Filosofia del terrore
eBook - ePub

Filosofia del terrore

Dialoghi con Jürgen Habermas e Jacques Derrida

  1. 234 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Filosofia del terrore

Dialoghi con Jürgen Habermas e Jacques Derrida

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

Il XXI secolo è già segnato dal trauma del terrorismo. Che cosa si nasconde dietro al fondamentalismo che lo alimenta e riproduce? Una reazione all'illuminismo e alla modernità, due capisaldi della filosofia occidentale, oppure una crisi autoimmune della società globalizzata? Habermas e Derrida, entrambi a New York e incalzati da Giovanna Borradori, si ritrovano in un lucido esercizio della ragione e un appassionato appello alla giustizia.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Filosofia del terrore di Giovanna Borradori in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Scienze sociali e Cultura popolare. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788858119976

Un dialogo con Jacques Derrida1

Giovanna Borradori L’11 settembre ci ha dato l’impressione di essere un evento di portata mondiale, un «major event», come si dice qui negli Stati Uniti, forse uno degli avvenimenti storici più importanti ai quali assisteremo nella nostra vita, in particolare per coloro tra di noi che non hanno vissuto la seconda guerra mondiale. Lei è d’accordo?
Jacques Derrida Lei dice «11 settembre», oppure, dato che siamo d’accordo per parlare due lingue, «September eleventh». Dovremo ritornare più tardi su questo problema della lingua. E su questa denominazione: una data, niente di più. Quando lei dice l’«11 settembre» è già una citazione, non è vero? Per invitarmi a parlarne lei ricorda, come tra virgolette, una datazione che invade il nostro spazio pubblico e la nostra vita privata da cinque settimane. Qualche cosa fa epoca [fait date], direi in francese, segna una data nella storia: è questo l’aspetto che colpisce di più, la portata stessa di ciò che è almeno sentito, in maniera apparentemente immediata, come un evento significativo, singolare, «unprecedented»2, come dite qui. Dico bene «apparentemente immediato» poiché proprio questo «sentimento» è meno spontaneo di quanto sembri: esso è in larga misura condizionato, costituito, se non costruito, in ogni caso mediatizzato da una formidabile macchina tecno-socio-politica. In ogni caso, «fare epoca» suppone che «qualche cosa» accada per la prima e l’ultima volta, «qualche cosa» che non si sa ancora ben identificare, determinare, riconoscere o analizzare, ma che ormai dovrebbe rimanere indimenticabile: un evento incancellabile nell’archivio comune di un calendario universale – supposto universale perché non ci sono, in tutto ciò, e su questo voglio insistere sin dall’inizio, che supposizioni e presupposizioni. Limitate e dogmatiche oppure considerate con attenzione, organizzate, calcolate, strategiche. O tutte quante insieme. In verità, l’indice puntato su questa data, la denominazione nuda e cruda, il deittico minimale, ovvero la mira minimalista di questa datazione significa anche altre cose. Che cosa? Ebbene, che forse non disponiamo di nessun concetto e di nessun significato per chiamare altrimenti questa cosa che è appena accaduta, questo supposto «evento». Atto di «terrorismo internazionale», per esempio, e ci ritorneremo, è tutto meno che un concetto rigoroso e soddisfacente per cogliere la singolarità di ciò di cui cercheremo di parlare. «Qualche cosa» ha avuto luogo, abbiamo la sensazione di non averla vista arrivare, ed è una «cosa» a cui fanno seguito innegabilmente delle conseguenze. Ma anche questo, il luogo e il significato di questo «evento», rimangono ineffabili, come un’intuizione senza concetto, un’unicità senza generalità all’orizzonte, persino senza orizzonte, quasi fosse al di là della portata di un linguaggio che confessa così la propria impotenza e, in fondo, si limita a pronunciare meccanicamente una data, a ripeterla come una sorta di incantesimo rituale e al tempo stesso un poema di scongiuro, una litania giornalistica, un ritornello retorico che confessa di non sapere di cosa si stia parlando. Le 11 septembre, September eleventh, 11 settembre: alla fine, non si sa esattamente cosa diciamo o cosa chiamiamo. La brevità della denominazione (September eleventh, 9/11) non risponde dunque solamente a una necessità economica o retorica. Il telegramma di una metonimia – un nome, una cifra – rivela l’inqualificabile riconoscendo che non si riconosce: forse nemmeno si conosce, non si sa ancora qualificare, non si sa di cosa si parla.
