Compagni di strada
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Compagni di strada

In cammino nella Chiesa della speranza

  1. 160 pagine
  2. Italian
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Compagni di strada

In cammino nella Chiesa della speranza

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Ad accomunare le persone che incontriamo in questo libro sonol'etica del bene comune, la giustizia, l'uguaglianza, la pace, la solidarietà, la libertà di coscienza, l'obiettivo di una politica rinnovata al servizio delle persone e della comunità. Sono personalità innovatrici, a tratti eroiche o rivoluzionarie come don Tonino Bello, don Puglisi e Oscar Romero; sono compagni di strada di Pierluigi Di Piazza che, come lui, si sono battuti appassionatamente per costruire una Chiesa povera e socialmente impegnata.Sono uomini e donne noti ma anche persone comuni come gli immigrati del Centro Balducci e persone estranee alla Chiesa come Margherita Hack e il Dalai Lama. Da uomo, prete e animatore culturale, Di Piazza intreccia le loro e la sua storia intorno ai temi più controversi dell'essere oggi cristiani e a quelli che uniscono le donne e gli uomini di buona volontà.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858112076

V. Finalmente Francesco

Beati quelli che sono poveri di fronte a Dio, Dio darà loro il suo regno
Matteo 5, 3
L’11 febbraio 2013 papa Benedetto XVI ha preso una decisione che ha segnato una clamorosa discontinui­tà: ha rassegnato le dimissioni, motivandole con la inadeguatezza delle sue forze, spirituali e fisiche insieme, ad affrontare i gravissimi problemi in cui versa la Chiesa, dalla concentrazione del potere nella Curia vaticana, agli scandali economici, all’incubo dello Ior, ai preti pedofili.
In alcune mie dichiarazioni pubbliche di quei giorni ho evidenziato il coraggio di papa Ratzinger, la sua u­miltà, la sua consapevolezza nel riconoscere una situazione gravissima e nel sentirsi inadeguato ad affrontarla. Ho parlato di una realtà che riportava il papa alla sua condizione di uomo liberandolo dalla corazza del potere, di una forma di idolatria sacralizzata, di una separatezza artificiosa, di un distacco dalla storia delle persone, delle comunità nella Chiesa e in tutta l’umanità.
Durante i giorni del conclave, in un’intervista a Rai Regione e in un’altra a Rai Uno Mattina, mi hanno chiesto come, per me, avrebbe dovuto essere il nuovo papa:
Un papa non italiano, non europeo, per uscire finalmente dall’eurocentrismo e più ancora dall’italiacentrismo, dai rapporti con il potere politico ed economico. Un papa che provenga dall’Africa, dall’America Latina, anche dall’Asia. Un papa che si liberi del potere, per una Chiesa povera e dei poveri; un papa coraggioso che segua il Vangelo e si esprima non con i segni del potere ecclesiastico, ma con la forza e il potere dei segni del Vangelo.
Così è avvenuto, e mi sono sentito confortato, incoraggiato, ho ritrovato il senso di appartenenza a una casa comune.
Il 13 marzo, rientrato da Roma, appena sceso dalla macchina sono salito in casa e dal piccolo televisore collocato in camera ho sentito che c’era stata la fumata bianca. Sono rimasto in attesa. Avvertivo pienamente che il momento era importante. All’annuncio del nome del nuovo papa, sono rimasto sorpreso, ma contento di essere scampato al pericolo di un papa europeo o italiano.
Ma come sono arrivato, insieme a tanti altri, a questo momento? Con serena tribolazione, per le forti perplessità sulla conduzione della Chiesa da parte dei due papi precedenti.
Non sono uno storico e non ho quindi la presunzione di dare alcuna interpretazione esaustiva. Sul pontificato di Giovanni Paolo II ho una sensazione ambivalente. Rispetto al mondo esterno, è stato capace di gesti importanti e positivi. Penso, ad esempio, a quando la sua voce si è levata solitaria contro la prima guerra del Golfo, definita “un’avventura senza ritorno”. O all’evento di Assisi del 1986, ovvero alla giornata mondiale di preghiera per la pace a cui presero parte i rappresentanti di tante religioni. Padre Balducci aveva salutato quel giorno come un segno bene augurante per il futuro, anche se successivamente abbiamo visto quanti passi indietro siano stati fatti sull’ecumenismo. O ancora, alla richiesta di perdono del 2000, anno del Giubileo, per le violenze perpetrate nel corso dei secoli dalla Chiesa nei confronti di tanta parte dell’umanità (gesto che, si dice, suscitò allora le forti perplessità del cardinale Ratzinger).
