Chiesa e santità nell'Italia moderna
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Chiesa e santità nell'Italia moderna

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Chiesa e santità nell'Italia moderna

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Il culto dei santi tra devozione popolare ed esercizio del potere: lo sviluppo delle regole e dei modelli agiografici che hanno contribuito a definire l'identità cattolica italiana.

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Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788858100509

La santità nella Controriforma

1. Le decisioni del concilio di Trento

Il 3 dicembre 1563, durante la sessione conclusiva del concilio di Trento, fu affrontata anche la questione Della invocazione, della venerazione delle reliquie dei santi e delle sacre immagini. La XXV seduta si tenne in «un’aria di liquidazione che da parte sua accelerò il ritmo delle discussioni» (H. Jedin). Inizialmente convocata per la metà di dicembre, venne anticipata all’inizio del mese per la malattia del papa, che costituì probabilmente un motivo di accelerazione dei lavori. Soprattutto i rappresentanti francesi, con in testa il cardinale Carlo di Lorena, si batterono sin dalle riunioni preliminari di novembre per ottenere un pronunciamento sul culto dei santi e delle immagini. In effetti, tale questione in quel paese rappresentava ormai un grave problema a causa della forte presenza calvinista, caratterizzata da una recrudescenza iconoclasta che proprio nel biennio 1561-1562 aveva raggiunto il suo acme in coincidenza con le guerre di religione. Il cardinale di Lorena formulò il decreto sul culto dei santi sulla traccia di una sentenza redatta dalla Facoltà di teologia di Parigi durante il colloquio di religione di Saint-Germain del 1562. A quanto pare, fu questo l’unico caso in cui una sentenza dottrinale elaborata da un’università servì da schema per una decisione conciliare.
Il decreto rappresentava un evidente compromesso fra l’esigenza di concludere rapidamente il concilio e l’impossibilità di trascurare punti dottrinali al centro della disputa con i riformatori. Infatti, dopo il successo della mediazione del cardinale Giovanni Morone, nel luglio 1563, sulla spinosa questione della residenza dei vescovi, lo stesso re di Spagna Filippo II, che più di tutti avrebbe desiderato proseguire l’assemblea per trattare i punti concernenti la riforma della Chiesa, si convinse che la sua fine, seppur affrettata, sarebbe stata più conveniente di una sospensione sine die. Un’ulteriore interruzione dei lavori, che si erano aperti quasi un ventennio prima, avrebbe riproposto la frattura tra i difensori della continuità del Tridentino e i fautori di un nuovo concilio, il re di Francia e l’imperatore in particolare, desiderosi di regolare in via pacifica i difficili rapporti con i calvinisti e i luterani.
Il decreto tridentino sanciva la liceità del culto delle reliquie e invitava i vescovi a insegnare ai fedeli che fosse «cosa buona e utile» invocare i santi e richiederne l’intercessione. Mentre i protestanti avevano usato l’argomento storico-filologico per negare l’esistenza del culto dei santi nella Chiesa primitiva e quindi per inficiarne la legittimità, il concilio di Trento si appellava proprio alla tradizione ecclesiastica dei «primi tempi della religione cristiana» per ribadire la regolarità di questo tipo di devozione. Nell’occasione i teologi definirono un’antropologia celeste che ricalcava in pieno l’ideale assolutistico monarchico e l’organizzazione patriarcale della cellula familiare: al vertice della piramide c’era un Dio-padre onnipotente, trascendente e lontano e alla base il popolo dei fedeli. Questi ultimi potevano accedere alle grazie della somma divinità attraverso il potere intercessorio dei santi che, a loro volta, godevano di questa facoltà perché usufruivano dell’intermediazione di Cristo, figlio di Dio e dell’uomo.
