Il grande inganno del Web 2.0
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Il grande inganno del Web 2.0

  1. 192 pagine
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Il grande inganno del Web 2.0

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In un'Internet di massa, trovare ciò di cui si ha bisogno è sempre più difficile, ma ancor più difficile è valutarne l'attendibilità. È il prodotto dell'ideologia del Web 2.0 – quello di blog e social network – che preconizza la scomparsa degli intermediari dell'informazione, dai giornalisti alle testate di prestigio, dai bibliotecari agli editori, presto sostituiti dalla swarm intelligence, l'intelligenza delle folle: chiunque può e deve essere autore ed editore di se stesso. Il 'mondo Web 2.0', dove nessuno è tenuto a identificarsi e chiunque può diffondere notizie senza assumersene la responsabilità, realizza davvero un sogno egualitario, o piuttosto un regno del caos e della deriva informativa?Leggi il ricordo di Gino Roncaglia per Fabio Metitieri

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Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788858102190

1. I nativi digitali come scoiattoli incapaci

Quando tutto è Google

Circa un anno fa ha fatto scalpore la pubblicazione di un rapporto britannico (Ucl 2008) che ha distrutto senza mezzi termini il mito della bravura della «Google generation», cioè di giovani che vengono spesso chiamati anche «nativi digitali», perché non hanno mai conosciuto un mondo senza Internet, oppure «V generation», la generazione virtuale, e che ora, cresciuti, si trovano nelle più svariate professioni o nelle università, come studenti o come ricercatori. L’analisi è molto accurata, frutto di una collaborazione tra l’University College London, la prestigiosa British Library e il Joint Information Systems Committee (Jisc), un consorzio inglese di enti dedicati all’istruzione e alla ricerca. Il rapporto che ne è scaturito merita un’attenta lettura e parte da una rassegna approfondita di tutti i lavori finora pubblicati in merito – un’abitudine, questa dell’analisi della letteratura già esistente, che l’ideologia dell’effimero predicata dalla teoria del blogging ha quasi cancellato – per passare poi alla discussione dei risultati dell’osservazione diretta, per cinque anni, di come gli studenti e i ricercatori britannici usino le biblioteche e le risorse bibliotecarie on line.
Il panorama è desolante. Google domina il mondo di questi giovani, che lo usano nell’89% dei casi, a scapito dei servizi che le biblioteche hanno allestito per loro pagando costosi abbonamenti a pubblicazioni e archivi. Le strategie di ricerca usate su Google sono molto elementari, con l’impiego di poche parole chiave e quindi con risultati che sono tutt’altro che ottimali, eppure gli studenti e i ricercatori inglesi sono soddisfatti da quanto hanno trovato nel 90% dei casi. I documenti reperiti sono spesso non pertinenti e a volte poco attendibili, per cui il vero motivo di tanta beata contentezza dei giovani studiosi è semplice: nessuno di loro, o quasi nessuno, sa valutare la pertinenza, la rilevanza e l’attendibilità di un documento.
