1. L’universo rete
Dall’universo alla rete
Come appare sempre più evidente in questo terzo millennio incipiente, Internet costituisce uno dei fattori principali che contribuiscono a rendere «liquida» la nostra realtà, per usare il qualificativo che Zygmunt Bauman attribuisce alle nostre società postmoderne, o comunque le si voglia chiamare. Tra consumismo esasperato e globalizzazione indiscriminata, il mondo contemporaneo, quanto meno quello che più si trova avviluppato nella spirale alimentata da queste due dinamiche, sembra destinato a fluidificarsi nella sistematica mancanza di riferimenti stabili, di puntelli solidi, insomma di certezze. E occorre constatare che tale stato di cose non è frutto di una trasformazione esclusivamente economica o sociale: la liquidità è altresì il risultato di una nuova consapevolezza sul reale in senso lato, frutto dei più recenti sviluppi nei diversi campi del sapere e della tecnica.
Si deve poi aggiungere che questo processo – per la conformazione che esso ha assunto oggi – straripa oramai chiaramente dagli argini della classica definizione di «crisi delle certezze», puntualmente utilizzata per designare l’impatto delle grandi scoperte di fine Ottocento-inizio Novecento sulla cultura umanistica e scientifica. Con il passare dei decenni, quella che appariva come una crisi è divenuta una condizione stabile, ed il ciclico – forse anche sereno – avvicendarsi dei modelli scientifici, cadenzato dal periodico manifestarsi di un «cambiamento di paradigma» (secondo quanto teorizzato da Thomas Kuhn), sembra far posto all’inesorabile quanto radicale messa in discussione della possibilità stessa dell’esistenza di un paradigma, quanto meno di un paradigma afferrabile dalla mente umana.
In altre parole, l’idea che lo sviluppo della nostra comprensione – dovremmo dire scientifica – del mondo proceda secondo un andamento a gradini, ognuno dei quali introdotto da un «salto» in avanti (una «crisi» suscitata da scoperte rivoluzionarie) tale da ridefinire i parametri di riferimento precedenti, viene messa alla prova dalla sempre più acuta consapevolezza della nostra sostanziale inadeguatezza epistemologica. Infatti, i limiti della nostra conoscenza non paiono più dati solo da una deficienza tecnologica eventualmente risolvibile in futuro, ma da vere e proprie aporie strutturali.
Bene lo si vede nella cosmologia scientifica, dove le barriere invalicabili del nostro sapere sono rimarcate da concetti come quello di «orizzonte delle particelle» (la massima distanza da cui, a partire dalla nascita dell’universo, le particelle possono aver raggiunto l’osservatore), un dato che indica l’estremo confine oltre il quale, stando a quel che sappiamo oggi, non potremmo mai vedere, in nessuna circostanza.
Su di un fronte diverso, si prenda ancora il concetto di «tempo di Planck», nella sua applicazione alla teoria del Big Bang: risalendo indietro nel tempo sino alle origini del cosmo, si arriva a un punto oltre il quale «non siamo in grado di dare una descrizione di ciò che è avvenuto in quanto non conosciamo la fisica che governa l’universo in queste condizioni estreme». Il tempo e lo spazio, coordinate di riferimento da sempre considerate oggettive di tutto ciò che appartiene al mondo materiale, si scoprono oggi come dimensioni soggette a distorsione, o quanto meno a leggi che esulano dalla nostra percezione immediata delle cose. E gli scienziati ci dicono che ricercare un centro dell’universo o un tempo prima del Big Bang costituisce semplicemente un errore di prospettiva tipicamente umano: siamo inevitabilmente portati fuori strada da un punto di vista parziale e condizionato, perché ancorati ad un «principio antropico» per cui ciò che osserviamo ed esaminiamo deve risultare sensato e comprensibile a noi in quanto uomini, e – fatto spesso determinante – uomini appartenenti a mondi culturali particolari. In fondo, si ritorna sempre al problema del circolo ermeneutico.
Questa spirale interpretativa – per cui lo studioso indaga l’oggetto delle sue domande partendo sempre da posizioni pre-poste, predeterminando di fatto l’oggetto dell’indagine e dunque la sua analisi sulla base di una pre-comprensione (la gadameriana Vorverständnis) – straripa ormai impetuosamente dagli argini delle scienze umane, per le quali era stato originariamente proposto in particolare da Wilhelm Dilthey, e inonda il campo delle scienze esatte. E questo almeno da quando è apparso chiaro che la nostra osservazione delle particelle subatomiche ne influenza il comportamento, ovvero modifica il dato osservato. Insomma, i limiti metodologici della «osservazione partecipante» degli etnologi – anche di quelli che operano nella rete – sembrano, con un paragone solo un poco forzato, valere anche per la fisica. E, si noti, anche per l’informatica, come ci ricordano fenomeni quali il cosiddetto Heisenbug (il bug di Heisenberg, dal nome del fisico che ha definito il principio di indeterminatezza), un baco digitale che scompare o si modifica se il computer tenta di analizzarlo.
