Specchi di guerra
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Specchi di guerra

Giornalismo e conflitti armati da Napoleone a oggi

  1. 352 pagine
  2. Italian
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Specchi di guerra

Giornalismo e conflitti armati da Napoleone a oggi

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«Il compito del war reporter oggi è più che mai difficile: stretto tra le sempre più pervasive logiche commerciali dei grandi media, le più sofisticate strategie di controllo e manipolazione dei governi e dei poteri economici, l'erosione del suo specifico ruolo professionale innescato dalla diffusione dei media digitali, e le crescenti difficoltà di afferrare una guerra sempre più multiforme e delocalizzata, che è ovunque e in nessun luogo. Il tempo in cui William Russell osservava da un'altura la carica dei Seicento e ne scriveva poi con tutta calma con la sua penna d'oca, alla luce di una lampada a olio, è irrimediabilmente perduto.»Oliviero Bergamini racconta, con ritmo e passione, come il giornalismo di guerra si è evoluto fino a oggi, come si è aggiornato e adeguato al progresso tecnologico e bellico e quali sfide deve affrontare nell'era del digital news.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858113400

IX. Dopo il Vietnam

Sì, quello che sembra essere successo, circa 20 minuti fa, è che la contraerea del centro della città, dove noi ci troviamo e dove viviamo, tutto attorno agli edifici governativi, ha come eruttato, cominciando a sparare. Devono essere stati circa 200 cannoni che sparavano verso il cielo. Non abbiamo visto alcun aereo, ma abbiamo sentito le sirene d’allarme. Circa due minuti dopo ci sono state forti esplosioni, chiaramente bombardamenti, in almeno tre diverse parti della periferia della città.
Non abbiamo idea di dove si trovassero quei bersagli, ma erano nella direzione dell’aeroporto e di alcune caserme militari. A te John [...].
Sì, mi sto spostando verso la finestra per cercare di restare più possibile al passo con quello che succede [...]. Continuiamo a sentire le esplosioni e gli spari, credo che possiate sentirli anche voi [...]. In lontananza vedo il profilo della città come circondato da un alone di luce [...] (telecronaca di Peter Arnett, John Holliman e Bernard Shaw, Cnn, 17 gennaio 1991).
Nel gennaio del 1991 la cronaca in diretta dell’inizio della cosiddetta guerra del Golfo, il primo bombardamento aereo di Baghdad, apre una nuova fase nella storia del giornalismo di guerra. I tre inviati della Cnn Bernard Shaw, John Holliman e Peter Arnett si trovano nell’hotel Rashid della capitale irachena e descrivono quello che vedono e odono praticamente in un unico lunghissimo collegamento che dura 16 ore. Inizialmente è solo un collegamento telefonico; poi la Cnn riesce ad attivare una telecamera sul tetto dell’albergo, e attraverso l’emittente americana il mondo può vedere il cielo di Baghdad illuminato dalle esplosioni che si sollevano dalla silhouette degli edifici. Uno spettacolo sinistro e al tempo stesso affascinante; apparentemente una guerra totalmente visibile, fin dal suo inizio, che si dispiega in tempo reale, davanti al pubblico. Ma se si va oltre l’emozione, subito ci si accorge che nelle immagini non si vedono gli aerei, non si vedono soldati, in realtà non si vede alcun essere umano; solo una sorta di fantasmagoria bellica quasi astratta. È quasi un’allegoria delle nuove, difficili frontiere del war reporting.