Accanto a questi aspetti positivi, però, c’è un aspetto che getta un’ombra diffusa e suscita interrogativi dirimenti: in quegli anni la Chiesa è stata lui, è stata il papa. E questo è molto grave.
La sua visibilità, il suo protagonismo, la sua capacità di padroneggiare i nuovi mezzi di comunicazione di massa hanno oscurato tutto il resto. Dov’era la Chiesa in quegli anni? E dov’era la collegialità? Dove gli episcopati, le comunità, le donne? Dove le teologhe e i teologi, sospettati, inquisiti e tacitati, in stretta collaborazione con il cardinale Ratzinger, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede?
La Chiesa ha assunto “un’identità cattolica polacca”, ha cancellato la teologia della liberazione, si è gettata nelle mani dell’Opus Dei, di cui ha fatto santo il fondatore, dei Legionari di Cristo, di altri movimenti come Comunione e Liberazione. Ancor oggi purtroppo, perché il danno è gravissimo per la Chiesa, ci sono tanti vescovi dell’Opus Dei, frutto di quella stagione storica.
Mi è capitato di incontrare qualche comunità dell’America Latina e ho notato che al solo sentir pronunciare il nome dell’Opus Dei a queste persone vengono i brividi: l’associano immediatamente ai gruppi della ricchezza, del potere, del militarismo.
E poi è stato un pontificato che ha coperto gli scandali, da quelli sessuali, con il dramma della pedofilia, a quelli economici.
Il potere centralizzato della Chiesa non è stato intaccato, bensì rafforzato. L’affermazione dell’identità cattolica ha sostenuto l’intera struttura ecclesiastica: le grandi questioni, dal celibato obbligatorio alla democrazia nella Chiesa, sono state ribadite in maniera ossessiva, autoritaria.
Insomma, l’esaltazione dell’identità cattolica ha soffocato la democrazia, la popolarità del papa ha mascherato il potere.
Con tutto il rispetto, la santificazione accanto a papa Giovanni XXIII appare francamente impropria; se poi al loro fianco mettessero finalmente il vescovo martire Romero, dopo trentaquattro anni dal suo martirio, sarebbe davvero imbarazzante.
Quando fu eletto papa Ratzinger, rimasi deluso perché percepivo una probabile continuità. E mi posi un interrogativo di fondo: come potrà ora guardare il mondo con altri occhi se per ben venticinque anni è stato prefetto della Congregazione per la dottrina della fede e ha scrutato la Chiesa con l’atteggiamento di chi deve controllare, giudicare, reprimere, allontanare?
Il teologo Hans Küng, che a suo tempo era ­stato collega di Ratzinger a Tubinga, disse di sperare nell’intelligenza del nuovo papa per avviare alcune riforme indispensabili. Sperava che capisse l’urgenza di attuarle, a cominciare dal drastico ridimensionamento del potere di Roma. Successivamente ha espresso la sua delusione per il papato di Benedetto XVI con critiche severe. Nell’ultimo periodo del pontificato, Küng ha affermato che il papa ha fatto lo studioso in Vaticano, ma non ha esercitato il suo compito di pastore e di guida.
Ed è vero: il papa ha continuato a fare il teologo, e certo si può discutere della sua teologia marcatamente occidentale, che non tiene conto delle teologie delle altre Chiese. Ha continuato a ribadire i “principi non negoziabili”, senza alcuna vibrazione per le storie di milioni di persone che vivono la loro diversità, non ha orientato con decisione la traiettoria della Chiesa di cui è stato guida. Inoltre, secondo il mio sentire, non ha manifestato attenzione e vera compassione per le situazioni di povertà, di marginalità, di fatica del vivere, non ha ascoltato ciò che succede nelle comunità di base, ciò che si muove e ferve dentro alla sua Chiesa.
È stato un teologo, un intellettuale europeo, chiuso nell’icona papale; però poi ha riscattato questa chiusura difensiva, con il gesto inatteso, clamoroso, umile e coraggioso delle sue dimissioni, tanto era preoccupato della gravissima crisi della Chiesa.
Ha segnato una storica discontinuità, ha costituito un precedente per altre possibili situazioni simili. Il papato non è più come prima: è sceso dal piedistallo, dalla presunzione terribile di proporsi come “alter Cristus”, un altro Cristo, il “dolce Cristo in terra”, ha “incontrato” la condizione umana.
Questi erano i miei vissuti, queste le ­tribolazioni e gli interrogativi, uniti – lo dico senza protagonismo né vittimismo – a quella “triste serenità” che deriva dal procedere in solitudine e al tempo stesso insieme a tante persone, in una sorta di isolamento, soprattutto nella Chiesa intesa nella sua organizzazione diocesana, nelle sue parrocchie, nei suoi preti, in un certo ambiente ecclesiastico. Ma c’era, in me, anche la consapevolezza di essere parte della Chiesa, nonostante tutto: la Chiesa dell’Eucarestia, la Chiesa dell’umanità, delle porte aperte, dell’incontro con le persone...
