Il caso Wassermann e altri incidenti metafisici
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Il caso Wassermann e altri incidenti metafisici

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Il caso Wassermann e altri incidenti metafisici

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«Se il filosofo deve coltivare il senso della possibilità cantato da Musil, deve costruire mondi e paesaggi mentali con pazienza e a volte temerarietà, restando disponibile a stupirsi del risultato. L'immaginazione è una componente essenziale di questo esercizio, che si accompagna spesso a una impressione di solitudine sconfinata. E in effetti ci sono dei punti di svolta quando si esplorano i paesaggi mentali che si sono costruiti, in cui è come se ci si affacciasse alla finestrella ventosa, intagliata nella pietra, in cima alla torre altissima di una cattedrale in rovina lasciata da un'antica civiltà; sul vuoto di questa solitudine sono in agguato una vertigine e una malinconia.» Wassermann, Antonio Giona, Sally Percival, Johannes Jung sono alcuni dei personaggi che in questi racconti chiedono al lettore di concedere loro il privilegio di esistere per un attimo, di perorare la causa della loro vita impossibile sospesa tra astrazione e disinganno.

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Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788858101445

Wassermann, o dell’amicizia

Quando dovetti presentare al collegio dello Steinhof la mia relazione sul caso Wassermann, dopo che la sparizione del nostro più enigmatico paziente aveva messo in moto un lungo processo di protocolli, pratiche e indagini, di cui il rapporto clinico era una parte certo non secondaria, preferii indicare in sommi tratti che si trattava di una patologia comune, senza entrare nei dettagli della spiegazione, la sola che ai miei occhi avrebbe permesso di dare un senso ai pochi atti manifesti della sua personalità. Non ebbi il coraggio di affrontare l’auditorio austero dei miei colleghi universitari, gli sguardi degli assistenti, la sorpresa degli infermieri; e, diciamolo francamente, l’incomprensione generale che sicuramente avrebbe accolto il mio racconto. Adesso che diversi anni sono passati dal nostro ultimo incontro, avvenuto il giorno precedente a quello della partenza del mio amico – perché tale, in fondo, devo considerarlo: anche se la nostra fu un’amicizia che poté durare un istante, un solo istante –, mi ritrovo con alcuni appunti ai quali ho consegnato le osservazioni sulle tappe salienti della sua degenza, e non credo che questo materiale possa servire per scrivere un articolo accademico, o possa ispirare un’indagine più approfondita. Wassermann è probabilmente morto (ma non so se faccio bene a dire così di lui), e comunque sono sicuro che non gli sarà di nessun incomodo la lettura, che giudico peraltro improbabile, di queste note. Mi decido quindi a dare pubblicità al suo caso, che è per me tuttora fonte di crucci e perplessità a non finire, e al tempo stesso, devo confessarlo, di uno struggente rimpianto.
Dei tratti congeniti di Wassermann dirò solo due cose sulle quali è bene che sin d’ora il lettore sia in chiaro. Si trattava di una grande intelligenza; ed era, evidentemente, un uomo capace delle più intense emozioni, e un uomo che tali emozioni ricercava. Ma questo non si sarebbe potuto capire direttamente dal suo comportamento; è necessario postulare queste due caratteristiche per comprendere appieno il disegno grandioso al quale egli legò la totalità della sua straordinaria esistenza, e che non avrebbe potuto venir concepito da un essere non così felicemente toccato dalla grazia, o appena un poco più meschino. Va aggiunto che molto probabilmente questi due tratti, e questo disegno, sarebbero sfuggiti all’osservatore più attento se il destino non avesse deciso altrimenti; nella fattispecie, se io non avessi incontrato Wassermann in due diversi momenti della mia vita, in cui ebbi la fortuna, e non certo il merito, di fare alcune stupefacenti osservazioni.