1. La «Revolution in Military Affairs» e le nuove guerre

Nell’ultimo quarto del Novecento il volto della guerra è cambiato radicalmente. Nel determinare questa mutazione hanno interagito elementi geopolitici, socioculturali, tattici e strategici e soprattutto tecnologici. A partire dagli anni ’70, infatti, e poi sempre più pienamente negli anni ’80, ’90, le tecnologie belliche hanno conosciuto un vero e proprio balzo in avanti, così marcato da essere indicato correntemente dagli studiosi come «Revolution in Military Affairs» (Rma), ovvero «Rivoluzione negli affari militari».
Si tratta di un fenomeno complesso, che si concentra attorno a un aspetto-chiave: l’applicazione agli armamenti dell’elettronica, dell’information technology e delle soluzioni più innovative nel campo delle telecomunicazioni. Il processo si è sviluppato in parallelo al perfezionamento e alla diffusione dei computer, diventati dagli anni ’80 in poi elemento strutturale degli apparati militari occidentali. In sostanza informatica e telecomunicazioni sono state applicate agli aerei, alle navi, e progressivamente alle forze armate terrestri in modo da rendere possibili operazioni prima impensabili: il lancio di missili e bombe «guidate» sui bersagli grazie a rilevamenti laser e/o satellitari (più tardi, puntamenti laser anche per le artiglierie); la mappatura dettagliata in tempo reale del territorio e/o dello spazio aereo (il «campo di battaglia» tridimensionale); apparati di sorveglianza satellitare globale; reti che consentono la comunicazione in diretta tra le unità che svolgono un’operazione, e tra esse ed una base centrale, anche molto lontana, generando un controllo completo delle attività; programmi informatici e sistemi di trasmissione che permettono di pianificare ed eseguire con rapidità e precisione ingenti movimenti di uomini e mezzi; strumentazioni che «accecano» le comunicazioni del nemico e così via.
Accompagnandosi alla messa a punto di nuove armi nel senso più convenzionale del termine (artiglierie, aerei, navi, ecc.), all’utilizzo di nuovi materiali, all’elaborazione di nuove dottrine tattiche e strategiche, tutto ciò ha dato vita ad una forza armata nuova: enormemente più mobile, rapida, con molta maggiore possibilità di colpire il nemico prima che esso abbia tempo di reagire, dotata di una potenza di fuoco e di una precisione mai viste prima.
Pur condivisa in parte dalle forze armate russe, britanniche e di altri paesi occidentali (e più recentemente anche orientali), la Rma ha beneficiato soprattutto gli Stati Uniti, che ne sono stati i protagonisti e grazie ad essa hanno accumulato un vantaggio militare molto netto su ogni altro potenziale avversario. Ciò è stato reso possibile, oltre che dal primato tecnologico-industriale del paese in campo civile, da investimenti enormi, che hanno portato la spesa militare americana ad essere in pratica pari a quella di tutti gli altri paesi del mondo messi assieme. L’ascesa della potenza militare di Washington è stata coronata dal collasso dell’Unione Sovietica nel 1989, unico paese che avrebbe potuto in qualche modo tenerle testa. Oggi gli Usa godono di una superiorità tecnologica bellica che non ha precedenti nella storia.
