La grande paura del 1936
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La grande paura del 1936

Come la Spagna precipitò nella guerra civile

  1. 336 pagine
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La grande paura del 1936

Come la Spagna precipitò nella guerra civile

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Vincendo la guerra civile Franco impose alla Spagna una dittatura di tipo fascista. Per molti anni dopo la fine della guerra egli ha continuato, con grande spietatezza, a uccidere e tenere in prigionia un enorme numero di oppositori. Poiché per tutto questo il regime franchista è restato il simbolo della più oscura e longeva antidemocrazia nella storia dell'Europa occidentale, la Repubblica che egli ha abbattuto è rimasta il simbolo della democrazia.È noto però che la Spagna repubblicana all'avvio della guerra fu immediatamente travolta da un'ondata rivoluzionaria, e solitamente si considera questo stravolgimento della sua natura una conseguenza del golpe militare, per far fronte al quale era occorso armare il popolo. Ma è veramente così?I generali golpisti vollero affossare la Repubblica per la loro ostilità verso le riforme che essa stava attuando nell'ordine e nel rispetto delle norme di una democrazia liberale? Oppure essi poterono contare sull'attivo sostegno, o quanto meno sulla sconcertata passività, di un'ampia parte della cittadinanza, perché diversi eventi e segnali diffusero la paura che il paese stesse già imboccando la via di un'irreversibile rivoluzione?