Sta qui il primo effetto, indubitabile, di ciò che si è prodotto (che ciò fosse calcolato, ben calcolato o meno), proprio l’11 settembre, a qualche passo da qui: lo si ripete e bisogna ripeterlo, ed è tanto più necessario in quanto non si sa bene ciò che si denomina, quasi fosse un doppio esorcismo: da una parte per scongiurare magicamente la «cosa» stessa, la paura e il terrore che essa ispira (la ripetizione ha sempre l’effetto protettivo di neutralizzare, attenuare, allontanare un trauma, e ciò è vero per la ripetizione delle immagini televisive delle quali riparleremo), d’altra parte per negare, nel modo più aderente possibile a questo atto linguistico e a questa enunciazione, l’impotenza a denominare in maniera appropriata, a caratterizzare, a pensare la cosa in questione, a portarsi al di là del semplice deittico della data: ecco, qualche cosa di terribile ha avuto luogo l’11 settembre, ma in fondo non si sa che cosa. Perché si ha un bell’indignarsi davanti alla violenza, si ha un bel deplorare sinceramente, come io faccio con tutti, il numero dei morti, ma in fondo non riusciremo a far credere a nessuno che è di questo soltanto che si tratta. Vi ritornerò ancora: per il momento non facciamo altro che prepararci a dirne qualcosa.
Sono a New York ormai da tre settimane (lo stesso valeva per la Cina, dove mi trovavo l’11 settembre, poi per Francoforte, il 22 settembre)3: non soltanto è impossibile, ma si capisce chiaramente, ovvero ci viene fatto capire, che è vietato, che non ci viene dato il diritto nemmeno di cominciare a parlare di tutto quello che vogliamo, soprattutto in pubblico, senza rendere omaggio a quest’obbligo e senza fare riferimento, sempre un po’ ciecamente, a questa data. Io, lo confesso, mi sono sottomesso regolarmente a quest’ingiunzione; e in una certa maniera lo faccio di nuovo, impegnandomi con lei in questo colloquio amichevole, ma sempre tentando di appellarmi, al di là della commozione e della compassione più sincere, a una serie di domande e a un «pensiero» (tra le altre cose un vero pensiero politico) di ciò che, così almeno sembra, è appena accaduto a due passi da qui, a Manhattan oppure non lontano da qui, a Washington, l’11 settembre.
Credo sempre nella necessità di essere anzitutto attenti a questo fenomeno linguistico, di denominazione e datazione, e alla compulsione a ripetere (al contempo retorica, magica e poetica). A quello che essa significa, traduce o tradisce. Non tanto per chiudersi nel linguaggio, come alcune persone frettolose vorrebbero far credere, ma al contrario per cercare di comprendere ciò che succede al di là del linguaggio, e che spinge a ripetere senza fine e senza sapere di che cosa si parli, precisamente là dove il linguaggio e il concetto trovano i loro limiti: «11 settembre, le 11 septembre, September eleventh, 9/11».
Bisogna dunque tentare di saperne di più, bisogna essere pazienti e conservare la propria libertà per cominciare a pensare questo primo effetto del cosiddetto evento: da dove ci arriva, come ci viene imposta questa ingiunzione che è essa stessa minacciosa? Come si sta imponendo su di noi? Chi o cosa ci dà quest’ordine intimidatorio? (qualcun altro definirebbe questo imperativo addirittura terrorizzante, se non terroristico): chiamate, ripetete, ri-nominate l’«11 settembre», «September 11th», laddove in fondo non sapete ancora ciò che dite e non pensate ancora a ciò a cui vi riferite in questo modo.