La necessità di valutare una fonte spesso non è neppure presa in considerazione, dato che il materiale reperito non viene quasi mai letto per intero. In media, un giovane ricercatore legge un libro digitale per non più di quattro minuti e una rivista on line per otto minuti, con modalità di lettura che non sono sequenziali. La maggior parte del tempo è dedicata alla ricerca dei documenti e non al loro esame, con comportamenti che questo rapporto inglese definisce «da scoiattolo», perché tutto quanto viene trovato è salvato sul disco rigido, dove in molti casi rimarrà senza essere mai aperto. Da un certo punto di vista, secondo il rapporto, i giovani universitari hanno un’attitudine non molto diversa da quella rilevata da altri lavori nel caso dei bambini di meno di 13 anni, che si ritengono soddisfatti quando hanno trovato on line qualche testo contenente le parole chiave usate per la ricerca, quindi lo stampano e considerano concluso il loro compito.
Tutto è Google, perché i giovani non hanno una corretta mappa mentale di Internet come di un mezzo dove si trovano risorse fornite da diversi soggetti: qualsiasi cosa reperita, secondo loro, è on line grazie al motore di ricerca e la Rete, in pratica, coincide con Google stesso. I bibliotecari forse devono recitare qualche mea culpa, perché comunicano in modo inefficace con i loro studenti e ricercatori, visto che persino le risorse di un archivio a pagamento, se trovate con Google, vengono percepite dai giovani come gratuite e rese disponibili soltanto grazie al motore. Un altro dato negativo che emerge da questo lavoro è la convinzione che in Internet ci sia tutto, per cui oltre a Google non è necessario fare altre ricerche e i vecchi documenti di carta che le biblioteche ancora posseggono sono del tutto inutili.
In effetti, anche in Italia chi lavora nelle università parla spesso di una generazione di studenti che per la maggior parte è poco esperta di Rete e che di frequente si stupisce quando le viene detto che diverse informazioni non sono ancora presenti in Internet, che molte altre ci sono ma non sono gratuite e, cosa che per i giovani risulta ancor più sorprendente, che molti dei documenti presenti on line possono essere inattendibili o comunque inutili per un determinato lavoro.
L’impreparazione è aggravata dall’isolamento visto che, sempre secondo questo rapporto, oggi le biblioteche e le aule sono frequentate molto di rado e le ricerche si svolgono da casa, senza avere l’opportunità di consultare i bibliotecari di reference e di confrontarsi e discutere con gli altri. L’ideologia del Web 2.0, rispetto a questo punto, sottolinea la possibilità di costruire reti sociali on line, di creare comunità e contenuti, con una comunicazione a distanza. Secondo il rapporto Ucl risulta falso pure questo, dato che, sui temi bibliotecari, fra gli studenti il 95% non ha nessuna intenzione di produrre alcun contenuto in Rete e ben il 90% dichiara di non nutrire alcuna curiosità per le discussioni o per i materiali prodotti in Internet dagli altri.
È spontaneo chiedersi, dunque, se Google ci renda stupidi, una domanda che del resto è stata al centro della copertina del numero di luglio-agosto 2008 del prestigioso mensile culturale statunitense «The Atlantic» (Carr 2008). La risposta, secondo il rapporto Ucl, non è ottimista: nel 2017, quando Internet sarà ubiquitaria e di uso comune per tutti o quasi, vi saranno molti più documenti digitali, con un sapere accessibile molto più facilmente, e le comunità di studiosi saranno internazionali, con collaborazioni più strette e più intense; tutte cose importanti e positive, ma vi sarà anche un minor rigore scientifico e non solo il mondo accademico e della ricerca ma tutta la nostra società diventerà «un po’ più stupida». Nell’immediato gli esperti britannici non vedono facili rimedi possibili perché, dicono, quando i giovani entrano nelle università è ormai troppo tardi per modificare la loro formazione e le loro abitudini.

