Il cinema asiatico
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Il cinema asiatico

L'Estremo Oriente

  1. 176 pagine
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Il cinema asiatico

L'Estremo Oriente

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Il cinema giapponese, cinese, coreano dagli inizi degli anni Trenta sino al primo decennio del Duemila, dai primi film muti giapponesi alle ultime pellicole che hanno conquistato in questi anni un posto di primo piano anche sugli schermi occidentali, rivelando una ricchezza almeno pari a quella del miglior cinema europeo e americano. Un viaggio in sei tappe ben definite: dai problemi di linguaggio a quelli relativi alla storia e all'ideologia, dal rapporto coi generi a quello con altre forme artistiche e culturali, dalla nascita del cosiddetto 'Nuovo Cinema' alla capacità di testimoniare, in presa diretta, le contraddizioni della società contemporanea.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858116968

1. Una questione di stile: il cinema giapponese muto

Sebbene i primi esperimenti concernenti l’uso del sonoro siano datati alla fine degli anni Venti, e Madamu to nyōbō (La moglie del vicino e la mia, Gosho Heinosuke, 1931) sia considerato il primo film sonoro giapponese completamente riuscito sia in termini tecnici che espressivi1, è solo a partire dal 1936 che i grandi studi pongono di fatto fine alla produzione di film muti2. Nonostante le incertezze provocate da questa difficile transizione, difficile anche a causa della forte opposizione all’avvento del sonoro da parte della potente corporazione dei benshi (i narratori dei film muti), il periodo che va dalla fine degli anni Venti alla metà degli anni Trenta è considerato la prima grande età dell’oro del cinema giapponese. All’interno di un solido sistema industriale, organizzato come quello americano in modo verticale, con un numero ristretto di compagnie che controllano produzione, distribuzione ed esercizio, il cinema muto giapponese vede affermarsi non solo alcuni autori di grande valore, fra cui Ozu Yasujirō, Mizoguchi Kenji, Naruse Mikio, Shimizu Hiroshi, Yamanaka Sadao e Itō Daisuke, per non citarne che alcuni, ma anche dei modelli di rappresentazione, di scrittura filmica, che, pur guardando alla coeva realtà del cinema occidentale, si rifanno anche ai propri costumi e alle proprie tradizioni culturali. In un saggio fondamentale, anche se molto criticato e discusso, Noël Burch sottolinea come il cinema giapponese degli anni Venti e Trenta tenda ad appropriarsi di quella pratica di esplicita iscrizione del significante nel testo, che è tipica del teatro classico giapponese (del noh, in particolare, ma anche del kabuki e del bunraku, il teatro delle marionette), la cui natura, secondo lo stesso Burch, non è «rappresentazionale», bensì «presentazionale», dove i fatti messi in scena si presentano appunto come tali, e dove, in termini brechtiani, né l’attore, né lo spettatore perdono la loro identità e la coscienza del proprio ruolo3.
Se Burch pone l’accento sul legame con la tradizione, pensando al cinema giapponese soprattutto a partire dalla sua unicità, David Bordwell sostiene, invece, che tale cinema non è una «pratica significante radicale, né un diretto prodotto delle tradizioni», e lo pensa soprattutto come un esempio di cinema classico, ma, ammette, «del più variegato, vivido e vivace classicismo che abbiamo mai conosciuto»4. In particolare, Bordwell sottolinea di quel cinema l’emergere di determinate figure, molto diverse fra loro, come il montaggio rapido e discontinuo, il frequente ricorso a spettacolari movimenti di macchina, la composizione complessa di determinate inquadrature particolarmente dense e stratificate, la profondità di campo, l’opacità di certe immagini, il carattere astratto di luci e scenografie, l’uso di un montaggio analitico spesso giocato su parametri insoliti5.
Più che in contrasto, le due posizioni ci paiono complementari, almeno per certi aspetti: il cinema giapponese degli anni Venti e Trenta è un cinema la cui originalità sta nella capacità di mediare le proprie tradizioni culturali coi modelli del cinema occidentale, producendo un ibrido di grande fascino e suggestione, il cui merito principale ci sembra quello di avere contribuito ad estendere i confini delle possibilità di rappresentazione del cinema in quanto linguaggio e forma d’espressione (come del resto, trent’anni dopo, accadrà con la stagione delle nouvelles vagues).