Sono d’accordo con lei: senza alcun dubbio, questa «cosa», l’«11 settembre», «ci ha dato l’impressione di essere un major event»4. Ma che cos’è una impressione in questo caso? E un evento? E soprattutto un «major event»? Prendendola in parola, vorrei sottolineare più d’una cautela. Lo vorrei fare in uno stile apparentemente «empirista», ma guardando al di là dell’empirismo. Senza dubbio, direbbe letteralmente un empirista del XVIII secolo, c’è stata una «impressione» ed è l’impressione di ciò che lei chiama, non a caso in inglese, un «major event». Insisto sull’inglese perché è la lingua che si parla qui, a New York, sebbene non sia né la sua, né la mia; ma anche perché l’ingiunzione viene innanzitutto da un luogo dove l’inglese domina. Non dico questo solamente perché gli Stati Uniti sono stati presi di mira, colpiti o violati sul loro territorio per la prima volta in questo secolo5, e dopo quasi due secoli, cioè dal 1812, ma perché l’ordine mondiale che si è sentito così preso di mira da questa violenza è dominato in larga parte dall’idioma anglo-americano, il quale si lega in maniera indissolubile al discorso politico dominante sulla scena mondiale, dal diritto internazionale alle istituzioni diplomatiche, dai media alla più grande potenza tecno-scientifica, capitalistica e militare. E qui si tratta proprio dell’essenza enigmatica, ma anche critica di quest’egemonia. Con critica, intendo un’egemonia al contempo decisiva, potenzialmente decisoria, risolutiva e in crisi: oggi più vulnerabile e minacciata che mai.
Che sia o no giustificata, questa «impressione» è in sé un evento, non bisogna mai dimenticarlo, soprattutto quando, certo in maniera differenziata, essa costituisce un effetto propriamente mondiale. La «impressione» non si lascia dissociare da tutti gli affetti, le interpretazioni, le retoriche che, al contempo, l’hanno resa oggetto di riflessione, l’hanno comunicata, «mondializzata», ma anche e soprattutto formata, prodotta e resa possibile. La «impressione» assomiglia quindi alla «cosa stessa» che l’ha prodotta. Anche se la cosiddetta «cosa» non si riduce a questo. Anche se, quindi, l’evento non si riduce a questo. L’evento è fatto della «cosa» (ciò che accade) e dell’impressione (allo stesso tempo «spontanea» e «controllata») che la «cosa» dà, lascia o fa. Diciamo che l’impressione è «informata» nel doppio senso di questa parola: un sistema predominante le ha dato forma e questa forma viene fatta passare attraverso una macchina d’informazione organizzata (linguaggio, comunicazione, retorica, immagine, media ecc.). Questo dispositivo è fin dall’inizio politico, tecnico, economico. Ma si può, e credo si debba (è un dovere al contempo filosofico e politico) distinguere tra il presunto fatto bruto, la «impressione» e l’interpretazione. Senza dubbio è pressoché impossibile, lo riconosco, dissociare il fatto «bruto» dal sistema che ne produce la «informazione». Ma bisogna spingersi il più lontano possibile nell’analisi. Per produrre un «major event» non è sufficiente, ahimè!, ed è vero da sempre, assassinare in pochi secondi più di 3000 persone, e soprattutto dei «civili», utilizzando una cosiddetta tecnologia avanzata. Si potrebbero trarre molti esempi dalle guerre mondiali (e lei ha precisato bene che questo evento sembra ancora più importante a coloro i quali «non hanno vissuto la seconda guerra mondiale»), ma anche dopo queste, si possono segnalare omicidi di massa avvenuti in pochi istanti, ma che non sono stati registrati, interpretati, sentiti, presentati come «major events». Esempi questi che non hanno dato, non a tutti in ogni caso, la «impressione» di costituire delle catastrofi indimenticabili.
E allora bisogna domandarsi perché, e distinguere tra due «impressioni»: da una parte la compassione per le vittime e l’indignazione per la carneficina; la tristezza e la condanna dovrebbero essere senza limite, incondizionate, di principio; questo primo gruppo di impressioni rispondono ad un «evento» innegabile, al di là di ogni simulacro e di ogni possibile virtualizzazione e non solo rispondono con quello che potremmo chiamare il cuore ma vanno al cuore dell’evento; dall’altra parte l’impressione interpretata, interpretativa, informata, la valutazione condizionata che ci fa credere che si tratti di un major event. La credenza, il fenomeno del credito e dell’accreditazione, ecco una dimensione essenziale