Il dettato conciliare illustrava con dovizia di particolari la dottrina della Chiesa cattolica soprattutto a proposito della venerazione delle immagini, puntando in particolare sugli aspetti esteriori e pedagogici del culto. Il decreto, riprendendo la dottrina del II concilio di Nicea del 787, condannava come false le ragioni di culto dei pagani, che nella rappresentazione vedevano una diretta presenza della divinità; sosteneva invece che l’onore reso alle immagini si riferiva «ai prototipi che esse rappresentano; attraverso le immagini che baciamo e innanzi alle quali ci scopriamo e ci prostriamo, adoriamo Cristo e veneriamo i santi, di cui esse mostrano la somiglianza». L’accento era posto sulla duplice utilità delle immagini: istruivano i fedeli sugli articoli dogmatici e inducevano gli stessi a «imitare la vita e i costumi dei santi», cui avrebbero dovuto improntare l’intera esistenza. Circa il loro impiego il concilio ordinava ai vescovi di impedire qualunque tipo di abuso al fine di evitare gli errori più pericolosi, quelli dei «rudes», ossia degli illetterati. Il principale studioso contemporaneo del concilio di Trento, lo storico tedesco Hubert Jedin, ha notato che l’arte sacra del Seicento si trasformò in uno strumento della teologia controvertistica, in quanto si impadronì di temi iconografici osteggiati dal protestantesimo, rappresentando infinite volte la venerazione della madre di Dio, dei santi, delle reliquie, i sacramenti e la presenza di Cristo nell’eucaristia. A suo giudizio ciò fu una effettiva conseguenza e attuazione del decreto conciliare, forse la più importante: le immagini sacre, i bassorilievi e le statue, per mezzo dei quali venivano rappresentate al popolo le dottrine controverse, costituivano l’illustrazione delle prediche che dai pulpiti si tenevano sugli stessi argomenti.
Oltre che per l’attenzione rivolta agli aspetti iconografici, il decreto tridentino è interessante anche dal punto di vista normativo. Anzitutto perché il tema della santità entrò per la prima volta in modo specifico in un dibattito conciliare, se si eccettua il concilio di Basilea del 1431, quando la canonizzazione dei santi fu inclusa fra quelle «questioni più gravi e più difficili» che si sarebbero dovute risolvere, «secondo l’antica consuetudine», con il consiglio dei cardinali. In secondo luogo, in quanto il testo del decreto affidava al vescovo il riconoscimento e l’approvazione delle nuove reliquie e dei nuovi miracoli e dunque, implicitamente, la gestione liturgica delle fasi iniziali e intermedie di un culto («nisi recognoscente et approbante episcopo»). Soltanto quando il vescovo riteneva di trovarsi di fronte a un caso dubbio o a un abuso difficile da estirpare doveva aspettare, prima di dirimere la controversia, il giudizio del metropolita o degli altri presuli della regione, riuniti nel concilio provinciale. Di conseguenza, l’eventuale intervento del papa era previsto solo in terza battuta e costituiva un’eccezione, in quanto si effettuava in presenza di eventi davvero speciali, affinché nulla di nuovo o di inconsueto venisse stabilito nella Chiesa senza una sua previa consultazione. Tutto ciò avveniva in aperta controtendenza con la consuetudine giuridica praticata nei decenni precedenti, che avevano visto estendersi l’autorità del papa e della curia romana anche in questo campo. Inoltre, il dettato conciliare costituiva su questo punto una rottura con gran parte della canonistica ufficiale anteriore. Ad esempio, il IV concilio Lateranense del 1215, nelle medesime circostanze, non aveva lasciato adito ad alcun dubbio precisando, nella costituzione Cum ex eo, che nessuna nuova reliquia potesse essere pubblicamente venerata senza la preventiva approvazione «auctoritate romani pontificis». Da quel momento in poi la giurisprudenza si era allineata su questa linea filo-papale fino al concilio di Trento, che rappresentò una novità di non poco conto: se al papa spettava la canonizzazione dei santi, al vescovo sarebbe dovuta toccare la giurisdizione sulla definizione delle nuove proposte di santità a livello particolare in base a una tradizione ecclesiastica millenaria.
Come è facile immaginare, su questo punto non erano tutti d’accordo all’interno della curia romana perché era in gioco una delicata questione di sovranità che sottendeva un problema di carattere ecclesiologico, di equilibrio e di definizione dei poteri. E così, la decisione tridentina, lungi dal fare chiarezza, aumentò i contrasti e la conseguente necessità di interventi risolutivi in materia. Non a caso gli anni successivi saranno dedicati a profonde riforme in campo istituzionale e normativo: nel 1588 fu fondata la Congregazione dei Riti, preposta alla definizione della santità canonizzata, e nel 1602 venne istituita la Congregazione dei Beati. Inoltre, in quest’arco di tempo si avviarono anche le procedure per stabilire un nuovo istituto giuridico funzionale al riconoscimento dei culti locali, quello della beatificazione.

