Il punto di vista
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Il punto di vista

  1. 124 pagine
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Il punto di vista

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Ogni racconto rappresenta gli eventi guardandoli da un certo punto di vista. I lettori per lo più non ne sono consapevoli, ma essi sono obbligati dal testo a vedere solo certe cose e da una certa posizione. In prima approsimazione, le narrazioni ci mettono di fronte a un fenomeno simile a quello che accade quando guardiamo un film: non vediamo la cinepresa, ma percepiamo nettamente il luogo invisibile in cui essa è collocata. Il volume mette anzitutto a fuoco la questione del punto di vista in tutta la sua complessità teorica. In un testo narrativo, infatti, non c'è soltanto un punto di vista materiale (percettivo), ma c'è anche un punto di vista ideologico, che orienta la selezione delle parole, e più in generale, che organizza tutto il racconto, a diversi livelli. Scopriamo così che ogni racconto nasce dall'intrecciarsi di vari punti di vista, spesso non coincidenti: quello dell'autore, quello del narratore, quelli dei personaggi, e altri ancora. Nella seconda parte Turchetta mostra, analizzando alcuni testi, come molta narrativa del Novecento dal verismo ai giorni nostri, si sia sforzata di rendere la complessità del reale adottando, in vari modi, il punto di vista di qualcuno che capisce poco. Che è poi forse quello che accade quasi sempre nella vita di tutti i giorni, un po' a tutti noi.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788858122891

1.
Un concetto ambiguo e decisivo

L’occhio che cammina

La maggior parte degli studiosi è d’accordo nel ritenere il punto di vista uno dei problemi più intricati e affascinanti della moderna teoria della narrativa o narratologia. E quasi tutti individuano nelle Prefazioni del grande scrittore statunitense Henry James (1843-1916) ai propri stessi romanzi l’avvio della riflessione sul punto di vista. Caso unico più che raro nella storia della teoria letteraria, il concetto di punto di vista nasce dunque dal cuore di una delle massime esperienze narrative dell’Occidente moderno, ricevendone un avallo straordinariamente autorevole. Per lo stesso motivo la riflessione sul punto di vista si è sviluppata all’inizio soprattutto nell’area della critica anglo-americana, per la quale ha rappresentato poco meno che un’ossessione, almeno fino agli anni Sessanta. Così, anche un po’ per reazione, negli ultimi trent’anni qualche studioso ha invece avanzato polemiche riserve sull’utilità e appropriatezza della nozione stessa di punto di vista: alla fine però proprio le discussioni più complesse e articolate finiscono tutto sommato per confermare che è molto difficile farne a meno. Oggi possiamo serenamente dire che il «punto di vista» è un concetto non soltanto utile ma necessario per comprendere la dinamica del testo narrativo: a patto, sia ben chiaro, di mettere a fuoco appropriatamente alcune ulteriori distinzioni.
Tanto per cominciare, conserveremo in prima approssimazione proprio il termine, non privo di ambiguità, di punto di vista, segnalando però com’esso sia stato sostituito da vari altri termini sinonimi o parzialmente assimilabili: prospettiva, visione, sguardo, focus della narrazione, focalizzazione, angolo percettivo e altri ancora. Motivato volta a volta da argomentazioni squisitamente teoriche o empiriche, fondate o capziose, ognuno di questi termini implica uno spostamento più o meno significativo dell’interpretazione del concetto. Né si può dimenticare come parecchie posizioni teoriche preferiscano includere senz’altro il concetto di punto di vista all’interno di categorie di livello diverso, volte a classificare la comunicazione narrativa nel suo complesso.