La Rma ha innescato trasformazioni profonde negli eserciti. Ha dato nuova preminenza all’arma aerea, potenzialmente in grado di polverizzare qualsiasi obiettivo visibile sul terreno. Dietro al soldato che materialmente spara, ha fatto crescere una schiera sempre più numerosa di figure ausiliarie (militari e civili) che si occupano di logistica, trasporti, organizzazione, manutenzione e messa a punto di armi sempre più complesse e sofisticate. Con la Rma il rapporto tra personale «operativo» e personale «di supporto» ha raggiunto la quota 1:10. Per utilizzare gli armamenti di nuova generazione servono meno soldati, ma dotati di maggiori competenze tecniche e addestramento: specie dopo la fine della guerra fredda, gli eserciti sono quindi diventati più piccoli e quasi esclusivamente professionali, e questo ha mutato strutturalmente il loro rapporto con il resto della società.
Le nuove tecnologie belliche hanno inoltre provocato una sorta di «delocalizzazione» della guerra. Se le battaglie di Napoleone si potevano racchiudere in un grande quadro, le guerre della Rma sono «ovunque e in nessun luogo». I missili contro una caserma nemica possono partire da una nave a migliaia di chilometri di distanza e colpire con precisione grazie a rilevamenti effettuati da satelliti che ruotano a migliaia di chilometri sopra la Terra; reparti di commandos possono intervenire nel cuore del territorio nemico trasportati da elicotteri guidati (anch’essi) da rilevamenti satellitari; i bombardieri Stealth sono (almeno teoricamente) invisibili ai radar, e così via.
Alle trasformazioni tecnologiche hanno fatto da contraltare quelle di più ampio ordine geostrategico. La fine dell’impero sovietico ha disinnescato l’incubo dell’olocausto nucleare, ma ha aperto il vaso di pandora di una nuova serie di conflitti locali, di diversa estensione e natura, che hanno fortemente complicato lo scacchiere internazionale e fatto comparire nuove tipologie di guerra.
Si è ampiamente affermata la forma della «guerra asimmetrica», ovvero un conflitto armato in cui un contendente possiede una superiorità tecnologica inconfutabile sull’altro: anche il Vietnam in parte lo fu (si svolse però dentro un orizzonte tattico-tecnologico anteriore alla Rma), ma certamente meno della guerra del Golfo del 1991, in cui l’aviazione americana fu in grado di sterminare letteralmente l’esercito iracheno senza subire praticamente alcuna perdita.
All’estremo opposto si collocano guerre per così dire neotribali, dove si intrecciano divisioni etniche e religiose ed interessi economici paramafiosi (sebbene sullo sfondo ci siano spesso i disegni strategici delle grandi potenze industriali); conflitti nati spesso all’interno di failed States, paesi dove l’autorità statale, venuto meno il quadro di riferimento esterno del bipolarismo russo-americano, è collassata nella frammentazione politico-territoriale. In essi si confrontano forze armate di natura composita: non solo eserciti «tradizionali», dipendenti da autorità nazionali formalmente riconosciute, ma anche, o piuttosto, spezzoni di eserciti nati dalla divisione di organismi militari nazionali, formazioni armate di carattere paramilitare e paramafioso, legate a gruppi politici o a «signori della guerra» con vario grado di legittimità istituzionale e capacità belliche, spesso in complessi rapporti con servizi segreti di altri paesi.
Ma anche queste complicate categorie non riescono a cogliere del tutto la complessità del reale: molte guerre degli ultimi tre decenni si configurano come guerre ibride, in cui convivono elementi della guerra asimmetrica ipertecnologica e delle guerre tribal-mafiose.
Un problema accomuna questi conflitti agli occhi delle popolazioni occidentali: la difficoltà di giustificarne i costi umani. Il tramonto dell’impero sovietico ha posto fine allo schema politico-ideologico-psicologico della guerra fredda e minato alla radice la possibilità di un’ampia legittimazione ideale-morale della scelta bellica. Se ai tempi del Vietnam le autorità potevano ancora sostenere (sebbene in modo già problematico) che il sacrificio di vite umane serviva a difendere il «mondo libero» dal totalitarismo comunista, dopo il 1989 questa argomentazione non è più disponibile.