2. La Congregazione dei Riti: origine, competenze e personale

Sisto V Peretti (1585-1590) istituì la Congregazione dei Riti il 22 gennaio 1588 con la costituzione apostolica Immensa aeterni Dei. Ciò avvenne nell’ambito di una più ampia riforma istituzionale che aveva l’obiettivo di rafforzare in senso centralistico la curia romana e di aumentare l’efficienza amministrativa del governo pontificio. Infatti, il papa decise di portare a quindici le congregazioni cardinalizie operanti a Roma, che si affiancarono al concistoro e progressivamente ne assorbirono alcune competenze. Il cardinale Gabriele Paleotti colse prontamente questo processo, che criticò in un’opera pubblicata nel 1592, il De sacri consistorij consultationibus. L’anziano porporato intravedeva nella riforma sistina i rischi di un disegno di governo assolutistico teso a diminuire il potere decisionale del collegio cardinalizio, sino a quel momento «tramite e strumento di quello scambio vitale tra Chiese particolari e Chiesa romana che il Tridentino si era prefisso come scopo nel decreto di riforma sulla elezione dei cardinali» (P. Prodi). Proprio Paleotti, nel settembre 1582, aveva partecipato con il cardinale Carlo Borromeo a una commissione concistoriale sulla riforma della liturgia e del cerimoniale. Dopo qualche mese, però, aveva abbandonato i lavori perché deluso dall’inerzia della curia romana e, d’accordo con l’arcivescovo di Milano, si era deciso a impegnarsi esclusivamente a livello diocesano. Per alcuni questa commissione del 1582 rappresenterebbe il vero momento di origine della Congregazione dei Riti, la cui istituzione dunque andrebbe anticipata di qualche anno, rispetto alla riforma sistina del 1588. Di certo a Milano funzionò per decenni una Congregazione dei Riti diocesana, inquadrata all’interno delle strutture di governo della curia arcivescovile, ma il caso allo stato attuale delle conoscenze sembra costituire un’eccezione (D. Zardin; M. Sangalli).
Nell’Immensa aeterni Dei la Congregazione dei Riti occupava il quinto posto, con la dicitura «Congregatio pro sacris ritibus et caerimoniis». Essa era stata istituita con l’obiettivo di promuovere la pietà ed elevare il culto divino. Perché ciò avvenisse, il papa aveva scelto cinque cardinali che dovevano fare osservare i vecchi riti sacri: la messa, gli offici divini, l’amministrazione dei sacramenti e, in generale, le diverse funzioni del culto. I cardinali, inoltre, avevano il compito di correggere i libri liturgici (il Pontificale, il Rituale e il Cerimoniale) e di riesaminare l’ufficio del santo patrono, che bisognava concedere solo dopo avere consultato la Santa Sede. Erano altresì invitati a occuparsi con diligenza della canonizzazione dei santi e delle questioni relative alla celebrazione delle feste, affinché tutto fosse fatto «rita et recta et ex patrum traditione». Infine, gli stessi cardinali dovevano dirimere le controversie sulle precedenze che sorgevano durante le processioni ecclesiastiche e in occasione delle visite diplomatiche dei sovrani e dei loro ambasciatori. Si trattava di un ambito di competenze assai vasto, che nel corso dei primi decenni di attività del dicastero andò restringendosi soprattutto alle questioni relative al culto dei santi, senza però escludere completamente le restanti sfere di intervento, alcune delle quali vennero condivise con la Congregazione del Cerimoniale o poi assorbite da quella De propaganda fide.
I primi cardinali nominati, che avevano il ruolo di «causarum relatores sive ponentes», furono Alfonso Gesualdo, Niccolò Sfondrati, futuro papa col nome di Gregorio XIV, Agostino Valier, Vincenzo Laureo e Federico Borromeo. Il cardinale prefetto era scelto tra i cinque membri della Congregazione, ma nei primi decenni di vita il dicastero mantenne un principio di collegialità nella guida e nella responsabilità delle decisioni. Il prefetto era nominato dal papa, il quale di regola indicava il cardinale che aveva conseguito la porpora da più anni. Pertanto, il titolo coincideva spesso con quello del decano del sacro collegio e, quando bisognava sostituire temporaneamente il prefetto, si sceglieva il sotto-decano del concistoro.