La prima volta fu poco prima dell’ultima guerra, quando allo Steinhof si usava ancora la reclusione continua. Mi avevano da poco nominato al Collegio psichiatrico viennese, dove cercavo di terminare un articolo sulle sindromi di K. Mi venne segnalato da un collega il caso curioso di un lungodegente che dopo mesi di silenzio aveva, a intervalli regolari, iniziato a proferire frammenti di discorso piuttosto complessi e coerenti e tuttavia dal contenuto assai bizzarro; a volte vi comparivano parole che sembravano rovesciate. Nessuno avrebbe fatto gran caso al contenuto di queste asserzioni, che sembravano lunghe citazioni da romanzi di fantascienza, se non fosse stata rilevata in esse la comparsa di alcuni nomi di persone tra i quali il mio veniva citato più sovente. La cosa sconcertante, a detta dei medici, era che si trattava di un malato da sempre in isolamento strettissimo, e che non aveva quindi occasione di ricevere informazioni sul mondo esterno. A giudicare dalla cartella clinica, doveva trattarsi addirittura di un illetterato, che la madre aveva tenuto rinchiuso, per vergogna e per ignoranza, in una soffitta della Meyerlingstrasse, ove ella si recava pietosamente una volta al giorno ad accudirlo; e questo andirivieni era continuato fino a che i vicini, decisi a imporre un trattamento d’ufficio, avevano chiamato la guardia cittadina. Mi avevano descritto Wassermann come un giovane robusto, piuttosto pingue, sui venticinque anni – all’incirca la mia età all’epoca. Era silenzioso e riservato, molto distinto nei modi a giudizio delle infermiere, ma vittima di una serie di tic e di mouvements figés che rendevano il suo portamento simile a quello di una marionetta scombinata.
Quando lo vidi capii di trovarmi di fronte a qualcosa che valicava i confini della malattia mentale. Mi accolse con una profonda tristezza negli occhi, una tristezza che mi lasciò un vasto senso di sgomento. Rimase come imbambolato per diversi minuti. Per una trasformazione subitanea dei suoi atti prese di colpo a muoversi verso di me, ora avanti, ora indietro. Non avevo mai visto nessuno camminare in quel modo, accelerando, scattando quando mi sarei aspettato una pausa, un momento di calma. Era chiaro che la mia presenza era ora per lui fonte di gioia, quasi che egli riconoscesse un amico di vecchia data. Fui stupito di questa trasformazione; mi limitai a registrare le sue parole meccanicamente sul taccuino, in modo da poterle studiare con calma al mio rientro in ufficio.
Verso la fine del soliloquio Wassermann era al colmo dell’espressione gioiosa, e quando me ne andai si dipinse sul suo volto un’espressione di immensa sorpresa, che divenne ancora più grande quando gli comunicai che sarei ritornato i giorni successivi a visitarlo. Presi commiato. Dall’esame del taccuino non ricavai che impressioni confuse. Nel suo idioma smozzicato Wassermann mi aveva detto che era felice di rivedermi, che temeva che quello sarebbe stato l’ultimo nostro incontro, e che per l’amor del cielo tenessi a mente, che non dimenticassi mai queste preziosissime parole: «Effi Rosen», disse; e «Sternenberg». Più per dovere professionale che per l’accorato tono della supplica avevo registrato questi due frammenti di linguaggio, due nomi che non mi dicevano assolutamente nulla.
La sua gioia nel parlare con me era altrettanto inesplicabile. Non era un compagno d’infanzia di cui avessi perso le tracce e che mi aveva ritrovato (ero arrivato da poco, e per la prima volta, a Vienna); non era un paziente che mi fosse capitato di incontrare nelle mie peregrinazioni universitarie (e la cartella clinica parlava chiaro: dalla Meyerlingstrasse allo Steinhof un breve perimetro rinchiudeva tutta l’esistenza di Wassermann); nessuno insomma col quale avessi potuto intrattenere un qualsiasi rapporto. Mi ripromettevo di interrogarlo nei giorni seguenti, ma questo non poté verificarsi, per ragioni indipendenti dalla mia volontà. Infatti con il precipitare della situazione politica ero dovuto rientrare in tutta fretta a Berlino, e a poco a poco le incombenze di quei tempi amari mi avevano costretto a sospendere l’attività scientifica. Wassermann era impallidito nei miei ricordi, e con la sua figura anche l’impressione di profondo smarrimento che il nostro incontro aveva suscitato in me s’era smorzata.