Nelle pagine che seguono, attraverso cinque brevi analisi di altrettanti classici del cinema giapponese dei primi anni Trenta, tutti prodotti nell’ambito dei grandi studi, cercheremo di rendere conto di tale ricchezza e di evidenziare alcune caratteristiche del cinema giapponese del periodo, che attraverso l’uso di certe figure del linguaggio cinematografico dà vita a un cinema che esibisce spesso la propria natura di costrutto semiotico, ponendo in primo piano il lavoro del significante filmico e contribuendo non poco a smantellare più di un codice di rappresentazione dominante nel cinema occidentale.
Ispirato alle avventure di Nezumi Kozō, un celebre ladro catturato e giustiziato nel 1831, protagonista di decine di drammi kabuki, Oatsurae Jirokichi gōshi (Jirokichi, the Rat) è un film diretto nel 1931 da Itō Daisuke, fra i più grandi autori del jidaigeki; interpretato da Okochi Denjirō, fra le star più acclamate del genere, e fotografato da Karasawa Hiromitsu, fra i più prestigiosi cameraman dell’epoca. Attraverso un gioco di parole possibile solo in giapponese, Itō Daisuke è stato soprannominato in patria ‘Ido Daisuki’, ovvero ‘amante del movimento’, a indicare la sua predilezione per i frenetici movimenti della macchina da presa, cui contribuì non poco lo stesso Karasawa che, come ricorda il critico Satō Tadao6, filmò le scene di combattimento del film (e dei due precedenti episodi della trilogia), legandosi al petto la cinecamera e buttandosi anche lui, insieme agli attori, al centro dell’azione (come è qui evidente nella caccia iniziale al falso ladro).
Jirokichi, the Rat segue il suo protagonista, in fuga da Edo (Tokyo) a Naniwa (Osaka), dall’incontro con Osen e Okino, due giovani donne sventurate che il perfido Nikichi vuole costringere alla prostituzione, sino al tentativo finale degli uomini della polizia di catturare il ladro, che riuscirà a fuggire solo grazie al sacrificio di Osen.
Fulgido esempio di jidaigeki nichilista, incentrato su un protagonista anche troppo consapevole del proprio tragico destino, e per questo crudele con se stesso e con le donne che lo amano, cui sa di non poter garantire nulla, Jirokichi, the Rat è un testo esemplare dello stile del regista. Oltre che per i già citati frenetici movimenti di macchina, su cui torneremo, ciò risulta evidente nell’uso di un montaggio in cui dettagli e particolari giocano un ruolo assai rilevante. Lo testimonia già la sequenza d’apertura del film, dove la rappresentazione del variegato mondo dei passeggeri di un traghetto popolare è continuamente frammentata da un alto numero di immagini ravvicinate che focalizzano l’attenzione dello spettatore sui momenti cardine della narrazione: il dado nascosto fra i capelli del baro, il borsello di Osen afferrato dal falso monaco, la mano di uno sconosciuto, Jirokichi, che prende a sua volta il borsello, i ripetuti primi piani della scimmia durante l’irruzione della polizia, la soggettiva ravvicinata di Osen sulla spada di Jirokichi nascosto dietro alcune masserizie, la mano di questi che le restituisce il borsello.
Se in questa sequenza, come anche in altre, l’uso di numerosi dettagli e particolari si intervalla a piani più ampi, quella del furto di Nikichi, e dell’uccisione del padre di Okino, è quasi interamente girata attraverso una successione di rapidi piani ravvicinati che negano allo spettatore qualsivoglia visione d’insieme dell’evento. L’uso insistito dei particolari è anche molto evidente nella scena in cui Jirokichi si avvicina alla casa del boss di Nikichi, interamente costruita sull’alternanza di piani ravvicinati dei suoi piedi e di movimenti di macchina che, invece, mostrano la parte alta dei muri di cinta a fianco dei quali l’uomo passa, in un procedere frammentato e dinamico, che traduce con efficacia l’avanzare senza indugio del personaggio e la sua risolutezza (oltre a preludere al fatto che, di lì a poco, scavalcherà uno di quei muri per introdursi nella casa del boss).