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858113486
Argomento
History

I. Una gracile democrazia

Il centro di Madrid nelle notti d’estate non è frequentato solo da rari passanti. C’è spesso un va e vieni nelle vie tra la plaza de España, Recoletos e il paseo del Prado, non diverso da quello che le anima durante il giorno. E quel brulichio non si attenua fin quasi alle prime luci del mattino.
Era così anche il 13 luglio 1936, alla fine di una giornata domenicale densa di eventi, quando non solo il caldo estivo, ma altri entusiasmi e ardori – di riscatto, di conquista, di vendetta – avevano spinto molti gruppi di giovani per le strade, dove formavano capannelli davanti ai caffè o ai chioschi di giornali, passeggiavano su e giù ripetendosi a vicenda le loro verità, discutendo accaloratamente con tutte le gradazioni di voce.
Ma nel barrio Salamanca, il quartiere residenziale più esclusivo, a ridosso del centro, c’era più quiete. Non solo perché in quel momento dell’anno i suoi abitanti solitamente erano in villeggiatura; sulla costa cantabrica – a San Sebastián o a Santander – o nelle loro case di campagna, verso la Sierra, all’Escorial, o in province più lontane. Ma soprattutto perché gran parte di loro non doveva essere in animo di svaghi e vagabondaggi notturni. Forse vegliavano, ma in casa, sussurrandosi le loro preoccupazioni per non essere uditi dalla servitù.
Il clima si era fatto pesante per le classi agiate. Sentivano che molti dei loro beni e privilegi erano in pericolo. Temevano non solo per il mantenimento del loro tenore di vita ma per la loro stessa libertà. Si vedevano precipitare in un gorgo rivoluzionario in cui si sarebbero inabissate per sempre. Perciò alternavano fantasie di fuga con quelle di resistenza e rivincita, alimentate dalla speranza di un intervento dei militari che, al di là di ogni più precisa connotazione politica, ristabilisse comunque l’“ordine naturale delle cose”.
Il barrio Salamanca taceva in ansiosa e vigilante attesa.
La calle de Velázquez che lo attraversa da sud a nord, dal parco del Retiro alle prime case – allora – della periferia, più che una via è un viale. Benché non raggiunga la larghezza delle grandi avenidas, è ampia, ornata per lungo tratto da platani, e fiancheggiata da solidi edifici, che, soprattutto nella zona più centrale, per lo più sfoggiano un’architettura pretenziosa, con le frequenti mescolanze di stili che caratterizzano la Madrid dei primi decenni del secolo XX. Lesene con capitelli dorici, tetti francesizzanti con tegole di ardesia, balconcini stretti alla spagnola con ringhiere metalliche squadrate, colonne di bow-window in ferro e vetro, colmi turriti, a cupola o a campanile, che non riescono tuttavia a dare snellezza a fabbricati che restano alquanto tozzi e terragni.
Quel giorno, alle due e mezzo del mattino, il viale semideserto era percorso da un’autovettura che dalle vecchie foto oggi ci appare alquanto singolare. Un furgone decappottato di straordinaria lunghezza, con quattro sportelli per lato e sei larghi sedili. Si trattava della plataforma numero 17 – così come appariva a grandi caratteri sullo sportello del posto di guida –, un veicolo in dotazione alle forze dell’ordine pubblico, le Guardias de Asalto create dalla Repubblica, capace di trasportare una ventina di agenti.
Occupata da uomini in uniforme e in borghese per circa la metà della sua capienza, la vettura, partita da pochi minuti dalla caserma di Pontejos, prossima alla Puerta del Sol e al Ministero degli Interni, in breve si arrestava all’incrocio con la calle Maldonado, sul lato verso Serrano, l’altra grande arteria che, in parallelo con Velázquez, attraversa il barrio Salamanca. Lì, al numero civico 89, c’era l’ingresso di un edificio, più sobrio di ornamenti ma dai caratteri comunque signorili, in cui abitava il deputato José Calvo Sotelo. E al suo domicilio, situato al secondo piano del palazzo, si diressero quegli uomini guidati da Fernando Condés, capitano, non degli Asaltos, ma della Guardia Civil.
Benché leader di un partito monarchico, Renovación Española1, che contava solo dodici rappresentanti alle Cortes, Calvo Sotelo era nel Parlamento la voce della più irriducibile opposizione al governo del Fronte Popolare, e per questo stava adunando attorno a sé consensi nella destra più vasti di quanti ne avesse raccolti alla prova elettorale di febbraio. In quei giorni turbolenti non era difficile quindi immaginare che solo per questo potesse essere oggetto di qualche aggressione. E tuttavia quella sera egli non aveva all’interno del suo domicilio alcuna scorta di protezione, né pubblica né personale. Al portone erano di piantone solo due guardie del vicino commissariato, che naturalmente lasciarono libero passo all’ufficiale della Guardia Civil con il suo seguito.
Di lì a non più di un’ora – il tempo necessario per farlo svegliare e vincere le sue resistenze a quello che appariva una sorta di arresto, benché gli esecutori non avessero alcun mandato scritto – quelle stesse guardie videro uscire dall’androne “don José” – come deferentemente lo salutarono – stretto tra gli uomini che erano andati a prelevarlo. Era stato poi fatto sedere nel quarto sedile con a fianco un solo agente. Avanti e dietro si erano sistemati gli altri uomini, civili e in divisa. E il furgone era ripartito per la calle de Velázquez percorrendola nella direzione contraria a quella da cui era venuto.