Wassermann doveva rientrare a forza nella mia vita alcuni anni più tardi, a guerra ormai finita. Per me era un bel momento, cominciavo ad assaporare i frutti del mio lavoro e avevo occasione di viaggiare spesso. Andavo da un sanatorio all’altro per verificare i risultati della terapia che avevo messo a punto durante la guerra per curare la sindrome di K. Molti direttori delle istituzioni in cui queste costose cure potevano venir somministrate mi invitavano per suggerirmi varianti o semplicemente per discorrere dei progressi di un malato.
Una sera del marzo 1953 mi recai a Zurigo. Dopo il lungo viaggio in treno ero stato condotto a cena all’albergo Schweizerhof dal direttore del sanatorio dello Sternenberg, il vecchio professor Wenger. Ero stanco; sentivo che mi sarei annoiato. Wenger si dilungava su certe fastidiose pratiche per ottenere degli apparecchi atti a sostituire i vecchi trabiccoli per l’elettroshock; la questione non mi interessava punto e fui molto contento di venir lasciato per un attimo da solo a fumare una sigaretta quando Wenger venne chiamato al telefono da un cameriere. Il viaggio era stato faticoso; non desideravo che un momento di tranquillità. Avevo appena avuto il tempo di far scorrere lo sguardo sui vasti saloni dello Schweizerhof, sui muri ricoperti di pesanti drappeggi rossi; il direttore rientrò trafelato dalla hall, e senza curarsi dell’agitazione che non poteva evitare di trasmettere alla sala si diresse verso di me a grandi passi: «Dobbiamo andare, disse, è Wassermann che si è risvegliato e la cerca, questa volta è una crisi grave». All’epoca avevo dimenticato il nome; chiesi di cosa si trattasse; non capivo bene la situazione: forse il paziente di una clinica privata zurighese, diciamo pure di un manicomio, aveva non solo l’interesse, quanto addirittura il potere di far accorrere al suo letto di demente il direttore e proprietario della sua stessa vita, e di fargli trascinare appresso un ospite di un certo riguardo quale io non del tutto a torto credevo di essere?
Uscimmo dal ristorante nella notte fredda; un’auto attendeva con il motore acceso. Wenger era un uomo ansioso e mobile. Mi spiegò concitato che Wassermann aveva a intervalli regolari fatto il mio nome, e per questo la Direzione si era decisa a invitarmi; capii che ero stato vittima di uno stratagemma per attirarmi in quel luogo.
Una trappola escogitata da un pazzo, mi venne fatto di pensare.
Mi trattenni dall’esprimere il mio disappunto a Wenger solo perché appresi che Wassermann pareva conoscere particolari molto precisi della mia vita, e mi stupii non poco nell’apprendere di cosa si trattava.
Egli – così sembrava – parlava di me come se io fossi il direttore dello Steinhof, e raccontava delle mie figlie Eva, Martina e Katia. Quando intesi l’ultimo nome, mentre l’auto saliva veloce lungo le curve dolci dello Sternenberg, credetti di non capire. Katia. Katia era di là da venire, mia moglie era incinta di quattro mesi, e nessuno oltre a noi sapeva dell’attesa né del nome che mia moglie e io avevamo immaginato per la nascitura, scherzando sulla probabilità che fosse una terza femmina. Altrettanto stupefacente era la mia qualifica come direttore dello Steinhof. Proprio in quei giorni avevo presentato la mia candidatura alla più alta carica del Collegio psichiatrico viennese, e proprio perché avevo buone speranze di ottenere il posto mi ero ripromesso di evitare accuratamente ogni divulgazione del mio proposito – una forma abbastanza innocua di scaramanzia, nei confronti della quale ero forse fin troppo indulgente. Dissi tutto ciò a Wenger, macchinalmente. Mi guardò con un’aria molto preoccupata.