Ma le due sequenze stilisticamente più radicali del film sono forse le conclusive: quella dell’addio disperato di Jirokichi a Okino, e quella del sacrificio di Osen che, gettandosi nel fiume, attirerà su di sé l’attenzione della polizia, permettendo all’amato di fuggire. Della scena d’addio vanno citati almeno due aspetti. Il primo riguarda, ancora, l’insistito ricorso ad inserti: due tamburi battuti, ma questa volta estranei al contesto in cui si svolge la scena, quasi di natura extradiegetica (un po’ come il pavone meccanico di eisensteiniana memoria) che, in una sorta di ‘effetto sonoro’, modulano ritmicamente le immagini di Jirokichi, di Okino e del loro disperato addio, attraverso un elaborato gioco di variazioni: prima un tamburo, poi l’altro, poi entrambi alternati a grande velocità, poi ancora entrambi, ma questa volta in una serie di sovrimpressioni. L’aspetto più straordinario della sequenza, tuttavia, riguarda l’uso, anch’esso eisensteiniano, di una ‘natura-paesaggio non indifferente’, quando, in occasione della confessione dell’uomo a riguardo della sua inaffidabilità, le immagini di Jirokichi, davanti a una ruota di fuoco, e di Okino, appoggiata a un muro arcuato, si danno su uno sfondo improvvisamente diverso da come appariva nelle inquadrature precedenti (solo del fumo alle spalle di Jirokichi e un muro verticale dietro Okino): un effetto di doppia alterazione dal tono esplicitamente espressionistico e antinaturalistico, dove l’ambiente si infiamma e si distorce, diventando tutt’uno con l’impotente disperazione dei due protagonisti (cfr. fig. 1.1).
Per quel che riguarda, invece, la sequenza finale del film, siamo di fronte più a un effetto visivo che propriamente stilistico, attraverso l’uso di quelle centinaia di lanterne di carta che gli uomini della polizia tengono fra le mani mentre, al buio, si avvicinano guardinghi e circondano la casa in cui si trova Jirokichi. Il montaggio mette in successione queste diverse immagini di lanterne (sul fiume, sul tetto, sul ponte, nel vicolo) attraverso attente composizioni visive, accentuando così l’idea dell’intrappolamento del protagonista e dando vita a un vero e proprio topos visivo che molti altri jidaigeki riprenderanno in seguito. Questo effetto raggiunge il suo culmine nelle inquadrature che seguono il momento in cui Osen si getta in acqua, attraverso il montaggio serrato di numerose immagini di lanterne alternate a didascalie che ripetono «Nel fiume», «Nel fiume», «Nel fiume»...
Realizzato negli studi di Kamata della Shōchiku, gli stessi dove lavorava Ozu, Kimi to wakarete (Apart from You, 1933), di Naruse Mikio, è per certi aspetti un tipico melodramma di studio che narra le vicissitudini di due geisha di basso rango: Kikue, che già avanti con gli anni deve combattere con il corpo che sfiorisce e i clienti che si allontanano, e la giovane Terukiku, costretta a continuare la turpe professione per evitare che la sorella faccia la sua stessa fine. L’intreccio è poi complicato dalla presenza di Yoshio, figlio di Kikue, che, vergognandosi del mestiere della madre, finisce col lasciare la scuola ed entrare a far parte di una banda di giovani teppisti. Grazie al suo amore per Terukiku, Yoshio riesce a riscattarsi, anche se i due saranno però costretti a separarsi quando la donna dovrà partire per guadagnare il denaro necessario al mantenimento della sorella e il giovane rimarrà, invece, a fianco alla madre, che ha ormai bisogno del suo aiuto. La scena conclusiva, che si svolge alla stazione con la partenza di Terukiku, «chiude il film su questo doppio sacrificio con una concisione sconvolgente»7. Meno conciso è, indubbiamente, il resto di Apart from You che, al contrario, esibisce un uso molto accentuato del discorso filmico tramite l’insistito ricorso a figure visive che gli conferiscono una particolare intensità espressiva. La più evidente di queste figure riguarda l’uso dei movimenti di macchina in avanti o indietro sui diversi personaggi. Di per sé l’avvicinarsi o l’allontanarsi della cinecamera da un attore, in parallelo con lo sviluppo drammatico di una scena, non costituisce di certo una modalità espressiva di particolare originalità. Ma in Apart from You colpisce la frequenza con cui tale figura è usata8, e il modo in cui essa è organizzata, in un sistema di richiami e rime all’interno delle sequenze di maggior peso narrativo (con l’esclusione del già citato finale).