I docenti contro i blog e contro il plagio

Un’altra ricerca abbastanza recente, questa volta sponsorizzata da Ebrary (2007), un grande distributore statunitense di documenti elettronici, ha cercato di capire in che misura i bit stiano sostituendo la carta nel mondo accademico, e quali risorse on line siano accettate più facilmente dai docenti, come materiale di studio o come fonti che i loro allievi possano usare e citare nelle tesine e nelle tesi.
Il successo dei testi digitali era stato preconizzato fin dall’inizio degli anni Duemila, se non prima, ma di fatto la loro avanzata continua a essere lenta, anche nelle università e nei centri di ricerca. Il questionario di Ebrary, somministrato a bibliotecari e docenti (in tutto 900 persone appartenenti a 300 istituzioni diverse, il 50% delle quali negli Stati Uniti), ha rivelato una buona affermazione delle risorse digitali, che raccolgono il 50% delle preferenze, mentre la carta è preferita solo nel 18% dei casi e un buon 32% di intervistati è ancora incerto. Tra i corsi universitari, il 50% usa almeno qualche testo di carta e il 50% usa almeno qualche testo digitale, con un perfetto pareggio. La carta viene scelta più spesso per le monografie, nel 70% dei casi, mentre i periodici sono elettronici nell’80% dei casi.
La diffusione ancora relativamente limitata dei libri elettronici è dovuta principalmente all’esiguità delle collezioni finora disponibili, ma non solo: la carta è considerata più facile da leggere, annotabile, portabile e in sintesi utilizzabile da tutti senza bisogno di conoscenze tecniche o di un hardware più o meno costoso. Secondo i docenti – che evidentemente non amano usare più finestre sul desktop del computer – solo con la carta si possono tenere aperti ed esaminare diversi documenti contemporaneamente, i contenuti stampati sono più attendibili e più stabili nel tempo, e per gli studenti concentrarsi sulla carta è più facile, tanto è vero che i documenti digitali, molto spesso, vengono stampati per essere letti con maggiore comodità. Lavorando con la carta, sempre secondo gli intervistati, è minore anche il rischio di plagio.
Il digitale ha altri vantaggi ed è considerato più aggiornato, nonché più accessibile e quindi indispensabile per l’insegnamento a distanza. Il risultato più interessante, tuttavia, è dato dal tipo di risorse on line che è bene accetto ai docenti e ai bibliotecari. Come materiale didattico, fra il 75% e l’87% dei docenti preferisce i siti web istituzionali, governativi e professionali, i periodici accademici e i database più tradizionali. Al contrario, i blog e i wiki vengono utilizzati nei corsi solo in percentuali che variano tra il 18 e il 30% dei casi, e vengono superati persino dalle vecchie pagine web personali, che si attestano sopra il 50%. Quando poi si passa dal materiale didattico alle fonti da consigliare agli studenti per le tesine e le tesi, gli universitari sono molto più restrittivi e quasi nel 90% dei casi indicano come risorse solo i periodici elettronici accademici e i siti web più istituzionali e ufficiali, mentre meno del 20% suggerisce l’uso di blog e wiki. Addirittura, blog e wiki sono vietati esplicitamente dal 44% dei docenti intervistati. Quanto a Google, è tollerato ma non troppo e solo il 50% dei professori e dei bibliotecari ne ha una visione del tutto positiva. Contrariamente ai risultati della ricerca di Ucl, però, in questo caso circa l’80% del campione è convinto che le risorse elettroniche della propria università siano ben conosciute dagli studenti.
Le accuse più decise vengono rivolte all’insufficiente information literacy dei giovani i quali, secondo l’84% dei professori e dei bibliotecari, non sanno affatto come valutare le fonti di informazione che devono usare. Per il 73% del campione, gli studenti sfruttano per i loro lavori fonti inappropriate senza rendersene conto. Insomma, almeno tre giovani su quattro, per non dire quattro su cinque, raccattano tutto, come gli scoiattoli, e lo usano senza alcun criterio.
Anche i docenti non sono del tutto privi di responsabilità di fronte all’avanzare del digitale. Nelle interviste di Ebrary, circa il 90% di loro si assolve dalla possibile colpa di essere poco tecnologico e dichiara di avere una buona o ottima preparazione informatica. Ma la preoccupazione per la facilità con cui in Internet, grazie al copia e incolla dei testi, è facile plagiare il lavoro altrui di recente ha visto proprio gli universitari indicati come cattivi esempi, con un’inchiesta della rivista statunitense «Nature» che ha riscontrato un notevole aumento del numero degli accademici che pubblicano in più articoli i risultati di una stessa ricerca, di norma la propria ma qualche volta anche copiando il lavoro dei colleghi (Errami, Garner 2008). Si potrebbe dedurre che il copia e incolla sia una brutta abitudine che è sempre esistita e che Internet la stia soltanto amplificando, ma alcuni studiosi sostengono che è proprio Internet ad aver modificato profondamente le nostre abitudini, persino il nostro modo di pensare, come si vedrà nel prossimo paragrafo.
Come commento a queste indagini, relative a paesi dove la conoscenza di Internet è senza alcun dubbio più comune e più avanzata che in Italia, quali il Regno Unito e gli Stati Uniti, si può solo prendere atto con sconforto della situazione di desolazione in cui rischiano di scivolare la ricerca e più in generale tutta la nostra conoscenza.
Con la progressiva avanzata della filosofia del cosiddetto Web 2.0, dove le distinzioni, come si vedrà, sono ancor più difficili da fare, il rischio è destinato ad aumentare, a meno che si riesca in qualche modo da un lato a inserire un po’ d’ordine nel caos esistente on line e dall’altro lato, cosa più importante, a definire, a far crescere e a diffondere una cultura di maggiore information literacy. Invece di muoversi in questa direzione, la preoccupazione principale per molte biblioteche sembra quella di diventare competitive con la filosofia di Google e di servizi come la rete sociale Facebook, offrendo interfacce sempre più semplici, una disponibilità continua dei servizi e soprattutto risposte rapidissime e concise. Le biblioteche, messe in discussione dall’avanzata di Internet e di un mondo dove i contenuti e la loro classificazione possono essere prodotti dagli utenti stessi, pensano di doversi allineare alla strategia di chi offre «una gratificazione istantanea a ogni click» (Ucl 2008), con risultati che potrebbero portare a un ulteriore livellamento verso il basso sia della preparazione degli studenti sia della conoscenza in generale.

Internet: strumento neutro o cattiva maestra?