Quando entrammo nella stanza dove Wassermann era rinchiuso questi era al massimo dell’eccitazione. Lo riconobbi subito. Ma era molto più grasso di quanto non ricordassi; mi sembrò terribilmente invecchiato. Sudato, la camicia sbottonata, evidentemente era da poco uscito da uno stato di grande crisi, ed era talmente prostrato da riuscire a malapena a muoversi. La mia vista gli procurò una pena evidente, che poté solo a fatica dissimulare con grandi sorrisi. Non appena incontrai il suo sguardo, mi balzò dinanzi agli occhi la visita che avevo effettuato a Vienna prima della guerra; mi ricordai della conversazione sconnessa, del paziente che rovesciava le frasi. Con emozione, ma dovrei dire con orrore, mi vennero alla mente le parole che mi aveva chiesto di annotare come le più importanti della mia e della sua vita: pensai alla supplica di tenere a mente i nomi dello Sternenberg e di Effi Rosen. Eravamo di nuovo uno di fronte all’altro, questa volta nelle stanze asettiche del sanatorio allo Sternenberg; ed Effi, una perfetta sconosciuta all’epoca del mio praticantato allo Steinhof, e il cui nome avevo inteso dalle labbra del pazzo per poi seppellirlo in un blocco di appunti e dimenticarlo, era divenuta mia moglie quattro anni prima. Dopo aver guardato stupito Wassermann, dal fondo del mio sconcerto gli posi, senza alcun riguardo per il suo stato di malato e per la sua chiara spossatezza, la domanda che mi sembrò più logico rivolgergli; gli chiesi seccamente come faceva a conoscere in anticipo certi fatti essenziali della mia vita. Egli disse, una prima volta, e sempre nel tedesco maldestro che gli avevo sentito snocciolare a Vienna, che questa capacità non era che quella della memoria: egli ricordava fatti che mi concernevano, per averli letti sui giornali. Disse questo diverse volte, in modo leggermente differente, a intervalli regolari; io lo interrompevo, mi aspettavo che entrasse nei particolari, e mi spiegasse dove aveva conosciuto mia moglie, e come aveva fatto a convincerla a sposarmi, e come aveva potuto sapere dai giornali il nome di un figlio che ancora non esisteva, ma non vi fu verso di portare la conversazione su un tono ragionevole. Continuò a rispondere la stessa cosa anche dopo che gli chiesi, esasperato, come potevo credere a tante assurdità – come potevo credere che aveva letto questo e quello su tali e talaltri giornali, fatti non ancora accaduti, persone di là da venire! Gli ingiunsi, sibilando un ordine, di dirmi perché mi perseguitava; ma qui Wenger mi interruppe supplicandomi di esercitare quel minimo di indulgenza che le condizioni del paziente richiedevano.
M’irrigidii. Mi rendevo conto di star trasformando la mia ansia in una sorta di risentimento sordo, e mi trattenni dal proseguire; ma il mio livore surrogava l’incapacità di comprendere. Come potevo tollerare che il mio destino, il centro della mia stessa vita fosse localizzato nella camera di sofferenze di un manicomio che fino a qualche giorno prima mi era noto appena più che per sentito dire; che il mio futuro fosse nelle mani di un uomo che avevo visto una volta e che si esprimeva con una serie penosissima di frasi dalla sintassi contorta; che costui gettasse un’ombra sui miei figli, quasi una maledizione? Respirai a fondo. Cercai di calmarmi dicendomi che dovevo riprendere a osservarlo con occhio clinico.