Già all’inizio del film, quando un compagno di Yoshio dice a Kikue che il figlio non si fa vedere a scuola da alcuni giorni, prima lo sgomento della donna, e poi il suo tentativo di giustificare il figlio dicendo che è stato male, sono rappresentati da uno speculare doppio movimento di macchina, in avanti, nel primo caso, e, indietro, nel secondo. La scena del confronto tra madre e figlio, in cui esplicitamente la donna gli chiede che cosa pensa del suo mestiere di geisha, comprende almeno otto diversi movimenti di macchina in avanti, perlopiù da mezza figura a primo piano, di cui quattro dedicati alla donna, tre al figlio, e uno a entrambi. Quando Terukiku si scontra col padre a proposito del destino della sorella e lo mette di fronte alle sue responsabilità, la loro dura conversazione è accompagnata da ben cinque movimenti di macchina in avanti, due sul padre e tre sulla figlia, attentamente raccordati al loro gioco di sguardi. Se nella prima inquadratura del padre questi, infatti, guarda in modo ostentato la figlia e nel piano successivo la giovane, come incapace di reggere questo sguardo, volge il suo altrove, l’ultima inquadratura si apre ancora su Terukiku che guarda da un’altra parte ma, dopo il movimento di macchina in avanti, si chiude con la donna che trova finalmente il coraggio di volgersi verso il padre e sfidarlo così con lo sguardo.
Più articolata ancora è la sequenza in cui Yoshio e Kikue sono in una stanza d’ospedale vicino al letto di Terukiku. Qui il gioco dei movimenti di macchina, non solo in avanti e indietro, ma anche laterali a congiungere sguardi, volti e mani, e la disposizione dei personaggi in campo dipingono una vera e propria «geometria delle emozioni»9. La scena verte sulla decisione di Terukiku di partire per procurarsi il denaro necessario alla sorella, lasciando così Yoshio e l’amica Kikue. Se i ripetuti movimenti di macchina in avanti sui volti dei due giovani registrano e accentuano visivamente i loro sentimenti, quelli indietro, almeno quattro, che a partire dal primo piano di uno qualsiasi dei tre protagonisti finiscono con l’abbracciarne almeno un altro, creano una dinamica visiva di inclusione che unisce tutti i partecipanti in unico triste destino. Destino che si realizzerà, poi, nella separazione finale, in una scena, come abbiamo detto, scritta con una notevole economia drammatica, capace di rovesciare di fatto le convenzioni del melodramma classico che avrebbero qui richiesto un lavoro più intenso che altrove del discorso filmico.
Senza la possibilità di entrare in dettaglio, è doveroso sottolineare come il film si avvalga di altre soluzioni stilistiche particolarmente forti soprattutto nella loro iteratività, come testimoniano l’uso ricorrente di primi piani e inserti, che conferiscono un andamento molto frammentato a ...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione
  2. 1. Una questione di stile: il cinema giapponese muto
  3. 2. Cinema, guerra, ideologia
  4. 3. I generi: storie di samurai, eroine e cavalieri erranti
  5. 4. Cinema, teatro e tradizione culturale
  6. 5. Le stagioni del Nuovo Cinema
  7. 6. La Cina che cambia
  8. Bibliografia essenziale
  9. Immagini