In strada Calvo Sotelo si era lasciato condurre docilmente e in silenzio. Ma è molto verosimile che, secondo quanto riferirono alcuni testimoni, in casa egli si fosse opposto vivamente alla sopraffazione che stava subendo, reclamando la sua immunità parlamentare e protestando per l’irregolarità del procedimento. È certo che gli fu impedito, malgrado le sue insistenze, qualsiasi contatto telefonico; in particolare con José Alonso Mallol, il capo della polizia che – gli aveva dichiarato Condés – aveva ordinato di portarlo in sua presenza. Ed è probabile che egli finì per cedere alle pressioni sempre più minacciose degli agenti della forza pubblica per risparmiare ai suoi familiari una scena violenta, peraltro priva di utilità pratica. D’altro canto non dovette sembrargli ci fossero i presupposti per dover temere il peggio.
Quando nell’aprile precedente aveva pronunciato nelle nuove Cortes il suo primo discorso, egli aveva esordito dicendo: «Signori Deputati, sta per prendere la parola un deputato agonizzante, in condizione molto simile a quella dei condannati alla pena estrema»2. Era però una frase detta con provocatoria ironia, poiché si riferiva al fatto che la Giunta elettorale aveva proposto l’annullamento per brogli della sua elezione a deputato del distretto galiziano di Orense3. Non c’era dunque nelle sue parole alcuna suggestione premonitrice, sebbene poi così poté apparire.
E neppure in quell’ora del primo mattino, quantunque paure e nere previsioni agitassero probabilmente il suo animo, dovette presagire un così incombente pericolo. La morte colse Calvo Sotelo certamente alla sprovvista. Nell’immediato poteva temere di essere imprigionato, e poteva figurarsi che se la rivoluzione, di cui da tempo denunciava l’imminenza, fosse stata attuata – o si stava attuando – egli avrebbe subìto un processo spicciativo, per poi venire rapidamente giustiziato. Il suo peggior timore poteva essere quello di essere subito condotto in luogo appartato e lì passato per le armi, sebbene quella pratica di giustizia sommaria, che di lì a pochi giorni sarebbe diventata consuetudine quotidiana, dovesse apparirgli ancora un’enormità del tutto improbabile.
Non poteva comunque immaginare che proprio lì, mentre quel veicolo a forte andatura gli faceva scompigliare i capelli dal fresco della notte, un colpo di revolver alla nuca, sparato a bruciapelo, gli avrebbe troncato la vita. Il suo assassino, Luis Cuenca, un galiziano – come lui e Condés – appartenente a una milizia socialista, gli diede poi il colpo di grazia, nuovamente alla nuca, quando già il corpo era scivolato di fianco sul sedile. E senza alcuna sosta la vettura prendeva la direzione del Cimitero dell’Est, dove il cadavere, dichiarato sconosciuto, veniva direttamente depositato a terra in prossimità dell’obitorio4.
Era toccato a Calvo Sotelo morire «con le scarpe ai piedi». La violenza degli scontri parlamentari era stata tale in quei mesi che quella profezia minacciosa l’aveva pronunciata in aula il segretario del Partito comunista José Díaz rivolto a José María Gil Robles. Questi, il capo della ceda (Confederación Española de Derechas Autónomas), era odiato dalla sinistra estrema ancor più del leader monarchico. Gil Robles era per essa il potenziale dittatore clerico-fascista che nel 1934 aveva provocato la sollevazione delle Asturie, ne aveva ispirato la spietata repressione, era stato il capofila della destra nel durissimo scontro elettorale e, alla testa degli 88 deputati del suo partito, ne era il principale portavoce parlamentare. Per questo nella gazzarra che era seguita alle parole di Díaz, e di fronte alle proteste di Calvo Sotelo che le aveva definite «un incitamento all’assassinio», Dolores Ibárruri, la “Pasionaria”, avrebbe aggiunto con acre sarcasmo: «Se questo vi disturba, gli toglieremo le scarpe e gli metteremo gli stivali»5.
La gravità dell’episodio è amplificata dal fatto che non si era verificato nel corso di una seduta secondaria delle Cortes, ma durante il dibattito seguito al discorso con cui Manuel Azaña aveva presentato il suo programma di governo. Non si trattò peraltro di un’estemporanea e singolare esplosione di collera. Gran parte dei lavori parlamentari di quel periodo sono caratterizzati da una sprezzante avversione, da un’estrema aggressività dei rappresentanti del Fronte Popolare verso i deputati della destra, e specialmente verso i suoi due leader. La “Pasionaria” aveva definito Gil Robles un «istrione ridicolo imbrattato del sangue della repressione», la socialista Margarita Nelken aveva interrotto Calvo Sotelo dicendogli: «I boia non hanno diritto di parlare», e Bruno Alonso González, anch’egli socialista, lo aveva chiamato «salariato del capitalismo» sfidandolo ad andare fuori dall’aula a regolare i conti6.
Mentre gli altri deputati della destra intervenivano chiaramente intimoriti dall’atteggiamento prevaricante e intimidatorio della maggioranza, i due leader – specialmente Calvo – tenevano testa. Se tuttavia dovessimo attenerci solo a quello che risulta dagli atti parlamentari, essi appaiono, di fronte alle minacce e agli insulti degli avversari, come uomini vessati, perseguitati, vittime innocenti. E certo alcuni di essi perseguitati o vittime, potenziali o effettive, lo erano, o lo stavano per essere7.
Ma innocenti non erano stati. Né lo erano.

1. Tra reazionari e rivoluzionari

L’omicidio di Calvo Sotelo, anche spogliato dei ...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. I. Una gracile democrazia
  3. II. L’erosione della vittoria
  4. III. Il lievito della paura
  5. IV. Risarcimenti
  6. V. Dalla paura all’abisso