Wassermann diventava sempre più gioioso ed agitato, riprendeva le forze a vista d’occhio, e raccontava ad alta voce storie tra le più incredibili, farcendole di nomi e cognomi. Il direttore mi fece presente che questa era la caratteristica per la quale il malato si era fatto notare dagli infermieri da quando era stato ricoverato allo Sternenberg. Abbassando gli occhi, quasi non volesse ammettere la liceità di quello che stava per dire, aggiunse che Wassermann sembrava poter prevedere brevi frammenti di futuro. Questa sua capacità divinatoria si manifestava nei rari intervalli che il sonno gli lasciava; in queste crisi in cui era sotto la presa del demone della preveggenza egli si lasciava andare a un carosello linguistico che era lo spasso dei suoi compagni di malattia. A uno di questi momenti ebbi il privilegio di assistere; mi annotai mentalmente alcune date e alcuni nomi menzionati in quel soliloquio vertiginoso, con l’intenzione di controllarli in futuro. Disse più volte, con grande enfasi, che non aveva ucciso la giovane Greta. Nessuno capì di chi parlasse. Wassermann sembrò peraltro avere la delicatezza di non menzionare altri episodi futuri che mi riguardavano – una cortesia che solo molto tempo dopo ebbi l’opportunità di valutare per tutta la sua generosa grandezza. Disse anche che il nostro incontro allo Steinhof era stato la più grande e perfetta emozione della sua vita. Quando fui sul punto di partire mi accorsi che la sua euforia era al massimo; ma non sembrava che egli fosse contento di vedermi partire, quanto piuttosto che lo rendesse felice il fatto che io fossi lì, davanti a lui, ancora per un momento. Ripeté ancora una volta che le sue conoscenze erano soltanto ricordi, e mi strinse calorosamente la mano, con l’aria felice e sorpresa, quando me ne andai. Il direttore Wenger insisté perché io rimanessi al sanatorio ancora qualche giorno, ma tanto era il mio turbamento che mi feci accompagnare all’albergo, dove rimasi per tutta la giornata successiva, incapace di fare o di pensare. Non sapevo che cosa desiderare. Che Wassermann guarisse, o che scomparisse dalla faccia della terra. La sua non era certamente una malattia alla quale potessi dedicare le mie ricerche; troppo vicina, e troppo lontana a un tempo. Verso sera, mentre stavo per partire per Berlino, Wenger mi telefonò per dirmi che Wassermann era disceso in uno strano sogno a occhi aperti, come a volte si riscontra prima di un delirio.
Dal torpore Wassermann si risvegliò qualche mese più tardi. Una mattina uscì per la passeggiata con un’infermiera che era stata da poco assunta; sulla strada del ritorno la ragazza scivolò in una scarpata. Non si riuscì ad accertare se di incidente si fosse trattato, o di omicidio. Wassermann non rispose alle domande del giudice che l’interrogò, e rimase nella più completa astrazione di spirito al processo in tribunale. Sembrava sinceramente stupito di essere accusato di un fatto che, diceva, gli era del tutto sconosciuto. Il direttore Wenger tuttavia testimoniò che nella conversazione avuta con me in marzo Wassermann aveva professato la sua innocenza per la morte di Greta; dato che all’inizio della primavera l’infermiera non era ancora stata assunta, si vide in questa avventata asserzione di Wassermann un sospetto di premeditazione. Si preferì rinchiuderlo in un istituto più sicuro, e fu così che egli passò i sette anni seguenti nel manicomio criminale di Zurigo. Ci volle del tempo perché venissi a sapere dell’incidente e del processo; all’epoca ero più spesso oltreatlantico che sul continente, e mi capitava raramente di leggere giornali svizzeri. Mi ero tuttavia ripromesso di tornare ...

Indice dei contenuti

  1. Wassermann, o dell’amicizia
  2. Breve incontro americano
  3. La pazzia dei sensi
  4. Una camera con vista da nessun luogo
  5. Da una stazione di posta
  6. Alea
  7. La lingua degli angeli
  8. Antonio Giona
  9. Corso Buenos Aires
  10. Sotto un cielo dorico
  11. Il cinema di Dio
  12. All my tomorrows
  13. Giornale filosofico