della valutazione, persino della datazione, ovvero dell’inflazione compulsiva della quale parliamo. Distinguendo l’impressione e la credenza faccio sempre come se privilegiassi il linguaggio dell’empirismo inglese che avremmo torto di disdegnare in questa sede. Le questioni filosofiche rimangono dunque aperte, a meno che non si riaprano in maniera nuova e originale: che cos’è un’impressione? Che cos’è una credenza? Ma soprattutto: che cos’è un evento degno di questo nome? E che cos’è un «major event», cioè un «evento» ancor più «evenemenziale» che mai? È forse un evento che testimonierebbe, in maniera esemplare o iperbolica, l’essenza stessa dell’evento, o addirittura di un evento al di là dell’essenza? Potrebbe davvero essere considerato un «major event» quello che si conforma ancora a un’essenza, a una legge, a una verità o addirittura ad un concetto dell’evento? Un «major event» dovrebbe essere tanto imprevedibile e dirompente da creare scompiglio sino all’orizzonte del concetto o dell’essenza a partire dal quale si crede di riconoscere un evento come tale. Ragion per cui, quando si tratta di pensare l’evento, le questioni «filosofiche» restano aperte e forse addirittura al di là dalla filosofia stessa.
G.B. Intende «evento» nel senso di Heidegger?
J.D. Senza dubbio, ma, molto curiosamente, lo intendo proprio nella misura in cui il pensiero dell’Ereignis, in Heidegger, non è rivolto solamente all’appropriazione del proprio (eigen), ma anche a una certa espropriazione che Heidegger nomina Enteignis. Il decorso dell’evento, ovvero ciò che nel suo decorso si apre e al contempo resiste all’esperienza, consiste, mi sembra, in una certa inappropriabilità di ciò che accade. L’evento è ciò che accade [arrive] e che, accadendo [en arrivant], giunge [arrive] a sorprendermi, a sorprendere e a sospendere la comprensione: l’evento è, in primo luogo, ciò che in primo luogo io non comprendo. Ancor meglio, l’evento è in primo luogo il fatto che io non comprenda. Esso consiste in ciò che io non comprendo: ciò che io non comprendo e in primo luogo che io non comprenda, il fatto che io non comprendo: la mia incomprensione. Ecco il limite, al contempo interno e esterno, su cui sarei tentato di insistere qui: sebbene l’esperienza di un evento, il modo con il quale ci colpisce, richieda un movimento di appropriazione (comprensione, riconoscimento, identificazione, descrizione, determinazione, interpretazione a partire da un orizzonte di anticipazione, sapere, denominazione ecc.), sebbene questo movimento di appropriazione sia irriducibile e inevitabile, non c’è evento degno di questo nome se non là dove questa appropriazione si estingue sul bordo di una frontiera. Ma si tratta di una frontiera senza fronte [front] né confronto, una frontiera contro la quale l’incomprensione non sbatte di faccia, poiché essa non ha la forma di un fronte solido: piuttosto scappa, rimane evasiva, aperta, indecisa, indeterminabile. Da qui l’inappropriabilità, l’imprevedibilità, la sorpresa assoluta, l’incomprensione, il rischio di equivoco, la novità non anticipabile, la singolarità pura, l’assenza di orizzonte. Se si accettasse questa definizione minimalista, ma duplice e paradossale, dell’evento, sarebbe possibile affermare che l’«11 settembre» sia stato un evento senza precedenti? Un evento imprevedibile? Un evento in tutto e per tutto singolare?
Nulla mi pare meno certo. Non era impossibile prevedere l’attacco, sul territorio americano, da parte di quelli che vengono chiamati dei «terroristi» (dovremo tornare su questa parola il cui peso politico è tanto greve quanto equivoco) contro un edificio o un’istituzione sensibili, spettacolari, ed estremamente simbolici. Senza nemmeno parlare d...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione
  2. Ringraziamenti
  3. Introduzione. Il terrorismo e l’eredità dell’Illuminismo:Habermas e Derrida
  4. Parte prima Fondamentalismo e terrore
  5. Un dialogo con Jürgen Habermas
  6. Habermas Ricostruire il terrorismo
  7. Parte seconda Autoimmunità, suicidi reali e simbolici
  8. Un dialogo con Jacques Derrida1
  9. Derrida Decostruire il terrorismo