La Rma, la nuova natura delle guerre e queste difficoltà socio-politico-culturali hanno interagito nel produrre quelle che appaiono come due vere aporie: la guerra «pulita» e la guerra «morale». Grazie alla esaltazione della «professionalità» del personale militare e della dimensione tecnologica dell’attività bellica (la «precisione chirurgica» dei nuovi armamenti, la rapidità degli interventi che evitano il degenerare della crisi, il «controllo totale» del teatro di operazioni, e così via), i paesi occidentali, con gli Stati Uniti in testa, hanno proposto una nuova idea di guerra come attività ipertecnologica e asettica, fatta di «bombe intelligenti» guidate dal laser su obiettivi esclusivamente militari, di attacchi ed incursioni condotte con precisione matematica, di operazioni così sofisticate da apparire quasi virtuali; una guerra da cui fango, sangue, macerie appaiono cancellati, insieme alla possibilità dell’errore umano; una guerra in cui, paradossalmente, sembra possibile vincere senza uccidere.
Ovviamente è una mistificazione. Ma si collega anche ad una nuova connotazione morale «assoluta». Se fino alla prima guerra mondiale i conflitti venivano condotti in nome di una Realpolitik ricoperta dai drappi della retorica patriottico-nazionalista, e la seconda guerra mondiale e la guerra fredda erano state giustificate come guerre di difesa da «minacce» concrete, o come scontri di sistemi politico-culturali contrapposti, nell’epoca della iperpotenza americana e del rifiuto di principio della guerra come strumento di soluzione delle controversie internazionali questo genere di spiegazioni non poteva più essere usato. Ecco allora lo scatto in avanti: la guerra come operazione di «ripristino della giustizia» (intesa in senso assoluto e non come insieme determinato di diritti), addirittura la guerra «umanitaria», condotta nel nome di un valore senza limiti: la difesa dei diritti umani.
Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 George Bush Junior arriverà a codificare questa impostazione parlando di «guerra al terrore» combattuta per sconfiggere gli «evil doers» («operatori del male»), categorie psicologico-morali, prive di quel radicamento territoriale che ancora possedeva – ad esempio – l’«Impero del Male» che Ronald Reagan identificava nell’Unione Sovietica.
In questo quadro è aumentata drasticamente l’importanza della giustificazione dei conflitti agli occhi dell’opinione pubblica. Molto più che in passato le guerre devono essere presentate come «giuste», fondate su precise e documentate esigenze di diritto o di difesa, possibilmente frutto di una scelta non di singoli Stati, ma della comunità internazionale, suggellata da una risoluzione Onu. È quindi aumentata la rilevanza di quella parte dell’informazione sui conflitti che precede lo scoppio concreto delle ostilità e può creare nel pubblico il consenso preliminare all’intervento militare. Attribuire agli avversari la responsabilità di aver «costretto» alla guerra è naturalmente un’antica usanza; ma negli ultimi decenni ciò è diventato ancora più decisivo per giustificare una scelta che ormai è (teoricamente) deplorata anche da chi la compie. La responsabilità dei giornalisti di illustrare e analizzare a fondo gli interessi economici e politici che conducono alla guerra, in modo da consentire ai cittadini di formulare scelte fondate e consapevoli, è quindi aumentata. Con risultati che però sono spesso deludenti, come le guerre in Iraq hanno ampiamente dimostrato.

