz. Tutte le epoche hanno la loro dignità. Tutto è uguale, tutto va ugualmente tutelato. La prima differenza fra noi e loro era che Gregotti e io eravamo due professionisti indipendenti, gli altri erano tutti insediati nelle amministrazioni, nei partiti. Non voglio fare polemiche a distanza di tanti anni. Ma il primo che si scagliò contro il progetto fu un mio bravo allievo e assistente, Mario Manieri Elia. Poi con argomenti diversi intervennero contro lo smantellamento di via dei Fori imperiali illustri storici dell’arte come Giuliano Briganti, Federico Zeri, Cesare Brandi. Ricordo anche il latinista Luca Canali.
Lei cosa risponde a queste obiezioni?
Rispondo che i valori non sono sullo stesso piano. Altrimenti si conserva tutto o, viceversa, si demolisce tutto. Occorre il discernimento di un progetto, che invece ripristini l’evidenza di quel che è successo, eliminando quello che si ritiene improprio, come, appunto, le ridicole sistemazioni di Muñoz, con le colonnine e le scalinatine posticce. La Basilica di Massenzio non aveva un retro. Un retro invece è stato realizzato truccando il rovescio di una muratura di sostegno. Così ora, chi passa da via dei Fori imperiali vede un rudere che non è un rudere. Gli intellettuali italiani, a differenza dei loro colleghi che nel 1953 si mobilitarono contro lo sventramento di via Vittoria, denunciato su «Il Mondo» da Cederna, e sottoscrissero un appello fermando quel terribile scempio, nel caso dei Fori restarono zitti. La storia può diventare un elastico che ognuno tira come vuole. L’urbanistica, come l’architettura, si fonda sempre su una valutazione complessiva dei valori. Invece dire che tutto è storico, come sosteneva qualche erudito di passaggio, produce l’immobilismo, che apparentemente è innocuo, ma innocuo non è, perché non toccare niente non è innocuo.
Anche la politica non crede più in questo progetto. Dopo la morte di Petroselli una commissione nominata dal Comune di Roma sposta in un futuro indefinito il progetto, sottomettendolo a una serie di condizioni burocratiche. Lo stesso successore di Petroselli, Ugo Vetere, sempre del Pci, è molto più freddo. Nel 1983 si dichiara contrario il ministro per i Beni culturali, il democristiano Nicola Vernola, smentendo i suoi predecessori Oddo Biasini e Vincenzo Scotti. Venendo a tempi più recenti, non hanno creduto a quel progetto gli eredi di Petroselli, da Francesco Rutelli a Walter Veltroni.
È molto più facile governare senza grandi progetti e invece sminuzzando i fatti. Alla fine degli anni Ottanta – c’era non ricordo quale sindaco democristiano – fummo invitati a una grande manifestazione nel...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. La fine della città? (Una riflessione a due voci sul futuro)
  3. Gli studi
  4. Gli inizi
  5. L’università
  6. Anni Sessanta, anni Settanta
  7. Brescia
  8. Roma
  9. I piani
  10. Pazienza e impazienza