Ed ecco che il cardinal Bergoglio si affaccia al balcone di piazza San Pietro e pronuncia il nome di Francesco: è la prima volta nella storia della Chiesa. È un nome impegnativo, che denota una scelta precisa. San Francesco si è spogliato di ogni forma di potere e di ricchezza; ha incontrato e abbracciato i lebbrosi; si è liberato da ogni sacralizzazione e, peggio, clericalizzazione: difatti era un laico, non un sacerdote. Ha scelto l’umiltà e la povertà; la non violenza attiva e la costruzione della pace. Mentre papa Innocenzo III guidava la crociata contro gli “infedeli”, Francesco a mani nude, con la sola forza del Vangelo nel cuore, si recò fra i musulmani, incontrò e abbracciò il Sultano, perché voleva rapportarsi con tutti gli esseri viventi, con l’intera creazione con sguardo contemplativo, non di dominio, utilizzo e sfruttamento. Da questo sguardo è nato il dialogo con l’acqua e i fiori, con gli uccelli e le pecore... Il Cantico delle Creature è la sintesi pregnante della sua vita e insieme il progetto di una nuova umanità: non più dominio, violenza, sfruttamento, ma relazione, condivisione, fraternità, partecipazione alla presenza e alla vita di tutti gli elementi, di tutti gli esseri viventi.
E la prima spogliazione il cardinal Bergoglio l’ha fatta presentandosi come vescovo di Roma e in quanto tale come colui che presiede la carità delle diverse comunità cristiane, non il potere del papato. Ha salutato con un amichevole “buona sera” e, nel silenzio commosso della piazza, ha chiesto la preghiera e la benedizione del popolo, prima di esprimere la sua.
Non ricorderò qui tutte le parole e i gesti di Francesco vescovo di Roma e papa da quel 13 marzo ad oggi. Mi limiterò a sottolinearne alcuni, che rappresentano per me un incoraggiamento, e che io ritengo indichino – siamo in tanti a sperarlo – una svolta nella Chiesa, nell’attesa di quelle indispensabili riforme che attendiamo e alle quali siamo chiamati a contribuire.
Francesco ha scelto di continuare a vivere a Santa Marta, e non nei palazzi apostolici, storica e immutata abitazione privata dei papi e delle persone che li accudivano. Lassù si sarebbe sentito isolato, lui così abituato a vivere fra la gente, a usare i mezzi pubblici, a relazionarsi in modo diretto e spontaneo.
Consuma i pasti nel refettorio, insieme agli altri. Veste in modo semplice e sobrio, non indossa abiti particolari neppure in determinate occasioni: solo il tradizionale abito bianco dei papi; persino nelle celebrazioni liturgiche indossa i paramenti in modo essenziale. Calza le comode scarpe di sempre, e ha addirittura telefonato direttamente al suo calzolaio di Buenos Aires perché gliene prepari un nuovo paio ma sempre dello stesso tipo.
Il giorno di San Giuseppe, 19 marzo 2013, ha iniziato ufficialmente il suo ministero, pronunciando alcune riflessioni programmatiche, ma senza alcuna enfasi. Ha ricordato la persona di Giuseppe soffermandosi sul suo impegno a “custodire” Maria e il piccolo Gesù. E, prendendone esempio, ha esortato tutti a custodirsi.
Ho riflettuto molto sul fatto che non abbia esortato a custodire la Chiesa, la dottrina, i valori non negoziabili, ma a custodirci gli uni con gli altri, a custodire le persone; ma ancora non in modo generico, ma riferendosi soprattutto agli affamati, agli assetati, ai denudati di vestiti e di dignità, ai carcerati, agli ammalati, agli stranieri. E insieme alle persone, anche tutti gli altri esseri viventi, l’intera creazione.
Se questo è l’orientamento teologico, ecclesiale e pastorale del papa, allora il baricentro si sta spostando dalla dottrina al Vangelo, dalla Chiesa alla storia, con attenzione alle storie di tutte le persone, senza pregiudizio ed esclusione alcuna. Lo confermano diversi e continui segnali: una Chiesa non autoreferenziale, non autosufficiente, ma che abita le periferie, non solo (o prima) geografiche, ma esistenziali dell’umanità; una Chiesa in cui i pastori devono sentire l’odore delle pecore con cui condividono la vita; una Chiesa non di funzionari della religione, ma di pastori; non di carrieristi, ma di servitori umili e disinteressati. E Francesco si riferiva anche al servizio del papa, che certamente riveste un potere, ma che tuttavia non può essere concepito che come un servizio.