2. La trasformazione dei media

Tra gli anni ’70 ed ’80 anche il mondo dei media ha subito profonde trasformazioni, innescate da nuove tecnologie. Ed anche questo, entrando in sinergia con la Rma, ha contribuito a cambiare l’informazione di guerra. L’ultimo trentennio del secolo è stato l’epoca d’oro della televisione «tradizionale» analogica e «di massa», la televisione «classica», per così dire, quella divisa in pochi grandi canali generalisti, facenti capo in ogni paese a una manciata di grandi network, che in campo informativo producono telegiornali e trasmissioni di approfondimento seguiti come un rito collettivo da milioni (o decine di milioni) di persone, a orari prefissati, con la conduzione di celeberrimi giornalisti-anchor.
Già forte negli anni ’60, questo genere di televisione (il mass media per eccellenza) ha raggiunto la sua massima influenza negli anni ’70-80, con l’avvento definitivo del colore, la moltiplicazione dei televisori nelle case, la diffusione del telecomando, la messa a punto di trasmissioni via satellite «in diretta», affermandosi definitivamente come la fonte di informazione di gran lunga più influente.
Inseguendo grandi numeri di ascolto (l’audience) la televisione generalista tende però inevitabilmente ad adottare un grado di approfondimento giornalistico piuttosto basso, adatto anche alla gran parte della popolazione non molto scolarizzata. Parallelamente, la messa a punto di un linguaggio visivo sempre più efficace (eccitante, accattivante), basato su ritmi di montaggio rapidi, immagini ad effetto, toni enfatizzati, ha favorito una spettacolarizzazione dell’informazione televisiva, orientandola ancora di più verso temi e notizie che possano «funzionare» in video. In questo contesto si è collocato il lavoro di una nuova generazione di inviati televisivi di guerra, che hanno potuto approfittare di nuove risorse tecniche, a partire dalla tecnologia di ripresa su cassette magnetiche (non più su pellicola come nelle vecchie cineprese) in formato elettronico-analogico, introdotta durante gli anni ’70, che ha aperto nuove possibilità di trasmissione rapida via satellite di immagini e servizi, e di collegamenti in diretta per mezzo di impianti itineranti o di stazioni locali.
La televisione è diventata così definitivamente il veicolo principale dell’informazione di guerra, accentuando gli aspetti contraddittori già emersi in Vietnam. È aumentata la possibilità di portare i conflitti «nelle case degli spettatori», mostrando immagini vivide e attuali, anche nel momento stesso del loro accadere. Ma sono anche aumentati i limiti e i condizionamenti che si nascondono dietro lo schermo ed operano su più livelli.
In primo luogo i grandi network rispondono alle logiche di grandi aziende, sono al centro di complessi intrecci finanziari, dipendono dai grandi inserzionisti pubblicitari, e quindi dagli ascolti; spesso sono legati in vario modo alle istituzioni governative. L’informazione che propongono tende pertanto ad essere condizionata da interessi economici e politici, ad emarginare le posizioni più scomode e alternative rispetto all’establishment, ai partiti di maggioranza e più in generale ai gusti dominanti del pubblico, a risultare, in breve, politicamente moderata e culturalmente conformista.
Gran parte della produzione dell’informazione di massa ha teso a concentrarsi ancor più che in passato in pochi grandi gruppi editoriali e questo ha indebolito il pluralismo. La stampa del primo Novecento si articolava in centinaia di testate quotidiane e periodiche, che coprivano uno spettro ideologico-culturale molto articolato. In Gran Bretagna, ad esempio, esistevano decine di quotidiani e settimanali «per i lavoratori», apertamente orientati a sinistra, letti da milioni di persone, che offrivano punti di vista molto diversi da quelli, ad esempio, proposti dal «Times». Alla fine del secolo, invece, per complessi motivi su cui qui non ci si può soffermare, la stampa quotidiana di sinistra risulta quasi scomparsa, mentre la quasi totalità dell’informazione televisiva, cruciale nella formazione dell’opinione pubblica, consiste in pochi telegiornali, politicamente oscillanti attorno ad un asse centrista, quando non moderato-conservatore. La concentrazione di gran parte dell’informazione in un numero relativamente ristretto di network televisivi, inoltre, rende potenzialmente più facile il suo controllo.
Ma l’informazione televisiva presenta anche altri limiti e pericoli intrinseci. Le tecnologie televisive analogiche richiedono impianti di trasmissione costosi e ingombranti, che non possono essere spostati con facilità, e questo paradossalmente finisce a volte col limitare il raggio d’azione del giornalista. Specialmente quando è chiamato a fornire servizi o collegamenti giornalieri, per un reporter può essere impossibile allontanarsi troppo dalla stazione di trasmissione che deve utilizzare. Combinandosi con una crescente abitudine del pubblico ad un’informazione colorata, veloce, spettacolarizzata, questo può condurre a un giornalismo televisivo poco approfondito, che si concretizza in larga misura nella descrizione di avvenimenti contingenti, scarsamente contest...

Indice dei contenuti

  1. I. Dalla guerra «napoleonica» al primo «reporter di guerra»
  2. II. Luigi Barzini e la nuova guerra industriale
  3. III. Giornalismo, colonialismo, occidentalismo
  4. IV. La prima guerra mondiale
  5. V. La guerra civile spagnola
  6. VI. La seconda guerra mondiale
  7. VII. Guerra fredda e guerre calde
  8. VIII. La guerra del Vietnam
  9. IX. Dopo il Vietnam
  10. X. Le nuove guerre balcaniche
  11. XI. La «guerra al terrore»: l’Afghanistan
  12. XII. La «guerra al terrore»: l’Iraq
  13. XIII. Prospettive
  14. Bibliografia essenziale