Insomma, qui andiamo ben oltre le questioni poste nelle discipline umanistiche dal decostruzionismo, il quale – si potrebbe dire – si è proposto di sradicare il nostro particolare «principio antropico» (inteso come imperniato sulle nostre categorie culturali) dalle interpretazioni che diamo dei fenomeni culturali vicini o lontani. In fondo, ci troviamo a studiare un reale che avvertiamo sempre più irriducibile ai nostri strumenti di analisi, quasi che questi non siano più atti a farci varcare l’incolmabile vuoto tra soggetto e oggetto, vuoto che si riapre alle frontiere del sapere odierno.
Ci si domanderà allora come reagisca lo scienziato di fronte alle aporie delle proprie ricostruzioni. In passato, poteva forse bastare introdurre – vero e proprio deux ex machina – la componente religiosa nell’equazione, come fece per esempio Isaac Newton: «di fronte all’interrogativo sul destino di un universo che l’attrazione gravitazionale tra le stelle sembrava fatalmente condannare al collasso» egli indicò «il fondamento della sua stabilità nell’azione divina». E oggi?
Con buona pace di tutti i riduzionisti digitali, cui piace intendere Internet come nulla più di un attrezzo elettronico, la rete costituisce oggi una nuova dimensione del reale che, alla stregua delle altre, si presenta sotto diversi aspetti come opaca alla nostra intelligenza e sfuggente rispetto al nostro controllo. Anche qui spazio e tempo sono irrimediabilmente distorti, anche qui manca un centro – un omphalos – da cui stabilire una geografia del territorio, anche qui c’è chi ha tentato di tradurre le aporie della nostra intelligenza in un linguaggio religioso. Che sia dunque questa opacità a favorire il re-incanto di uno degli ambiti più rilevanti della tecnologia contemporanea? Forse che le riserve di legname da amministrare dell’industriale moderno siano infine tornate a essere la misteriosa foresta del contadino medievale?
Non si possono dare risposte semplici a domande come queste, ma una cosa è certa: di fronte a casi come quello dato dalla rete, la questione dell’irriducibilità dell’ambiente in cui l’uomo si muove diviene imbarazzante, perché quando si tratta dell’universo della rete il punto non è più (come fu invece per Newton) la mancanza di una tessera necessaria a completare il puzzle della nostra comprensione. Difatti, noi conosciamo bene, in quanto suoi creatori, il funzionamento di Internet, solo non siamo più in grado di seguirlo nel dettaglio, di controllarne ogni aspetto, di prevederne gli sviluppi o anche solo di arrestarlo: la vastità della nostra creazione l’ha ormai posta fuori controllo, al punto da conferirle uno statuto (quasi) autonomo.
Certo rimane pur sempre vero che qualcuno un giorno ha costruito le prime tessere del puzzle, ma con il passare del tempo questi è divenuto semplicemente troppo esteso: tutti hanno preso a mettervi mano, aggiungendovi pezzi, molti pezzi, assemblando e disassemblando nella completa latitanza di una direzione centrale (esistono solo delle agenzie che forniscono le regole da seguire per poter partecipare all’opera creatrice). Alla fine, a chi lo osserva da fuori, il puzzle sembra aver preso vita, introducendo così un’ambiguità di fondo quanto al suo statuto – dipendente o non dipendente dai suoi creatori – che pare ben espressa nelle parole con cui il protagonista del film Il tagliaerbe si sforza di spiegare la natura della realtà virtuale: «A volte penso di aver scoperto un nuovo pianeta, ma lo sto inventando non scoprendo [...] Ed ho a malapena toccato la riva di uno dei suoi continenti».
La complessità tecnologica
La verità è che Internet, proprio in quanto «rete», si può intendere come un sistema complesso. Senza volerci addentrare qui nel vasto campo delle teorie della complessità, ci limiteremo solo a ricordare che la caratteristica centrale di tale tipologia di sistemi è la non linearità nei rapporti che i vari elementi intrattengono tra di loro: ne deriva, da parte del sistema stesso, un co...