E poi c’è stato un altro gesto emblematico. Il giovedì santo non ha celebrato l’Eucarestia in Vaticano, ma nel carcere minorile di Casal di Marmo, dove ha lavato i piedi a dodici giovani dalle storie difficili, impegnati in un percorso di recupero della propria vita. Dopo aver lavato e asciugato i piedi li ha baciati, in ginocchio: la Chiesa è quella che si inginocchia e incontra le persone, le accoglie, le tocca, con amorevolezza. C’erano fra questi giovani due donne, una di fede musulmana. Francesco ha baciato il corpo della donna tradizionalmente considerato fonte di tentazione e di peccato ed espulso dalla Chiesa, proprio come faceva Gesù che incontrava, ascoltava, toccava le persone e si lasciava toccare, accarezzare: “ed ecco una donna, una peccatrice di quella città, saputo che [Gesù] si trovava nella casa del fariseo, venne con un vasetto di olio profumato; e stando dietro, presso i suoi piedi, piangendo cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di olio profumato” (Lc 7, 37-38). Il contatto dei corpi per esprimere vicinanza e tenerezza, non strumentalità e violenza; serenità e pace, non malizia e tormento.
È una presenza, quella di Francesco nel carcere minorile, che rende concrete le sue continue affermazioni sulla misericordia di Dio: non solo Dio giudica con misericordia, ma il giudizio stesso di Dio è misericordia; lui si dimentica del male che facciamo e per questo la fiducia e la confidenza in lui sono da vivere e da nutrire con tutta la profondità dell’animo.
E poi quella sedia vuota al concerto: nel programma era prevista la sua presenza ma Francesco ha scelto di continuare a ricevere le persone, perché avvertiva questo come una priorità e per rendere noto a tutti che il papa non ha bisogno, per rafforzare il suo servizio, della corte dei cardinali, dei diplomatici, dei politici che invece sono presenti per ricevere lustro dal papa...
La corte principesca, l’immagine dei poteri che si compiacciono reciprocamente non servono più alla Chiesa. La sedia papale in questi contesti può restare vuota, ad indicare che le strade del Vangelo e dell’umanità sono altre. Sovviene, per associazione interiore, quel passo del Vangelo di Matteo che ci racconta come i Magi, dopo aver incontrato il piccolo Gesù, vengono avvertiti in sogno di seguire un’altra strada per ritornare al loro paese, senza passare dal palazzo del potere di Erode.
Così Francesco ci indica che la strada da percorrere è alternativa a quella del potere.
E poi la visita a Lampedusa, avvertita come una necessità dell’anima, una urgenza umana ed evangelica, nell’unione intima di queste due dimensioni inscindibili. Un moto dell’anima, una decisione personale, un programma essenziale che intende attribuire tutta l’importanza non al papa ma ai migranti, ai loro drammi, alle migliaia e migliaia di morti, ai vivi che continuano ad arrivare; e meno che meno ai politici e agli ecclesiastici che vorrebbero esserci, ma ancora una volta per trarne vantaggio in immagine e in consenso.
Lampedusa è da anni uno degli approdi delle migliaia e migliaia di persone che vi arrivano dopo viaggi terribili alla ricerca di condizioni di vita migliori scappando dalla fame, dalla siccità, dalle violenze e dalle guerre. Lampedusa è un emblema: per gli arrivi, per il centro di accoglienza affollato oltre ogni possibilità, per la straordinaria disponibilità dei suoi abitanti all’ospitalità, per l’incapacità, la non volontà di una seria progettazione sull’immigrazione e di un piano ramificato di accoglienza in Italia e in Europa. Lampedusa è anche il cimitero di chi muore in mare e viene recuperato: pochi, in rapporto alle migliaia e migliaia di corpi sepolti nel grande cimitero d’acqua che è diventato il Mediterraneo (ventimila negli ultimi dieci anni).
Francesco è andato a Lampedusa con atteggiamento penitenziale, dopo l’ennesima tragedia. La corona di fiori che ha adagiato sull’acqua del mare è una sorta di abbraccio a...

Indice dei contenuti

  1. Prologo
  2. I. Margherita e la fede in una morale laica
  3. II. Don Pino e don Andrea: Dio è passato in Italia
  4. III. Nel ricordo di Eluana
  5. IV. Don Tonino Bello, vescovo “estroverso”
  6. V. Finalmente Francesco
  7. VI. La spiritualità non è fuga dal mondo
  8. VII. In cammino insieme
  9. VIII. L’amorevole compassione del Dalai Lama
  10. IX. Il potere, la giustizia
  11. X. Monsignor Romero con i profeti e i martiri dell’America Latina
  12. Epilogo. Una Chiesa che non ha paura e guarda al futuro