Nel periodo 1588-1622, tra i cardinali che si avvicendarono nella Congregazione dei Riti, si distinsero per prestigio, assiduità alle riunioni e impegno contemporaneo anche in altre congregazioni curiali i porporati Iñigo d’Avalos d’Aragona, Tolomeo Galli (prefetto dal 1603 al 1607), Alessandro de’ Medici, futuro Leone XI, Domenico Pinelli (prefetto dal 1607 al 1611), Antonio Facchinetti, François de Joyeuse (prefetto dal 1611 al 1615), Cesare Baronio, Silvio Antoniano, Antonio Maria Galli (prefetto dal 1615 al 1620), Andrea Peretti, Silvio Aldobrandini e Girolamo Pamphili. Sotto il pontificato di Paolo V Borghese (1605-1621) ebbe un ruolo di assoluto rilievo il cardinale Roberto Bellarmino, che entrò nella Congregazione il 12 dicembre 1605, in coincidenza con l’elezione del nuovo papa, per uscirne alla sua morte nel 1621. In questa lunga fase furono molto attivi anche i cardinali Luigi Capponi, Giovanni Garsia Millini, Ludovico Torres, Ferdinando Gonzaga, Pietro Paolo Crescenzi, Francesco Maria Bourbon del Monte (prefetto dal 1620 al 1626), Orazio Lancellotti e Carlo Emanuele Pio di Savoia (prefetto dal 1630 al 1641).
Le riunioni della Congregazione dei Riti si tenevano nel palazzo del cardinale più anziano, per espressa volontà di Sisto V: ad esempio, nel biennio 1596-1598 presso la dimora del cardinale Simone Tagliavia, nel 1616 nel palazzo del cardinale Galli e nel 1620 in quello di Bourbon del Monte. Occasionalmente, le sedute potevano avere luogo anche nel Palazzo apostolico, nel «magno deambulatorio quam gallariam vocant», come avvenne l’8 maggio 1604. Le riunioni avevano frequenza mensile, ma in alcuni casi si potevano svolgere quindicinalmente e nel periodo estivo non era prevista alcuna sosta. L’attività, invece, si sospendeva in occasione dell’infermità e della morte del papa, come avvenne tra la scomparsa di Leone XI e l’elezione di Paolo V. Quando un cardinale moriva o si assentava dalla curia per lunghi periodi a causa di impegni diocesani, il processo di canonizzazione era affidato a un altro porporato, come avvenne per la causa dell’eremita Giovanni Bono che passò nel 1597 da Alfonso Gesualdo a Federico Borromeo su richiesta del duca di Mantova.
Il funzionamento della Congregazione dei Riti richiedeva la presenza di un numeroso personale. Ai livelli più bassi troviamo una serie di silenziosi operatori senza nome, riconoscibili grazie alla funzione sociale rivestita all’interno della cosiddetta «fabbrica dei santi»: stampatori di atti, che stipulavano contratti con la Congregazione impegnandosi al segreto sotto pena di scomunica, revisori e correttori dei processi, traduttori delle deposizioni dei «summaria» in lingua straniera e «cursores», con il compito di affiggere i decreti della Congregazione dei Riti «alle porte della curia, in Campo de’ Fiori e in tutti gli altri luoghi consueti».
Quando si salgono le scale dei diversi livelli burocratici, si arriva rapidamente a «quegli agenti incaricati di definire i criteri di credenza» (J.-M. Sallmann) che avevano il compito di indicare ai fedeli i modelli di santità da imitare e quelli da scartare. Dall’esame delle loro funzioni emerge che, nei primi anni di attività, la Congregazione dei Riti fu caratterizzata da una generalizzata confusione di competenze e instabilità di ruoli, che solo nei decenni centrali del Seicento si definirono compiutamente, assumendo i connotati di una vera e propria burocrazia moderna. Oltre ai già ricordati cardinali di nomina pontificia, il dicastero era composto da un segretario, che aveva il compito di verbalizzare le riunioni e di informare periodicamente il papa sull’attività della struttura. Fino al 1609, quando la nomina del segretario, con un breve di Paolo V, divenne di diretta competenza papale, fu scelto per questo ruolo il segretario particolare del cardinale prefetto. Il primo segretario della Congregazione dei Riti fu Giovanni Battista Stella, referendario «utriusque signaturae», che esercitò il suo ufficio fino al 1594 e, pur restando ufficialmente in carica sino al 1602, venne sostituito nelle mansioni da una serie di «pro segretari», che si avvicendarono con il mutare dei cardinali prefetti. Nei primi due decenni del Seicento svolse una funzione importante il maestro delle cerimonie pontificie Giovanni Paolo Mucanzio: nominato segretario nel 1609, restò in carica fino al 1617 ponendo fine al periodo di indeterminatezza che aveva contraddistinto i primi anni di vita dell’ufficio e avviando l’organizzazione dell’archivio della Congregazione.