Cercando di procedere per passi successivi, assumeremo come riferimento una definizione sintetica ma sufficientemente precisa, di cui coglieremo via via le implicazioni. La troviamo all’inizio della voce «Punto di vista» del Dizionario di narratologia (Dictionary of narratology, 1987) redatto dallo studioso americano Gerald Prince (n. 1942): «Posizione percettiva o concettuale dalla quale vengono presentati le situazioni o gli eventi narrati».
In altri termini, all’interno di ogni narrazione i fatti, i personaggi, lo spazio, gli oggetti sono visti da una certa posizione. Adottando un’immagine un po’ surreale e forse quasi macabra, la successione delle parole del racconto può essere fatta coincidere con il percorso di un «occhio che cammina» dentro lo spazio rappresentato dal testo. Più esattamente: quest’occhio che cammina, questo sguardo (per il momento non ci preoccuperemo ancora di sapere a chi appartiene) letteralmente crea lo spazio della storia, che comincia a esistere all’attacco della narrazione, e viene progressivamente delineato con sempre maggiore ricchezza di dettagli via via che il testo prende corpo. È facile verificare queste affermazioni prendendo in considerazione un testo narrativo qualsiasi. Ogni lettore italiano conosce l’inizio dei Promessi sposi (1827, II ediz. 1840, da cui cito) di Alessandro Manzoni (1785-1873):
Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un’ampia costiera dall’altra parte; e il ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all’occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e l’Adda ricomincia […].
La citazione è un po’ scontata: eppure potrebbe crearci qualche imbarazzo. Infatti l’inizio dei Promessi sposi adotta un punto di vista poco individuato, talmente panoramico da suggerire quasi irresistibilmente a noi moderni l’immagine di una ripresa aerea. Certo, tutti sanno che ai tempi di Manzoni gli aerei non esistevano; ma l’idea balzana di un «punto di vista aereo» ci viene anche perché nell’attacco dei Promessi sposi il punto di vista è così vago da passare inosservato: viene persino la tentazione di dire che qui non c’è nessun punto di vista. Ma non è affatto così. Se leggiamo con attenzione, vediamo infatti che nel giro di poche righe il testo costruisce la presenza (fisicamente indeterminata ma molto nettamente percepibile) di ‘qualcuno’ o ‘qualcosa’ che sta ‘da qualche parte’, e che ‘da là’ vede e costruisce lo scenario del ramo lecchese del lago di Como. Questa presenza diventa assolutamente evidente laddove il narratore allude in modo esplicito alla percezione: «par che renda ancor più sensibile all’occhio». Tanto più che il nostro ‘occhio che cammina’, inizialmente collocato molto in alto, quasi ‘in cielo’, comincia ben presto a scendere, delineando una posizione ancora più chiaramente individuata:
il Resegone […]: talché non è chi, al primo vederlo, purché sia di fronte, come per esempio di su le mura di Milano che guardano a settentrione, non lo discerna tosto […]. Correvano, e corrono tuttavia, strade e stradette, più o men ripide, o piane; ogni tanto affondate, sepolte tra due muri, donde, alzando lo sguardo, non iscoprite che un pezzo di cielo e qualche vetta di monte; ogni tanto elevate su terrapieni aperti: e da qui la vista spazia per prospetti più o meno estesi, ma ricchi sempre e sempre qualcosa nuovi, secondo che i diversi punti piglian più o meno della vasta scena circostante, e secondo che questa o quella parte campeggia o si scorcia, spunta o sparisce a vicenda.
Abbiamo aggiunto i corsivi per sottolineare i momenti in cui la posizione visiva viene resa del tutto esplicita. Ma davvero, se cominciamo a prestarci attenzione, scopriremo che il nostro ‘occhio che cammina’ è ben rilevabile nella stragrande maggioranza dei passi della stragrande maggioranza dei testi narrativi di ogni tempo e di ogni paese. La nostra metafora però, a parte la sua scarsa eleganza, potrebbe indurci erroneamente a pensare che ogni testo narrativo abbia un solo punto di vista. Invece l’occhio vagante della narrazione non solo è molto mobile, ma può anche appartenere a più di un osservatore: a due, a tre, a quattro o anche a innumerevoli soggetti della percezione, più o meno bene identificabili.