Sembrano passati secoli dai tempi in cui Internet veniva usata da una sparuta minoranza di persone ed era considerata inutile da tutte le altre, mentre pochi ricercatori cercavano di promuovere la Rete come un mezzo che sarebbe presto diventato indispensabile per comunicare e per produrre, pubblicare e conservare l’informazione.
Oggi tutto è cambiato e Internet è così pervasiva che anche i grandi media si chiedono se saremo ancora capaci di leggere un intero libro, come scrivono Nicholas Carr (2008) su «The Atlantic» e Motoko Rich (2008) su «The New York Times». In particolare, Carr si domanda se Internet ci abbia cambiato la mente, mentre Rich, con un certo ottimismo, parla della diffusione di un nuovo modo di leggere e di scrivere che viene adottato da adolescenti che altrimenti passerebbero gran parte del loro tempo guardando in maniera passiva la televisione. Questo è un dibattito molto lungo, in effetti, cominciato fin da quando Clifford Stoll (1995), un informatico diventato tecnofobo, aveva scritto che «gli studenti universitari che usano Internet più di frequente non migliorano il loro modo di scrivere né la capacità di organizzare e di articolare il loro pensiero», mentre in Italia gli aveva fatto eco due anni dopo l’urbanista e semiologo Tomás Maldonado (1997), sostenendo che in Rete «attori sociali radicalmente depersonalizzati» sono costretti a esprimersi in un limitato repertorio di «frasi prefabbricate». Dal mio punto di vista, si tratta di una discussione da chiudere (almeno per ora e in attesa di nuovi riscontri), seguendo l’ottimismo del linguista David Crystal (2006) che per l’inglese, una lingua che on line viene martoriata molto più della nostra, ha sostenuto che i diversi linguaggi che si stanno formando in Rete non appiattiranno la nostra comunicazione ma la arricchiranno di nuove sfumature.
Gli attacchi a Internet come cattiva maestra non si sono limitati al linguaggio e alla capacità di scrivere, ma hanno riguardato più in generale i risultati conseguiti dai giovani navigatori nell’apprendimento o addirittura l’esistenza della «Internet addiction», una dipendenza dalla Rete che, come una vera droga, può distruggere la vita di una persona (Young 1996, 1998). I vari spauracchi della dipendenza da Internet, o più di recente dai cellulari, vengono ciclicamente rispolverati con grande solerzia dai mass media e riemergono abbastanza spesso, ora negli Stati Uniti ora in Europa, ma non hanno mai trovato riscontri scientifici e, cosa più importante, tra i propri amici o negli ospedali psichiatrici non si vedono mai i milioni o anche solo le centinaia di migliaia di malati che esisterebbero secondo le ricerche che sostengono la gravità e la recidività di questa patologia (Block 2008; Metitieri 2008d). In un suo recente rilancio, da parte delle agenzie di stampa e del britannico «Daily Mail» (un giornale non proprio autorevolissimo), la dipendenza è stata chiamata «discomgoogolation», sottolineandone l’astinenza per Google. Ne soffrirebbe addirittura il 44% degli inglesi («Daily Mail» Reporter 2008), il che sarebbe una cifra enorme. Inutile dire che la notizia è stata ripresa immediatamente e con un certo rilievo da molte grandi testate italiane, da «la Repubblica» a «Panorama.it», da «il Giornale» a Mediablog, il blog di Marco Pratellesi sul sito del «Corriere della Sera».
Sul versante dell’apprendimento ha avuto un certo successo un libro di Marc Prensky (2006), un esperto di didattica e di formazione a distanza che sostiene che i nativi digitali – in particolare quelli che hanno iniziato le loro esperienze digitali molto presto, sulle console di gioco – hanno migliori capacità di coordinare i movimenti della mano guidati da un’immagine su uno schermo, cosa importante per alcune operazioni chirurgiche di oggi. Sempre Prensky ha osservato che i giochi, nelle versioni on line, su Internet, costituiscono un’attività sociale e danno ai giovani l’opportunità di collaborare con persone di tutto il mondo, simulando diverse situazioni; grazie a questo i nativi potrebbero diventare più bravi degli altri in diverse professioni, anche come architetti, avvocati o imprenditori.
Sulla positività o negatività della Rete resta una sola questione aperta, che forse è ancora troppo presto per risolvere: di fatto, la personalizzazione dell’informazione, con la creazione di tanti piccoli micro-mondi, ciascuno diverso da quelli degli altri, rischia di privare la società, in tutte le sue comunità, di una conoscenza condivisa. L’era della televisione fatta da pochi canali comuni, malgrado tutti i suoi difetti, in diversi paesi ha unito le popolazioni sotto il segno di un unico linguaggio, di usi e ...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. 1. I nativi digitali come scoiattoli incapaci
  3. 2. Il Web 2.0 e gli user generated content
  4. 3. La conversazione perduta dei blog
  5. 4. I dolori della stampa tradizionale e i new media
  6. 5. Il caos che collabora: i wiki e le folksonomie
  7. 6. Le biblioteche, la filosofia open e i blog
  8. 7. I difetti dei motori e i pregi delle persone
  9. 8. Old media e new media allo sbaraglio
  10. Conclusioni: come valutare e come pubblicare
  11. Riferimenti bibliografici