Accanto alla figura del segretario, nel periodo che stiamo esaminando, spiccava quella del procuratore fiscale. Allora la carica di promotore generale della fede, popolarmente definito «avvocato del diavolo», non era stata ancora istituita, perché ciò avvenne soltanto nel 1631; fino a quel momento la sua funzione fu svolta dal cosiddetto avvocato o procuratore fiscale, scelto fra gli avvocati concistoriali. Egli aveva il compito di esaminare i risultati presentati dagli auditori di Rota e di avanzare obiezioni giuridiche nel merito del processo. A quanto sembra, il primo procuratore fiscale della Congregazione dei Riti fu Giovanni Giacomo Nerotti, al quale venne richiesto, il 7 gennaio 1597, di presenziare all’apertura del processo di canonizzazione del domenicano Raimondo da Peñafort, in qualità di «generalis fisci procurator in urbe». Gli successe Pompeo Molella, ricordato negli atti come «Camerae apostolicae procurator fiscalis», a cui seguì Giovanni Battista Spada, presente nelle principali cause di canonizzazione del tempo, quali quelle di Carlo Borromeo, Teresa d’Avila, Filippo Neri, Ignazio di Loyola, Francesco Saverio, Isidoro contadino e Tommaso di Villanova.
Un altro ruolo originato al di fuori della Congregazione dei Riti, ma che dall’inizio dell’attività del dicastero fu inserito nel suo ordinamento giuridico-istituzionale, è quello del protonotario apostolico. I protonotari, riuniti in un apposito collegio, erano storicamente preposti alla registrazione degli atti emanati dalla curia romana e, dopo la costituzione sistina del 1588, cominciarono a svolgere tale funzione nelle varie Congregazioni. Nel corso della fase apostolica del processo di canonizzazione, il protonotario interveniva durante l’escussione dei testimoni, ne certificava le deposizioni e ne autenticava giuridicamente il valore; inoltre, rogava gli atti dei concistori pubblici e privati, intervenendo quindi in ogni fase della causa. Come gran parte degli uffici curiali, il titolare riceveva apposite regalie e, ad esempio, alla morte nel 1608 di Giovanni Antonio Facchinetti, che aveva seguito il processo in onore di Francesca Romana, gli eredi chiesero e ottennero di ereditarne le propine.
La costituzione di Sisto V prevedeva per le differenti Congregazioni la presenza di una serie di consultori che, in virtù della loro cultura e competenza specifica, erano chiamati a esprimere un parere su determinate questioni. Essi venivano scelti dal papa fra i prelati della curia, il clero secolare o regolare ed erano vincolati dal segreto inviolabile, pena la scomunica. Già nella prima causa trattata dalla Congregazione, quella di Giacinto Odrowaz, canonizzato nel 1594, possiamo osservare che furono impiegati uomini «in sacra theologia ac pontificio iure versati». Per quanto riguarda la Congregazione dei Riti, le loro mansioni erano numerose: dovevano leggere il processo di canonizzazione, ascoltare le dichiarazioni del postulatore della causa e del procuratore fiscale e partecipare regolarmente alla vita del dicastero.
Nei primi decenni di vita della Congregazione dei Riti, gli auditori di Rota furono quelli che ebbero le maggiori responsabilità in materia di santità. Nonostante ciò, le relazioni fra i cardinali dei Riti e i rappresentanti del tribunale della Rota sono ancora poco studiate. Gli auditori erano ufficiali esterni al dicastero e appartenevano alla sacra Rota, che aveva avuto origine nel XIII secolo in seno alla Cancelleria apostolica, a cui era stata demandata l’amministrazione della giustizia. La conseguente competenza giuridica, fondata su una tradizione plurisecolare, contribuì in modo determinante alla caratterizzazione in senso giurisprudenziale delle procedure di canonizzazione moderne, in quanto era naturale che gli auditori si servissero nella loro attività degli schemi e degli strumenti propri del processo canonico ordinario. L’intervento degli auditori rotali in un processo di canonizzazione era previsto sin dal Medioevo e perdurò nella Congregazione dei Riti pur con una progressiva riduzione delle loro funzioni, avvenuta nel corso del Seicento. I membri della Rota dovevano esaminare la causa di canonizzazione prima che le risultanze istruttorie fossero discusse dai c...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. La santità nel Rinascimento
  3. La santità nella Controriforma
  4. La santità nell’età barocca
  5. Conclusioni. L’opera di Benedetto XIV
  6. Bibliografia