Punto di vista percettivo e punto di vista concettuale

Torneremo più avanti sulla possibile pluralità di punti di vista in uno stesso testo. Intanto però proviamo a renderci ancora meglio conto delle complesse implicazioni legate all’uso del concetto di punto di vista in riferimento a narrative verbali, fatte di parole. Molti critici hanno paragonato il punto di vista alla macchina da presa di un film. Quando noi vediamo un film, anche se non ne siamo consapevoli, siamo obbligati a guardare le cose secondo il punto di vista della cinepresa: il nostro occhio deve, per così dire, aderire all’obbiettivo e adottarne istantaneamente posizione, prospettiva, distanza dall’oggetto della rappresentazione, condizioni di luce. In un certo senso anche chi legge un racconto è costretto a fare qualcosa di simile, aderendo al punto di vista (unico o plurimo) attivato via via dal testo.
Ma la metafora della cinepresa, per quanto utile all’inizio, può risultare fuorviante. Ci sono infatti differenze profonde fra la narrazione verbale e la narrazione visiva. Anzitutto, l’obbiettivo della cinepresa produce un’inquadratura in cui sono contemporaneamente presenti molti oggetti: tant’è vero che l’occhio dello spettatore può concentrarsi di più su un particolare o su di un altro. Il racconto fatto di parole invece è obbligato dalla struttura stessa del linguaggio e della scrittura a ‘mettere a fuoco’ un elemento alla volta. L’inquadratura cinematografica esiste insomma nella realtà e prende visibilmente corpo sullo schermo durante la proiezione; mentre lo spazio della narrativa verbale esiste solo nella mente del lettore, dove viene costruito pezzo per pezzo, sulla scorta delle informazioni a cui il testo permette di accedere. Il punto di vista è, in questo senso, un dispositivo che regola il flusso delle informazioni dal testo al lettore, una specie di valvola o di rubinetto. L’attenzione del lettore è inevitabilmente vincolata in modo rigido alla posizione e all’‘apertura’ del dispositivo testuale che definiamo «punto di vista», e non possiede in alcun modo la libertà di movimento consentita dai mezzi di comunicazione visivi.
La seconda differenza fondamentale fra l’obbiettivo della cinepresa e l’«occhio» del racconto è più sottile, ma ancora più importante. Le varie metafore che abbiamo finora usato (l’occhio, lo sguardo, la finestra, la cinepresa) ci aiutano a capire ma insistono, troppo riduttivamente, sul significato letterale di «punto di vista», inteso come posizione da cui si vede qualcosa. Ma la corretta definizione di Prince accostava immediatamente «posizione percettiva» e «posizione concettuale». In effetti non solo nella narratologia, ma anche nella lingua comune l’espressione «punto di vista» sta ad indicare sia un punto d’osservazione materiale sia un’opinione, un modo di guardare le cose. Lo testimoniano modi di dire comunissimi come ‘esprimere il proprio punto di vista su un argomento’, ‘far valere il proprio punto di vista’ e simili. Di fatto l’ambiguità e però anche la ricchezza del termine punto di vista, inteso stavolta in senso tecnico, narratologico, dipendono dalla pluralità di significati ch’esso possiede. Come ci ricorda Seymour Chatman (n. 1928) in Storia e discorso (Story and Discourse, 1978):
Nell’uso ordinario si possono distinguere almeno tre significati:
(a) Letterale: attraverso gli occhi di qualcuno (percezione)
(b) figurato: attraverso la visione del mondo di qualcuno (ideologia, sistema concettuale, Weltanschauung, ecc.)
(c) traslato: secondo l’interesse o il vantaggio di qualcuno.
La terza accezione proposta da Chatman c’interessa meno, e può forse essere riassorbita nella seconda. Altri studiosi propongono differenti analisi del significato dell’espressione punto di vista. Sono stati per esempio individuati anche un significato grammaticale e un significato stilistico. Per quanto riguarda la prima accezione, essa trova espressione anzitutto (ma non solo) nell’uso dei pronomi e dei tempi verbali, che rimandano inequivocabilmente a una posizione soggettiva, cioè in altri termini a un punto di vista: se dico ‘io cucino’ oppure ‘egli cucina’, la differenza che chiamo in causa è allo stesso tempo di persona grammaticale e di prospettiva; ma anche l’opposizione fra ‘cucino’ e ‘cucinavo’ sottolinea il punto di vista, evidentemente diverso, dell’‘io di oggi’ rispetto all’‘io di ieri’. Il significato stilistico di punto di vista viene invece connesso alla presenza di un soggetto che seleziona le varie possibilità espressive in rapporto alla propria posizione nell’atto comunicativo: di fronte all’alternativa tra frasi come ‘ha mancato all’appuntamento’ oppure ‘m’ha tirato un bidone’, percepiamo chiaramente che, anche se chi parla è la stessa persona (ma non è questo che ora c’interessa), esse manifestano due orientamenti molto diversi nella scelta delle parole, cioè appunto due punti di vista stilistici contrastanti, che rimandano sia al codice linguistico sia alla concreta situazione comunicativa in cui si colloca il soggetto dell’enunciazione.
Ora però lasceremo da parte queste ultime due interpretazioni, per non inoltrarci subito in questioni molto complesse, che in parte verranno chiamate in causa dal seguito del nostro discorso: basti pensare all’autentico groviglio dei problemi posti dall’analisi del discorso indiretto. La maggior parte degli studiosi ritiene comunque che l’opposizione fondamentale sia proprio quella tra il significato strettamente visivo, o più in generale percettivo, e il significato concettuale o ideologico del termine punto di vista. Non lasciatevi sfuggire, anche se in seguito saremo costretti a trascurarla, neanche la distinzione fra visivo e percettivo. Può accadere infatti, anche se può sembrare un po’ paradossale, che il punto di vista non riguardi la vista, o almeno non esclusivamente: basti pensare alle situazioni, tutt’altro che rare, in cui il racconto segue la prospettiva di qualcuno che sta al buio, e che si orienta ricorrendo all’udito o eventualmente al tatto. Si rilegga per esempio l’inizio del Mastro-don Gesualdo (1888-1889) di Giovanni Verga (1840-1922):
Suonava la messa dell’alba a San Giovanni; ma il paesetto dormiva ancora della grossa […]. Tutt’a un tratto, nel silenzio, si udì un rovinìo, la campanella squillante di Sant’Agata che chiamava aiuto, usci e finestre che sbattevano, la gente che scappava fuori in camicia, gridando: «Terremoto! San Gregorio Magno!».
Era ancora buio.
Ma la questione decisiva è un’altra: il punto di vista della narrativa verbale non può essere davvero assimilato a un’ipotetica macchina da presa, per il semplice motivo che le parole non dispongono di nessuno strumento di registrazione neutrale degli eventi. Non è cioè solo una questione di posizione fisica: il punto di vista del testo è sempre parziale, e costituisce uno strumento per selezionare i dati che devono, o meglio, che possono arrivare al lettore. Questi in un certo senso può ‘vedere’ solo gli oggetti che vengono nominati dal testo, e per di più li ‘vede’ seguendo rigidamente l’ordine in cui vengono nominati. Anche se il lettore può teoricamente aggiungere con la fantasia tutti i dettagli che vuole, così come può tornare indietro o sa...

Indice dei contenuti

  1. 1. Un concetto ambiguo e decisivo
  2. 2. Dai «vinti» ai «cannibali»: qualche ipotesi sulla narrativa italiana moderna
  3. 3. Bibliografia
  4. L’autore